Visti e sentiti nel 2021 (prima parte)

Eccoci arrivati come ogni anno agli articoli di riepilogo di fine stagione. Una summa veloce e senza fronzoli – o forse con ? – del meglio del meglio dell’anno appena trascorso, qui, alle nostre latitudini, nel piccolo blog dedicato alla Libertà di stampa e al diritto all’informazione. Un posto davvero minuscolo dove le notizie non corrono veloci –  per parafrasare il motto di un noto network radiofonico –  e dove i fatti  provano a sovrastare le opinioni. Chiediamo anticipatamente scusa a tutti coloro che non riusciremo a citare in questi due articoli riepilogativi. E chiediamo anche venia per le immagini che utilizzeremo per commentare questi resoconti, immagini estratte a casaccio dal web e che raccontano il nostro “marchio”, attraverso i marchi di altri. Uno scherzo insomma, come ci piace fare qui a bottega, ma con un fondo di serietà. Aziende, serie televisive, prodotti o “chissacosaltro”, trovati alla rinfusa curiosando sul motore di ricerca supremo e assoluto, di cui non facciamo il nome per sommo pudore. Come l’immagine di apertura di questo post, tratta come si legge nella scritta sotto il marchio,  da una serie di qualche tipo, forse francese, visto che la foto riportata proviene dal sesto episodio della medesima,  ed è appunto scritta nella lingua dei nostri cugini transalpini.

L’anno che volge al termine era stato aperto sulle nostre pagine da un tema – la crisi dell’Inpgi –  che è giunto proprio nel 2021 e direttamente nell’ultima Finanziaria, a conclusione. L’Inpgi confluirà nell’Inps, almeno per ciò che riguarda i giornalisti con contratto; e rimarrà in essere – anche perchè in ottima salute “economico/finanziaria” –  per quanto riguarda il resto dei lavoratori del comparto giornalistico: i cosiddetti “free lance”. Categoria nella quale alberga – oramai da tempo – la parte maggioritaria degli addetti ai lavori. Scopriremo meglio e con maggiori particolari nei prossimi mesi l’articolazione di questa rivoluzione “epocale” del nostro comparto. Ad oggi abbiamo la certezza che tutte le speculazioni  nate, nutrite e diffuse nel tempo, sulla “fine” del nostro ente previdenziale, sono state azzerate, in presenza di un “new deal” effettivo e in corso di realizzazione.  Miracoli del Governo di larghe intese? Chissà, staremo a vedere. Nel nostro piccolo in quell’articolo  di un anno fa in cui si parlava di Inpgi,  si diceva pressappoco così:

 

 

 

 

 

Ma se la questione che ci si pone è: come salvare l’Inpgi? Allora NON C’E’ SCAMPO. Non esiste alcun motivo di salvare alcunché. O meglio. Non esiste alcun problema con l’Inpgi. I giornalisti dipendenti dovranno di buon grado essere convogliati dentro l’Inps, mentre il resto – ovvero la gran massa dei giornalisti italiani – hanno tutti i diritti di conservare il proprio ente previdenziale. Non solo ne hanno il diritto, ma hanno anche i fondi, il denaro, le possibilità economiche, per farlo. Perché come ben sappiamo, ad essere in crisi totale e senza alcuna possibilità di risollevarsi, è l’Inpgi 1, ovvero la parte dell’istituto che si occupa di gestire le risorse previdenziali dei giornalisti dipendenti. Mentre l’Inpgi 2, la parte della cassa dedicata ai liberi professionisti, gode di ottima salute e prosperità economica.

Stante così le cose, perché dunque affannarsi alla ricerca di una salvezza per tutto l’Inpgi? Stacchiamo la parte malata, da quella sana, e procediamo.

 

 

 

 

 

Un fulmine a cielo quasi del tutto sereno,  arriva improvviso, ma non inaspettato, con  la sconfessione pubblica di un Presidente americano dai social, in particolare da Twitter. Un’esclusione a divinis  che in molti hanno commentato e che a noi ha suggerito più di un articolo e molte riflessioni sulla censura ai tempi di internet e sul ruolo delle OTT dette anche “meta nazioni digitali” (nella bellissima definizione di Nicola Zamperini), o anche techno corporation. Da quegli articoli il passaggio che oggi come allora ci fa letteralmente accapponare la pelle è questo stralcio tratto da un’intervista all’ex presidente della Camera Luciano Violante. Un’istantanea che non lascia scampo nella sua solo presunta – a nostro avviso –  “ineluttabilità”:

 

 

 

 

 

 

“Queste aziende hanno la sovranità digitale in uno spazio nuovo colonizzato solo da loro.

 

Le “compagnie del digitale”, potremmo definirle così, hanno un potere politico di fatto che nessuno ha mai avuto: hanno una funzione regolatrice della vita dei privati e degli Stati, rendono servizi indispensabili e per questo condizionano la qualità dell’attività privata e pubblica. Se decidessero di staccare la spina tutte insieme il mondo smetterebbe di funzionare”.

 

 

 

 

 

Se così fosse, Caro Presidente, avremmo già perso tutti, senza scampo e senza alcuna possibilità di trattativa. Auguriamoci dunque di poter far andare diversamente le cose, o almeno da oggi, di poter cominciare a lavorare per fare in  modo che questo accada. Altrimenti saranno dolori. Lancinanti. Diamo spazio e credibilità dunque a Sir Tim Berners Lee e al suo “nuovo contratto per l’Umanità”. Da questo documento fondativo,  potremmo provare a ripartire.

LSDI means – language system diagnostic instrument

 

 

 

 

 

Per i Governi:

 

Assicurati che tutti possano connettersi a Internet

Mantieni disponibile la rete Internet, tutta e sempre

Rispetta e proteggi il fondamentale diritto delle persone alla privacy e al controllo sui propri dati

 

Per le Aziende:

 

Rendi internet conveniente e accessibile a tutti

Rispetta e proteggi la privacy e i dati personali di ognuno per creare fiducia online

Sviluppa tecnologie che supportino il meglio dell’umanità e contrastino il peggio

 

Per Noi tutti

 

Cerchiamo di essere tutti creatori e collaborativi sul web

Costruiamo comunità forti che rispettino la civiltà e la dignità umana

Lottiamo per il web in modo che rimanga aperto e sia una risorsa pubblica globale per le persone di tutto il mondo, ora e in futuro

 

 

 

 

 

 

 

In un mondo in cui sono e saranno sempre più le macchine a “costruire la realtà” è fondamentale non dimenticare il funzionamento di questo processo. In particolare: proprio il modo in cui operano tali macchine. Come ci hanno spiegato in modo lucido e assennato in un volume intitolato “Capra e calcoli” due autori davvero particolari come il romanziere “giallo-comico”, Marco Malvaldi e il fisico Dino Leporini:

 

 

 

 

 

 

è sempre necessario rendersi conto che il computer, quando lavora, computa: ovvero, esegue un ordine. Risponde a una domanda che noi gli abbiamo posto con un modello che noi gli abbiamo programmato. Quando il computer risponde, ci sta dicendo come si comporta il nostro modello, non la realtà. Sembra una affermazione piuttosto banale, ma non sono pochi i casi in cui l’utente dimentica questa fondamentale differenza.

 

 

 

 

 

 

Quando è successo che dal modello previsionale studiato per supportare al meglio le azioni e le decisioni umane,  siamo passati alla modellazione della realtà partendo dal calcolo?  Come è stato che invece di partire dall’osservazione del reale per realizzare i modelli computazionali ci siamo ritrovati alla tessitura diretta del nostro mondo fisico, partendo  – viceversa – dal digitale, dal computerizzato?

 

 

Per dirla col grande filosofo Edgar Morin :” in questo secolo appena iniziato si sta formando l’infrastruttura di una società-mondo che è ancora in gestazione, ma che noi dobbiamo aiutare a nascere”.      E invece,  come diciamo spesso da queste parti, la società mondo evocata da Morin l’hanno già confezionata di tutto punto i magnati – ex techno nerd – della Silicon Valley, con buona pace del filosofo francese e di tutti coloro – noi compresi – i quali pensano alla rivoluzione digitale come ad una opportunità eccellente. Gli imprenditori l’hanno confezionata – ovviamente – a loro uso e consumo. E per trarne il massimo profitto possibile. Del resto sono imprenditori, mica filantropi.

 

 

Ma per fortuna ci sono altre persone. Signori avveduti e informati. Uomini che pensano al bene comune, e non solo a se stessi. E che ribattono a posizioni come queste con passione sincera e disinteressata, ad esempio, lo scrittore Nicola Zamperini, cercando di riportare luce e chiarezza in questo universo digitale,  reso nebuloso e oscuro suo malgrado da profittatori e millantatori:

 

 

 

 

 

 

 

Il web non è Facebook e nemmeno Google. Pure se le piattaforme rappresentano per miliardi di persone il web, perché vi trascorrono buona parte della loro esistenza digitale, il web è molto altro. E’ molto di più: esistono altri social network e altri motori di ricerca, altri sistemi di messaggistica fuori da queste due aziende.
Il web ha introdotto, fin dalla sua nascita, la possibilità di condividere contenuti. E questo è magnifico, ha aperto il mondo, ha spalancato possibilità inedite. Adesso due monopoli mondiali hanno fatto razzia di questo principio meraviglioso. Colpire i monopoli non significa colpire il principio. Tantomeno colpire il web. 
Il giornalismo produce contenuti, le piattaforme no; semmai le piattaforme ordinano i contenuti. Ordinare è essenziale nella vita degli esseri umani. Quando non c’era Google, e nemmeno Facebook, esisteva già. Omero elencava le navi e i condottieri nell’Iliade per stabilire chi fossero i potenti del tempo, chi meritava di essere ricordato, celebrato.
Chi costruisce elenchi esercita sempre un potere rispetto ad altri poteri.
E per il momento è tutto, a risentirci fra sette giorni. Nel 2022. Auguri a tutti.