Viva la stampa morta e viva

Abbiamo questa raccolta di articoli del nostro passato sui cui riflettere e poi ricominciare a pensare e poi dopo riflettere un’altra volta. Scherzi a parte, questa settimana facciamo una capatina nel nostro passato. Apriamo l’archivio di questo blog. Passato perchè risaliamo la china degli articoli fino quasi alla sua origine. Capatina perchè proveremo a prendere di fiore in fiore,  come api per il miele, il meglio di quello che in epoche lontane, addirittura, primordiali, – e grazie al grande acume e giornalismo del nostro fondatore Pino Rea – si trovava già allora sulla stampa mondiale,  di argomenti a noi cari come:  web, trasformazione digitale, nuovi modelli, stampa e giornalismo. Ad esempio a settembre del 2006 dalla Francia arrivava un contributo modernissimo –  ancora oggi – a firma Benoit Raphael  che si confrontava – già allora – con un articolo dell’Economist dove le campane a morte per il futuro “prossimo” della carta stampata rispetto al digitale stavano già suonando a distesa.  A far paura, all’epoca, c’erano soggetti come My Space, – in questo specifico caso ha vinto la carta a quanto pare – ma rimangono profetiche le parole di Raphael quando scriveva ad esempio che:

 

 

Ma  è chiaro che i giganti della carta devono fare oggi come facevano i nostri nonni: allevare i figli per assicurarsi la pensione. La carta che guadagna soldi deve investire nell’’online, che per ora non guadagna, in modo che domani l’’online possa far vivere la carta.

 

Il business model della carta non ha, matematicamente, un futuro, ma la carta ne ha ancora, fino a nuovo ordine, perché contribuisce a consolidare il marchio. Quelli che affermano il contrario non sono degli strateghi.

La stampa è morta? Viva la stampa!  La stampa oggi, soprattutto quella locale, è prima di tutto una comunità, un marchio. E’ un solco tracciato anno dopo anno nel paesaggio della popolazione. Mezzo secolo fa,  ricorda Loïc Le Meur, Arthur Miller diceva già che un buon giornale era una nazione che parlava a se stessa. E’ su questa base ancestrale che riposa il vero modello economico della stampa di domani: la comunità. Non la sola vendita di contenuti, che per il momento non prefigura nessun business model promettente

 

 

 

Perchè a volte è bene – pensiamo qui a bottega – ritornare sui nostri passi, rivangare il passato, riportare alla luce quei passaggi che hanno portato il mondo – in questo caso dell’editoria e del giornalismo – ad essere giunto al punto in cui è oggi. Le teorie di Raphael sono moderne, modernissime, e decisamente attuali, 16 anni dopo, e quello che succedeva  e che descrivevamo in un articolo del novembre di quello stesso anno ne è una prova concreta.

 

 

 

 

Un consorzio di sette catene di quotidiani  – 176 testate – ha firmato una partnership con Yahoo per la condivisione di contenuti, inserzioni e tecnologia.

L’’accordo mira da una parte a rilanciare al meglio Yahoo, soprattutto nei confronti del gigante Google, che recentemente aveva firmato una simile partnership con 50 testate. Mentre per i giornali si tratta di recuperare quei lettori e inserzionisti persi a favore di internet.

 

 

 

 

 

E ho detto tutto, no? In pochi rapidi passaggi ecco riepilogata tutta la storia recente dell’editoria analogica e di quella digitale. Tutti i passaggi – ancora attuali e non scontati – attraverso i quali siamo passati e che stiamo in parte ancora  attraversando, per trovare un giusto nuovo assetto fra editori analogici e digitali, fra informazione e modelli di sostenibilità; per definire in modo corretto il rapporto tra piattaforme e contenuti o meglio tra gestori delle piattaforme e fornitori di contenuti per le suddette piattaforme. Perchè poi nello stesso articolo del novembre del 2006 in cui si parla già dello strapotere di questi gestori, che poi scopriremo essere techno corporation e qualche tempo dopo essere divenuti addirittura meta nazioni digitali, e poi chissà cos’altro;  quando al posto del web così come lo conosciamo oggi, andremo a vivere e lavorare dentro  i metaversi prossimi venturi? In quello stesso articolo 16 anni fa si leggeva anche che:

 

 

 

L’avete sentita la notizia di oggi dell’accordo di Yahoo con 150 e passa giornali (qui il pdf di oltre 2mb della presentazione).

Sapete che cosa significa nei fatti (oltre a mille altre cose)?

Significa che è stato fatto un altro passo storico verso la trasformazione di Yahoo! (e Google) in azionisti di maggioranza della carta stampata mondiale.

Ora se siete tranquillizzati dalla reazione abbastanza indifferente della nostra stampa dobbiamo ricordare che G e Y non sono più da un pezzo due semplici “motori di ricerca”.

Google e Yahoo! sono, lo ricordiamo, due società media in crescita esponenziale.

 

 

 

A dirlo allora, che Y e G, nel 2006, erano: società di media in crescita esponenziale, non eravamo solo noi che non contavamo e non contiamo un’emerita, ma anche Marco Montemagno, – persona influente e molto ben informata sui fatti – che già allora teneva una rubrica sui mondi “digitali” in tv. Mica noccioline. Questo succedeva sedici anni fa,  e succede – purtroppo –  ancora oggi. Cambiano le prospettive, ma gli attori non sono molto diversi e anzi, a nostro avviso, la percezione comune è peggiorata rispetto alle problematiche in discussione. Il valore oggettivo delle questioni si è andato via via perdendo. Il senso delle cose preziose per cui battersi è andato scemando, e sono rimaste in campo, “robe” che  un tempo classificavamo come marginali,  se non del tutto ininfluenti. In altri termini le “distrazioni di massa” hanno sostituito via via i contenuti di qualità, con buona pace di tutti coloro che ripongono fiducia e  “capitali” nel giornalismo di qualità (trovarlo). Chissà dove sarà andato a finire e in quale remoto cassetto potrebbe essere stato riposto. Continuando a frugare nella “nostra” memoria, ripeschiamo un articolo di sei anni più giovane, siamo nel 2012, in cui l’analista dei media Alan Mutter riporta in auge gli stessi identici argomenti del 2006, riveduti, aggiornati e corretti, ma uguali:

 

 

 

Il “noi parliamo, voi ascoltate” delle pagine Facebook mantenute dalla maggior parte dei giornali quasi universalmente non riesce a costruire una comunità, che è poi il punto cardine dei social media.

Il lettore medio dei quotidiani su carta è una donna sui 60 anni

L’ utente del sito web di un giornale è in media un po’ meno di genere femminile dell’abbonato alla stampa e ha poco più di 50 anni

il futuro delle loro attività appare limitato alla speranza di vita e all’invecchiamento dei loro lettori storici.

gli editori sono rimasti inchiodati ad un’offerta pubblicitaria indifferenziata rispetto a target diversificati, e ad una vendita massificata delle loro categorie di segmenti di stampa

 

sarebbe sensato se il settore decidesse di condividere le proprie risorse per creare dei Progetti per Applicazioni Digitali e realizzare così dei prodotti capaci di competere con i nuovi arrivati.

Il momento di agire è adesso. La gara non potrà che diventare più serrata, con Groupon, LinkedIn, Facebook, Twitter, Yelp e una miriade di pretendenti

 

 

 

 

Definire gli attori in campo e la loro effettiva potenza di fuoco, era allora, (nel 2006 e poi anche nel 2012), e rimane oggi, uno dei problemi principali. Peccato che nel frattempo il terreno di gioco, per rimanere nella metafora sportiva, sia diventato di proprietà assoluta e totale, di alcuni specifici giocatori. E siamo tornati a parlare delle meta nazioni digitali così come Nicola Zamperini le ha opportunamente battezzate in epoca non sospetta. E proprio con una notazione estratta da uno degli ultimi scritti del collega e amico romano, che  vorremmo concludere questa nostra breve cavalcata nel passato. Una nota apparentemente fuori contesto, Zamperini si dedica alla questione LaMDA,  ma che a nostro avviso invece ben si sposa con i temi che abbiamo appena affrontato. Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)

 

 

 

 

Il filosofo Luciano Floridi sostiene che: “ci si può arrabbiare con la tecnologia.  per dire con la lavastoviglie che non ha fatto il suo lavoro, ma non serve a molto”. E aggiunge: “se si continua a dire che sta per arrivare l’intelligenza artificiale, come in Guerre Stellari, prima o poi qualcuno ci crede”.  Avvertimento, quest’ultimo,  da inoltrare a Elon Musk, direi.

Mi chiedo se i filosofi non debbano tentare di essere i tafani sui cavalli di razza delle aziende tecnologiche, nuove potenti polis, e non tramutarsi in cantori rassicuranti di queste stesse polis digitali.