Inpgi si, Inpgi no, Inpgi forse

Inpgi è un acronimo che sta per Istituto Nazionale Previdenza Giornalisti Italiani. L’Inpgi, è l’ultimo rimasto, dei tanti istituti di previdenza di settore, scomparsi, per legge, riforma dopo riforma, negli ultimi decenni. Un tempo molte categorie professionali avevano il proprio ente previdenziale. Oggi solo i giornalisti conservano questo diritto, il resto del mondo è stato piano piano convogliato dentro l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale – INPS. Sui motivi dell’abolizione e del convogliamento sono stati scritti fiumi d’inchiostro, sul perchè l’Inpgi è rimasta e ha conservato questo status, garantendo indipendenza “previdenziale” alla categoria dei giornalisti ci sarebbe da dire molto. Tralasciando i motivi di ordine squisitamente amministrativo, il tema dell’indipendenza della stampa dovrebbe, invece, continuare ad essere posto e a  farci riflettere in ogni sede, ordine e grado. Ovviamente non è nell’esistenza in vita dell’Inpgi che va ricercata  la garanzia di indipendenza della stampa, ma certamente anche dentro a questa istituzione possono trovare albergo motivazioni e credenziali utili a comprendere la delicatezza della questione.  Il “quarto potere”, che potere non è, e che mai dovrà/dovrebbe essere diventare/diventato “potentato, casta, o peggio ancora”, se avesse voluto e/o vorrà conservare la propria “funzione specifica” deve cambiare le proprie regole, almeno qui da noi. In Italia, il quarto potere,  è governato da regole/leggi:  obsolete, sorpassate, e oramai del tutto inutili, alla stessa categoria che vorrebbero tutelare. Inoltre nella massa di leggi, leggine, codici deontologici, e carte varie, manca la regola principe di tutela per una professione “rischiosa e complessa” come è quella del giornalista. Una regola che tuteli a priori i professionisti del giornalismo durante l’esercizio della propria professione. Un codicillo di cui sono dotate la maggior parte delle “arti e dei mestieri” anche nel BelPaese, ma che i giornalisti non detengono. Chissà perché? Forse perché fa troppo comodo al “potere” essere in grado – sempre e a priori – di strumentalizzare la funzione giornalistica? Senza questa legge di tutela,  svolgere la nostra professione in Italia,  diventa una sorta di roulette russa.  Se non sei un giornalista “dipendente”, al soldo di una potente e accreditata testata, meglio se nazionale, – sovente anche se lo sei -,  rischi la pelle ogni volta che apri un file, batti un tasto di una oramai obsoleta “lettera 32”,  o peggio,  intingi il pennino d’ordinanza nel calamaio della vita.

 

 

Allora se la questione fosse:  come tutelare i diritti dei giornalisti che svolgono la loro professione;  forse riusciremmo a venirne fuori, persino ora – dentro la rivoluzione digitale – nel bel mezzo di questo cambiamento epocale,  e sommersi – come pensano in molti e a torto – dall’onda montante delle “bufale informatiche”. Ma se la questione che ci si pone è: come salvare l’Inpgi? Allora NON C’E’ SCAMPO. Non esiste alcun motivo di salvare alcunché. O meglio. Non esiste alcun problema con l’Inpgi. I giornalisti dipendenti dovranno di buon grado essere convogliati dentro l’Inps, mentre il resto – ovvero la gran massa dei giornalisti italiani – hanno tutti i diritti di conservare il proprio ente previdenziale. Non solo ne hanno il diritto, ma hanno anche i fondi, il denaro, le possibilità economiche, per farlo. Perché come ben sappiamo, ad essere in crisi totale e senza alcuna possibilità di risollevarsi, è l’Inpgi 1, ovvero la parte dell’istituto che si occupa di gestire le risorse previdenziali dei giornalisti dipendenti. Mentre l’Inpgi 2, la parte della cassa dedicata ai liberi professionisti, gode di ottima salute e prosperità economica.

 

 

Stante così le cose, perché dunque affannarsi alla ricerca di una salvezza per tutto l’Inpgi? Stacchiamo la parte malata, da quella sana, e procediamo.

 

 

Ma il problema, come abbiamo provato a dire qui sopra non è lo stato dell’Inpgi, bensì il senso della professione giornalistica, all’alba del terzo millennio e dentro alla rivoluzione digitale. Ripristinare la “funzione giornalistica”, come andiamo “cianciando” da tempo, per garantire, ove sia ancora possibile, alle persone, la capacità di informarsi in piena libertà e autonomia. Avendo accesso a tutte le “fonti” e non solo a quelle che l’algoritmo decide di farci vedere. La funzione giornalistica per poter essere esercitata necessità di professionalità e non di casualità. E la professionalità deve essere tutelata, salvaguardata e “soprattutto”, opportunamente remunerata.

 

 

Allora come fare? Certamente non come si è fatto –  o meglio non si è fatto – sino ad ora. Cercando in tutti i modi di fingere di cambiare qualcosa per non smuovere nulla. Il cambiamento deve essere radicale e deve coinvolgere il “pubblico”, inteso come apparato di garanzia e tutela della funzione giornalistica. Se e fino a quando,  l’Ordine dei giornalisti sarà un ente di diritto pubblico, ogni riforma della professione giornalistica, non potrà che essere una riforma scritta, concertata e realizzata di comune accordo con il “pubblico”. E non stiamo parlando – sigh –  delle decine di proposte di riforma sottoposte al Parlamento negli ultimi cinquantanni. Inutili specchietti per le allodole del potere; legislazione dopo legislazione. Mai giunte alla discussione e al conseguente voto dell’aula. Stiamo parlando di un’ipotesi di riforma che parta dall’introduzione della professione giornalistica fra quelle tutelate dallo Stato nel proprio “esercizio” non a parole – belle ma purtroppo inutili – ma nei fatti e nella concretezza di una legge apposita. Del resto la realtà dei fatti oggi più che mai, vede invece il Parlamento, ancora e sempre, impegnato a discutere di un’inutile legge sulla “diffamazione” e alle conseguenze, perlopiù penali, che tale reato ha e può avere per i giornalisti. Niente di male, intendiamoci, nel voler tutelare chi potrebbe essere diffamato da un uso scorretto della “stampa”, ma, non è discutendo dell’utilità e del senso delle zanzare che potremo risolvere il problema della fame nel mondo.

 

 

Con la rivoluzione digitale il modello industriale dell’editoria dell’informazione è tramontato. Servono nuovi modelli. Mentre gli industriali li cercano, – ammesso che  li stiano davvero cercando – ; se si pensa che il giornalismo serva al Paese e al Mondo, bisogna preoccuparsi di ripristinare la  funzione d’uso del medesimo. Restituendo dignità e attualità alla professione. Per farlo servono nuovi occupati e dipendenti, oppure, servono nuove regole e tutele legali per tutti. O meglio, servono tutte e due le cose.

 

 

I giornalisti dipendenti non bastano a salvare i conti dell’Inpgi? Bene, convinciamo gli editori ad assumere, non a licenziare o pre-pensionare i giornalisti. Come si fa? Intanto rendendosi conto che mentre l’editoria mainstream precipita a fondo, è nata  e prospera un’altra editoria –  quella online – nazionale, regionale, locale e iperlocale che ha un bisogno disperato di regole certe per poter assumere  e mettere in regola  centinaia di addetti. “Personale qualificato” che da anni – decenni –  opera senza regole, senza contratto, senza ammortizzatori sociali, senza un sindacato che li rappresenti e tuteli.  Considerando nella giusta prospettiva tutte le realtà regionali, locali e iperlocali che operano nell’editoria – minore – di ogni ordine e grado: carta stampata, radio, televisioni. Quello che sta succedendo nella stampa online in fondo era già successo con l’avvento delle radio e delle tv locali. Con l’avvento delle “private” arrivarono decine di migliaia di posti di lavoro anche nel giornalismo in Italia, ma è bastata una ventata un pochino più forte – non una tempesta e nemmeno una rivoluzione badate bene – ma la leggera brezza – mal interpretata e soprattutto mal gestita –  del digitale terrestre a falcidiare redazioni e desk vari,  e a ridurre quasi a zero i giornalisti operanti nelle radio e tv regionali, locali e iperlocali.

 

 

 

Ignorare il senso profondo della trasformazione digitale – per dirla con il grande Piero Dominici:  “la complessità del cambiamento in atto” – arroccandosi sulla difesa a oltranza di posizioni obsolete, non solo non fa progredire nessuno, ma porta sempre di più alla perdita di diritti e regole,  raggiunti con difficili e talvolta sanguinosi anni di lotte. Quello che vale per il comparto giornalistico vale per la maggior parte dei settori della produzione. Se il modello produttivo che va per la maggiore è quello delle grandi techno-corporation: Google, Amazon o Facebook; allora quei modelli dovrebbero – prima di tutto – essere nati e prosperare in un alveo di garanzie e diritti preesistenti e preordinati, non certo nel selvaggio west dove tutto è lecito e dove le regole non esistono, oppure sono stabilite esclusivamente dalla proprietà, magari con l’ausilio dei famigerati algoritmi.

 

 

Non servono crociate, non servono favori, non serve certamente inserire forzosamente nel bacino produttivo del comparto dell’informazione figure professionali che con questo mestiere nulla hanno a che fare. Non servono proclami, ne suppliche. Ragionare seriamente sulla riforma del settore, quello sì, quello servirebbe, soprattutto per evitare di credere che l’informazione sia in grado di  autotutelarsi. Anche perché se così fosse, – e non è – ci troveremmo difronte ad un problema ancora più grave: chi sorveglia i sorveglianti?