Profondità e superficie

Ogni tanto accade che da queste parti si vada a scavare dentro agli archivi e si propongano contenuti di qualche anno addietro, talvolta anche molti anni, per riprendere segnalazioni, constatazioni, racconti, esperienze e spunti dal passato che ci permettono di “fare il punto” sul presente e magari anticipare – ancora – tendenze future. Proprio così, ancora adesso, alcuni dei contenuti che rispolveriamo dalle nostre o da altrui “teche”, a distanza di anni, talvolta molti, sono ancora all’avanguardia o peggio irraggiungibili, anche adesso. Oggi non saranno i “nostri” archivi ad essere setacciati, ma quelli del blog di un collega con il quale abbiamo condiviso molta strada sul fronte del giornalismo e più in generale della cultura digitale. Il blog si chiama “giornalismo d’altri” e il suo autore è Mario Tedeschini Lalli. Forse sarebbe meglio usare verbi al passato nel descrivere il blog e la sua attività, poichè come potrete constatare Voi stessi, il diario online  del nostro stimato collega non viene più aggiornato da alcuni anni, presumibilmente da quando, Tedeschini Lalli è andato in pensione. L’ultimo post è del 2018. Nel frattempo Mario ha scritto un libro, prezioso, del quale ci occuperemo anche qui molto presto, che si intitola Nazisti a Cinecittà,  al lancio del quale si sta dedicando con vigore e attenzione proprio in questi mesi. Qui trovate una sua  intervista  realizzata qualche settimana fa sui contenuti del libro un collega della radio. Saranno dunque oggi alcuni estratti dal blog di Mario Tedeschini Lalli ad illuminare questi nostri spazi, come già accaduto in passato, estratti davvero utili allora, come oggi, e che riassumono in modo esemplare – almeno questo vorrebbe essere il nostro intento – la nostra e la sua attività nel cercare di avvicinare il giornalismo al mondo digitale (quindi al mondo reale), per comprendere e far comprendere che il cambiamento in corso da alcuni decenni non riguarda la tecnologia ma il tessuto stesso che compone la realtà, l’intero  ordito di cui sono fatte tutte le cose di questo nostro mondo globale. L’inizio di tutto, anche di questo post, arriva dalla spiegazione data dall’autore del blog “giornalismo d’altri” di quali siano stati i criteri per la scelta del titolo del blog, una spiegazione che arriva a posteriori, ben dieci anni dopo,  l’apertura del diario online, dice fra le altre cose Mario:

 

 

 

 

 

Tutti noi che da anni cerchiamo di capire qualcosa di dove vanno il giornalismo e la società digitale dobbiamo interrogarci se non abbiamo “guardato troppo avanti”. Come si diceva del mio idolo politico di gioventù, anche la presbiopia è un difetto – come la miopia. Gli Stati Uniti (ma se per questo anche parte della Gran Bretagna e il Canada) non sono il mondo intero — quindi, sì, vale ancora come monito il nome di questo blog (della serie: “Undicesimo comandamento: non desiderare il giornalismo d’altri”). Per comprendere, occorre anche capire i tempi, le diversità e che il ritmo di “invecchiamento” dei temi a volte è veramente eccessivo e avvertito solo dai “forzati dei convegni”: in fondo di Snowfall ha parlato – in uno dei più importanti convegni americani – la direttrice del giornale solo nell’aprile scorso!

Il rischio, però, è che nel resto del mondo e specialmente in Italia questo possa fornire un’altra scusa per negare l’evidenza di ciò che è mutato profondamente e per evitare di fare i conti con la realtà di un giornalismo che è già totalmente altro. Quindi questo blog continuerà a guardare “di là”, cercando di fare i conti con la realtà “di qua”. Senza illusioni, ma con caparbietà.

 

 

 

 

Come non essere totalmente in accordo con queste sagge e illuminanti parole, e,  nello stesso tempo, – come sovente è capitato allo stesso Tedeschini Lalli nei suoi post – pensare anche ad azioni differenti e ugualmente utili ed efficaci, che, come recita il vecchio adagio: “sono eccezioni che confermano la regola”. La differenza, come dice bene Mario nel definire il suo blog, dopo dieci anni di attività, sta proprio nel comprendere che i mutamenti in corso da oltre trentanni non sono legati a come ci si informa o si comunica ma al modo stesso in cui “stiamo” al mondo. Ad esempio e sempre prendendo spunto da uno degli scritti del nostro prestigioso collega e amico,  – che avevamo già pubblicato anche qui all’epoca della sua prima uscita – pensate a cosa è successo al mondo della radio. Quanti cambiamenti ci sono stati, e molto in profondità, eppure anche, quanto tutto, in fondo, sia rimasto fermo, inalterato, congelato, nonostante le grandi novità portate dal digitale.

 

 

 

 

 

i file audio, o per dirla in modo più popolare e meno preciso, tutta la questione della cosiddetta “Radio su Internet”.

L’utente potrebbe scaricarsi i file dei servizi, dei documentari radiofonici o di intere trasmissioni per ascoltarli magari in macchina o in autobus.

I produttori di giornalismo “parlato” (appunto i radiofonici) sono abituati a fornire un prodotto “sincronico”: ascolti ciò che ti trasmetto in questo momento. Internet è insieme lo strumento di comunicazione ideale per la comunicazione sincronica (chat, messanger, ecc.) ma anche – grazie alle sue capacità archivistiche – è l’ideale della comunicazione “diacronica”, quella che prevede che il messaggio venga utilizzato in tempi diversi dalla sua produzione e pubblicazione.

si può pensare a produrre materiale di accompagnamento agli articoli o – perché no – immaginare materiale autonomo in audio, magari intrecciato con immagini fotografiche (le audiogallerie, i documentari web, prodotti multimediali veramente integrati),

Ma anche limitandoci alla possibilità di produrre e pubblicare facilmente servizi e documentari solo in formato audio le possibilità aperte sono moltissime, purché si ricordi che è inutile e scomodo accendere un computer per “sentire la radio”, mentre potrebbe essere molto utile scaricarsi file specifici da ascoltare quando ci pare a noi.

 

 

 

 

E’ davvero difficile non dire: ma cosa abbiamo fatto in tutti questi anni?   L’articolo di Tedeschini Lalli, già ripreso su questa bacheca ai tempi della sua uscita, – quasi vent’anni or sono –  sembra scritto ieri, al più tardi, qualche mese fa. La corsa al podcast, almeno dalle nostre parti, è entrata nel vivo da poco.  Non solo, pensate al giornalismo e a come a tutt’oggi, questi preziosi e nuovi contributi audio sono arrivati a “farcire” i prodotti dell’informazione professionale.  Ma sono arrivati per davvero? Si certo qualche quotidiano mainstream, forse la Rai, hanno aperto spazi dedicati a documentari sonori. Ma Vi sembra che questi contributi siano davvero entrati nel ciclo quotidiano delle produzioni giornalistiche. Abbiamo davvero  integrato tutto il pregresso dentro alla transizione oppure siamo ancora nella fase della migrazione e dell’adattamento di contenuti di carta o video, o, appunto, audio,  dentro prodotti preesistenti e immutabili, nel quotidiano? Quanto sarà mai difficile progettare e realizzare “ex novo” invece di dover a tutti i costi incastrare “macchine e macchinette” nel processo unico e immutabile di costruzione della  preghiera del mattino dell’uomo moderno?

Perdonate l’evidente retorica, e permetteteci di rilanciare la questione “temporale”, ma, e soprattutto, quella del “dove siamo stati negli ultimi vent’anni” , con un altro freschissimo contributo sulla “transizione digitale” estratto dal blog di Mario Tedeschini Lalli. Il post si intitolava: “A letto con i candidati facendo tutto da soli”  e raccontava, come sempre,  consuetudini e novità del giornalismo. In particolare nel pezzo,  Tedeschini Lalli spiegava il rinnovato ruolo dei giornalisti americani al seguito dei candidati alla presidenza, anche grazie alle enormi potenzialità offerte dal digitale.

 

 

 

 

 

Vivono, mangiano e viaggiano con i candidati. In realtà succedeva anche prima, ma questa volta ci sono due novità: ci sono giornalisti embedded per tutti i candidati sul piede di guerra (novità minore) e si tratta di giornalisti “multimediali” (novità ben maggiore).

 

Significa che ciascuno di essi è provvisto di videocamera digitale, cavalletto, pc portatile con software di editing video e invia servizi televisivi e scritti attaccandosi a qualunque connessione ad alta velocità

 

 

 

 

 

Nella sua apparente vetustà – quando descrive ad esempio il kit del giornalista digitale, oggi basta uno smartphone – questo estratto da un post del 2003 racconta ancora una volta un modo di fare informazione che, lungi dall’esser vecchio, in realtà deve ancora arrivare. Un processo che si deve ancora compiere, configurare, standardizzare. Un formato produttivo, ma soprattutto, culturale, che è ancora lontano dalle redazioni, o meglio, che ancora non si è completamente fuso con la consuetudine, con l’abitudine, con le logiche produttive – precedenti ma ancora molto presenti –  nel ciclo industriale dell’informazione. Fino ad oggi, nelle redazioni, e – purtroppo – anche dentro le sedi del sindacato unico dei giornalisti, si continua a discutere di figure ibride, di assunzioni di tecnici da integrare ai giornalisti nella produzione di contenuti, di contratti giornalistici da estendere a nuove figure professionali da inserire dentro ai giornali.

Come direbbe il grande Gino: “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Stiamo ancora pensando – reggetevi –  alla transizione. Ma quello che nel frattempo è davvero accaduto e che ci dovrebbe spaventare a morte – mentre non ci adeguavamo e rimandavamo ad libitum la presa d’atto dell’avvenuto cambiamento –  è come il mondo, tutto il mondo non solo quello dell’informazione, sia cambiato in profondità in questi vent’anni. E come questo cambiamento non sia in alcun modo positivo. Quando si sente dire che l’Italia, unico paese europeo, ha oggi salari più bassi dei vent’anni precedenti, forse non dovremmo fare “gli italiani”, e scuotere la testa sconsolati. Forse sarebbe il caso di reagire con forza, – come dire – alla “francese”.

Vent’anni fa i precari di redazione erano ancora i giornalisti di domani –  in una percentuale piccola ma accettabile alla luce di quello che è successo dopo, si veniva assunti alla fine –  oggi non c’è più alcuna redazione in cui fare gavetta/precariato. Ci sono solo free lance ovunque – non c’è più neanche l’Inpgi per gli assunti, come ben sappiamo – ci sono solo “liberi professionisti” che lavorano come schiavi “rigorosamente non assunti” per le stesse redazioni –  o quello che è rimasto di esse  dopo vent’anni di crisi pesante del settore –  e la preoccupazione di queste persone non può essere il giornalismo, o come sbandierano “soloni di vario tipo a destra e a manca”,  la ricerca del giornalismo di qualità. L’unica preoccupazione per questi giovani italiani non può che essere la propria sopravvivenza. Nient’altro. La lastra su cui camminiamo è sempre più sottile, sempre più superficiale, e fragile, e quando pensiamo alla profondità non lo facciamo con l’intento di comprendere meglio, in modo articolato, più denso e consapevole. Quando guardiamo sotto, è solo per paura, per non affogare.

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)