Nuove categorie professionali nell’editoria: criticità e prospettive (pt2)(sg)

La seconda parte della nostra cronaca della giornata degli Stati generali dell’editoria dello scorso 4 giugno dedicata, come dice il titolo, alle nuove professioni dell’editoria, si apre con l’intervento dell’allora Presidente della Federazione Italiana Relazioni Pubbliche – Ferpi – Pier Donato Vercellone. Nei mesi successivi i vertici della Ferpi sono stati rinnovati. L’attuale della Federazione è Rossella Sobrero. La prima parte del post si concludeva con l’intervento del “moderatore” del dibattito, il consigliere del dipartimento dell’editoria Ferruccio Sepe, ribadendo il tema in discussione, ovvero le nuove professioni dell’editoria,  ricordava come i social, in particolare per la pubblica amministrazione, siano uno strumento da maneggiare con estrema cura e soprattutto con cognizione di causa. E segnalava l’esempio, molto recente al tempo del dibattito, della querelle fra il social media manager dell’Inps e alcuni utenti sulla bacheca di facebook dell’ente, sul tema del “reddito di cittadinanza”. Continuiamo dunque la nostra analisi dell’incontro proseguendo nell’estrazione dei passaggi salienti degli interventi degli esperti e del pubblico presenti all’evento, buona lettura:

 

 

Pier Donato Vercellone: In generale da alcuni studi possiamo dire che i comunicatori in Italia sono circa 100.000.  Credo più o meno come i giornalisti. Da quanto mi risulta, il mercato che potenzialmente si muove,  credo sia  intorno ai 24 miliardi di euro.

Secondo la ricerca dell’ Edelman trust barometer che ogni anno misura il rapporto di fiducia tra cittadini consumatori con grandi enti, istituzioni, mondo politico, media, quest’anno c’è stata un’inversione di tendenza. Le imprese sono gli organismi che in un certo modo sono diventate i principali ricettori di fiducia o  diffusori di fiducia, per cittadini e consumatori. Una volta non era così. Quindi all’impresa viene dato anche un ruolo di attore sociale. La costruzione di fiducia è un valore. Le aziende stanno diventando delle media company. Significa che le aziende sono effettivamente dei divulgatori di informazione. Se vediamo quelli che vengono definiti gli home media, ovvero i siti delle aziende, ma anche i siti della pubblica amministrazione;  sono diventate nell’immaginario collettivo delle fonti di informazione primaria. Un istituto di ricerca internazionale, Il reputation institute,  ha evidenziato che nella costruzione della reputazione i cittadini non hanno pià come riferimento  la pubblicità, quelle che vengono definite le attività di pr. A ispirare i comportamenti delle persone sono invece gli home media. I cittadini credono molto ai siti web delle aziende, li usano, li vedono, navigano. Questo è fondamentale, perché le aziende e tutti gli enti no profit, diventano delle media company.

L’inpgi. Noi siamo molto consapevoli della sensibilità del tema. Nessuno di noi vuole vedere fallire una cassa che rappresenta una grande forza per il Paese, che è appunto quella dell’informazione, del giornalismo. Però secondo me siamo partiti dal fondo. Se volevamo creare un dialogo, costruire una proposta unitaria, credo che non si dovesse partire dai contributi previdenziali, quello al limite potrebbe essere la conseguenza finale di un discorso.  Invece siamo partiti dal fondo. E’ stato detto:  prendiamo  i contributi previdenziali dei comunicatori, salviamo la cassa, e poi si vedrà.  Secondo me forse non è questo l’approccio più corretto.  L’approccio più corretto è:  troviamoci tutti intorno a un tavolo, valutiamo quelli che possono essere i pro e contro, cerchiamo di capire in modo sensibile quali possono essere le opportunità, ma anche i rischi, e lavoriamo assieme.

L’intelligenza artificiale, che è assolutamente uno dei temi che si sta affacciando,  un po’ può mettere a rischio anche la nostra professione. Noi dobbiamo gestire bene questo passaggio. Essere consapevoli, essere molto attenti, usare deontologia e etica per evitare di essere sopraffatti dalle macchine.

 

 

 

Roberto Piccinini: Vorrei farvi riflettere su come sia cambiata la figura del fotografo, fotogiornalista, negli ultimi dieci anni. Il cambiamento che di fatto fa del nostro mestiere una nuova professione, regolamentata però da vecchie leggi. Posso dire con fermezza che i fotografi videomaker, sono i giornalisti moderni, quelli che vanno sulla notizia e la portano dappertutto.

La figura del giornalista è stata inquadrata con una legge approvata nel 1963. Il giornalista era ritenuto un lavoro di rilevanza sociale, per questo andava regolamentato professionalmente e deontologicamente. Il presidente di  Ferpi ha detto che stiamo progettando il futuro con i comunicatori e lo ringrazio e spero veramente che sia così. Allora chiedo a tutti i presenti di tenere in considerazione per il futuro la figura del fotogiornalista, e riconoscergli la rilevanza sociale culturale e professionale che gli spetta.

 

 

 

Roberto Tomesani: Se non voglio ascoltare, non voglio leggere, non voglio guardare, la comunicazione non passa. La fotografia, a nome di cui parlo, è molto più sottilmente bastarda. Che sia un’immagine che accompagna la notizia, che sia un’immagine pubblicitaria, che sia un’immagine che introduce un argomento:  nell’istante in cui la vedo, in quell’istante, un secondo o 2, senza possibilità di opporsi, senza barriera culturale, senza filtri, quello che ha da dire, la comunicazione di quella fotografia passa senza difesa alcuna.  Non c’è difesa. Allora voi capite che abbiamo, tutti noi comunicatori, una grande responsabilità nei confronti dell’uso di un mezzo di comunicazione così tagliente, così subliminale, così ficcante, e dal quale non si difende nessuna categoria sociale. Non si difendono i bambini, non si difendono le persone non in grado di intendere e volere oltre un certo limite,  e cioè la quasi totalità di noi. Abbiamo tutti una responsabilità che va riconosciuta.

 

Uno dei maggiori quotidiani economici del Paese,  portavoce anche distanze significative, non firma mai le foto che pubblica. Eppure che devono essere pagate le fotografie, e che debba essere menzionato il nome dell’autore, sta già scritto da quasi ottant’anni in una legge. Quindi l’appello che vorrei potesse partire da queste multiple occasioni di incontro è: non solo di rinnovamento della legislazione – che necessita assolutamente di un rinnovamento – ma anche di aiuto reciproco, visto che siamo tutti i comunicatori.  Tramite l’editoria passiamo aiuto reciproco, per far percepire l’importanza  alla nostra società e alla nostra comunità, di quello che facciamo.  E quindi l’esigenza del rispetto della norma, che faticosamente è stata messa assieme, tempo addietro, e sarà – auguriamoci – messa assieme in questi  tempi.

 

 

On. Paolo Lattanzio – Commissione cultura della Camera:  Il capo dipartimento Sepe prima faceva riferimento alle difficoltà di quando un soggetto, un interlocutore pubblico, entra in contatto usando i social, e del  rischio di dover fare una smentita o di creare dei cortocircuiti mediatici. Io sono abituato nel mio percorso, anche in questa fase in cui sono in Parlamento, a fare sempre autocritica.  Ieri mentre ascoltavo il discorso del premier Conte, ho monitorato,  per deformazione professionale, e analizzato i dati. E ho visto che molti  colleghi, di tutte le forze politiche, commentavano in tempo reale e  a ruota libera, ciò che veniva detto. Da studioso della comunicazione l’ho trovato abbastanza sconveniente e pericoloso, per lo stile che si vuole avere.

Credo che le nuove professioni  che si stanno sedimentando, e alcune sono state citate, devono guardare a una sorta di accettazione pubblica politica e sociale prima ancora che normativa. Avendo lavorato con i più giovani nel mondo della scuola e dell’università, credo sia fondamentale formare anche le nuove generazioni, all’accettazione, alla comprensione di quelle che sono le nuove figure professionali.  Questo lo dico guardando al mondo nel quale sono adesso, e facendo anche autocritica. Se non capisco la differenza fra un social media manager e un politico che cinguetta ogni cinque minuti,vuol dire che le nuove professioni non verranno mai capite. E non mi riferisco, sia ben chiaro, ai capi, ai leader di partito, mi riferisco a tutto quel mondo che gira loro attorno.

 

Io credo che ci sia da fare una grossa autoanalisi, tanti passi indietro, e iniziare dall’università, ma forse anche dalla scuola, a fare una serie di proposte.  Tornare a quello che è un sano percorso di educazione ai media, che non significa soltanto far sperimentare ai più piccoli nelle scuole, far leggere ai ragazzi i giornali, ma ormai significa,  dovrebbe significare, insegnare agli studenti e studentesse come si fanno radio giornali e televisione, significa come si fa a costruire un blog e cosa significa sposare una piattaforma piuttosto che un’altra. Significa portare i più giovani ad una lettura critica dei messaggi e di come questi vengono costruiti.  Credo in particolare che le nuove professioni debbano guardare inevitabilmente a quello che è un percorso di alfabetizzazione, di spiegazione di sé, ed al coinvolgimento dei nuovi cittadini con diritto ad essere adeguatamente e correttamente informati,  e messi in condizione di comunicare in prima persona, perché possano realizzare delle proposte condivise e moderne.

 

 

 

Massimo Romano Spencer & Lewis agenzia di comunicazione: Non riesco a capire questa volontà di voler unire sotto un unico cappello, quello dell’ordine dei giornalisti, due professioni così diverse come il comunicatore e il giornalista.

Il giornalista fa informazione ed è un ruolo ben specifico. Le agenzie di comunicazione sono anche chiamate pr e media relations, cioè relazione con i media. Noi ci rapportiamo con i media con i giornalisti, noi non siamo i giornalisti.

 

 

 

Rita Palumbo segretario generale Ferpi: Vorrei sottolineare un dato estremamente importante: gli Stati generali ci permettono di confrontarci. Ci sono alcune criticità estremamente gravi. I  codici ateco, ad esempio, noi abbiamo una classificazione che incide sul nostro guadagno al di là della professione, in maniera determinante, per i parametri fiscali, che non riconosce assolutamente il nostro lavoro. L’equo compenso riguarda tutte le professioni tranne quella della comunicazione.

Non stiamo qui a parlare della differenza di scopo della professione del giornalista e quella del comunicatore.  Abbiamo funzioni di scopo diverse perché noi siamo comunicatori intermediari di interessi di parte mentre i giornalisti invece hanno una funzione pubblica.

Ma non è questo il problema.

Crediamo che il lavoro che stiamo facendo come Ferpi sia estremamente importante perché tende a razionalizzare quella che è la griglia normativa. Stiamo rifacendo completamente la legge sulle certificazioni delle comunicazioni.

Purtroppo alcuni dei soggetti presenti a questa giornata di lavoro degli Stati generali dell’editoria  non sono a quel tavolo.

Il tavolo di lavoro è quello di UNI che è l’ente di normazione ovvero l’agenzia del nostro Governo che ci rappresenta nell’Unione Europea.

Che cosa significa questo? Significa  che siamo in ritardo su quelle che sono le direttive per la certificazione delle professioni della comunicazione e delle nuove professioni.

Noi qui adesso stiamo parlando di una serie di problematiche, ma ci stiamo dimenticando che per poter cominciare a sistematizzare ruoli,  funzioni, equo compenso, contratti, sistemi previdenziali, in modo adeguato a quelle che sono le esigenze del mercato: dobbiamo mettere mano ad una sistematizzazione delle leggi vigenti. Perché se non facciamo questo,  realizzeremo solo dei piccoli pezzi che poi il mercato, che è in completa evoluzione – in una velocissima evoluzione grazie alla digitalizzazione – metterà l’uno contro l’altro. Senza andare a specificare invece qual è il nostro ruolo nel sistema Paese per le nostre competenze;  ma soprattutto in che modo: noi riusciamo a produrre valore economico.

Questo è un elemento centrale delle nostre professioni sia nel campo dell’editoria, sia in quello della comunicazione. Nella loro  complessità sono professioni che producono valore economico che non è assolutamente riferito ad una griglia normativa. Quindi che cosa stiamo facendo? Innanzitutto andiamo a vedere chi siamo dal punto di vista professionale,  come la digitalizzazione sta creando e definendo nuove professioni.

C’è un ulteriore dato di fatto che credo vada sottolineato in questa sede.  Tutto quello che riguarda la qualificazione delle professioni imposta dall’Unione Europea nelle Regioni viene affrontata in maniera diversa. Ogni Regione ha il suo albo professionale. Ad esempio  la Regione Lombardia – noi siamo di Milano – è andata oltre, ed ha approvato il riconoscimento di figure professionali come:  il social media manager, l’executive Seo e l’executive Sem. Adesso  avvierà tutto il percorso della comunicazione. Allora che cosa fare, anche per quanto riguarda il discorso dell’Inpgi?

Non possiamo partire dal basso. Non possiamo partire dalla previdenza. Cerchiamo di capire come due mestieri che si sono sempre incontrati e che lavorano,  da prima su fronti opposti , oggi invece operino sugli stessi canali. Perché questo è il punto centrale. Rimangono due professioni diverse, con obiettivi di scopo diversi, che usano gli stessi canali e che sono soggette ad una modifica dei loro modelli di produzione di contenuti. Ma mentre la comunicazione per sua natura, o se volete, anche per un gap culturale che vede il nostro Paese in ritardo universitario; riesce a cavalcare con maggiore velocità i cambiamenti dettati dalla digitalizzazione. Il mondo del giornalismo è rimasto un po incancrenito su un vecchio modello editoriale.

Questo significa che dovete essere Voi legislatori, i riferimenti politici,  a metterci insieme a quei tavoli che tutti i relatori hanno chiesto oggi. Avendo ben presente però, che non si può fare un unico calderone.  C’è la parte professionale. La parte contrattuale che non riguarda solo noi, ma anche altri attori che sono i sindacati con i contratti nazionali di lavoro.

L’ equo compenso. Uno strumento  a favore dei professionisti, che va esteso a varie figure professionali, con varie ragioni sociali. Perché il comunicatore svolge un’attività;  la stessa attività sotto forme giuridiche diverse, quindi non posso garantire il libero professionista e poi non pensare invece di salvaguardare anche  il dirigente di una grande impresa. Dobbiamo pensare ai contratti.

Dobbiamo necessariamente andare a capire insieme, con tavoli tematici, che saranno – speriamo –  continuamente in corso e non si fermeranno – auspichiamo – soltanto a iniziative eccellenti come queste; quali sono le azioni da proporre e da portare avanti.  Permettetemi di rivolgere il mio pensiero ancora una volta all’Inpgi e a quelle che sono le conseguenze di scelte di questo tipo per decine di migliaia di lavoratori, ma soprattutto come danno erariale all’Inps.

 

 

 

Francesco Di Costanzo: Nel settore pubblico però, la lancio come provocazione, tutta questa differenza fra  comunicatore e giornalista io non la vedo. Nel lavoro quotidiano ci sono delle specifiche e vanno mantenute.

Io sono un giornalista iscritto all’ordine ho fatto nella mia vita: il giornalista, il comunicatore e il social media manager. Nel lavoro quotidiano soprattutto del settore pubblico, a maggior ragione con gli strumenti che abbiamo  oggi, io tutta questa differenza non la vedo.

Quindi inviterei, dal nostro punto di vista, come Stati generali, forse a cambiare un po’ l’approccio, la visione. Il fatto che il comunicatore pubblico non abbia deontologia,  anche su questo, inviterei a riflettere. Si parla di comunicazione ai cittadini, informazione ai cittadini, servizi per i cittadini.

Anche i  giornalisti hanno gli editori di riferimento.

C’è tutto un mondo su cui secondo me sarebbe bene forse superare i vecchi schemi.

 

 

 

Roberto Zerbonia, consulente del lavoro:  Nel confronto quotidiano con le aziende, registro una notevolissima difficoltà nel regolamentare, nel gestire l’approccio, gli inizi, di chi vuole collaborare con il mondo dell’editoria digitale. Non è una professione abituale,  per cui c’è difficoltà a gestire i primi passi  in modo corretto da un punto di vista amministrativo, contabile e fiscale etc.etc. Posto che queste collaborazioni hanno questo tipo di caratteristiche, è evidente che:  il lavoro autonomo occasionale rappresenta l’inquadramento migliore, più aderente per gestire questo tipo di attività, però difetta a mio parere.  Non è abbastanza regolamentato. Sarebbe utile anche prevedere una maggiore  regolamentazione di questo istituto per renderlo più efficace, e al contempo anche meno soggetto a utilizzi di abuso,  più corretto in generale, anche al fine di evitare inutili contestazioni da parte degli organi di controllo.

 

 

 

Andrea Cornelli : Lavorando tanto con le università italiane trovo che ci sia una rincorsa ad una formazione adeguata. Il problema vero è che quando poi lo studente si affaccia al mondo del lavoro, si scontra con una griglia che non è adeguata a quello che in realtà l’università ha insegnato. Nel mondo privato la differenza tra un giornalista e un comunicatore non solo è evidente ma  è impossibile per un giornalista lavorare in un’agenzia di comunicazione senza smettere di fare il giornalista. Sarebbe un cortocircuito pericolosissimo se un giornalista venisse pagato da un brand per vendere informazione obiettiva dietro lauto compenso.

Questo è un tema delicatissimo. Non entro nel merito di ciò che accade nel pubblico. Nel pubblico può darsi che non ci sia questa grande differenza. La cosa però mi preoccupa assai se davvero è così. Per come la vedo io e per come la vedono tutti i nostri associati, che rappresentano la stragrande maggioranza della comunicazione operativa in questo paese: la differenza c’è eccome.  Insomma o faccio il giornalista o faccio il comunicatore. Se faccio il comunicatore posso fare pubblicità, oppure faccio relazioni con il pubblico, oppure faccio il blogger o altro. Dobbiamo imparare a distinguere in questo mare magnum che ci trova tutti o cavalchiamo l’onda veniamo travolti.

 

 

 

Jurek Kralkowski fotoreporter:  Sono uno stringer come Cristina e i colleghi dell’associazione che presiede. Si è parlato tantissimo dei bikers che consegnano il cibo a casa e che non hanno diritti, che non hanno le pensioni. Noi stringer cioè fotogiornalisti, non abbiamo nessun tipo di diritto. Se ci facciamo male sono problemi nostri. Se andiamo a sbattere, se ci rubano le attrezzature, sono problemi nostri. Il fatto è che noi in borsa portiamo 10/15 mila euro di roba,  e un danno del genere vuol dire spesso fermarsi per sempre. Penso che riconoscere questo tipo di professione, e dare un giusto compenso a quello che facciamo, non sia solo un diritto ma un obbligo da parte di chi poi ne fa un uso enorme.  Perché le nostre immagini viaggiano alla velocità della luce.  E’  il primo impatto di comunicazione, di informazione, molto prima che chiunque cominci a  leggere un qualunque testo.

Rispetto all’equo compenso stiamo pensando di creare una cosa come il coefficiente medio di un fotografo professionista. Non so quanti di voi lo sanno ma un pittore quando fa una carriera parte da un coefficiente base di valore al centimetro quadrato del suo quadro e poi man mano che fa più mostre e i suoi quadri vengono venduti questo coefficiente sale di valore. Per questo noi abbiamo pensato di creare una serie di fattori che possano definire il valore di ogni singola immagine pubblicata. Mi piacerebbe che fosse possibile introdurre l’idea di una modifica sull’equo compenso standard, parificandolo con questo fattore del coefficiente del valore. Parliamo di nuove professioni, parliamo di mercato, ma parliamo anche  di riconoscibilità, di riconoscere gente che ha fatto 10 anni di gavetta, che rischia fisicamente ed economicamente tanto, e che oggi viene pagata 2 euro e 50 a foto su un quotidiano.

 

 

 

Lazzaro Pappagallo segretario Associazione Stampa Romana: La nostra proposta avanzata sia in Fnsi,  che alla Fieg,  è di dire che l’articolo 1 del contratto nazionale giornalistico debba prevedere i profili:  di foto cine operatore, architetto grafico digitale,  gestione e mediazione dei social network e con le comunità dei lettori: il social giornalist, il data journalist, il web editor, il videomaker, il mojo (mobile journalism) – cioè quello che fa il videomaker ma lo fa col cellulare – e poi dovremmo avere anche un articolo 1 più inclusivo sugli uffici stampa privati. A titolo solo personale mi spingerei anche a considerare nel recinto chi scrive gli algoritmi. Attraverso  i quali è possibile agganciare e incrociare sugli smartphone una notizia. Figure professionali che saranno sempre più importanti se si andrà verso profili di automazione, che non possiamo trascurare nel nostro mondo. Quindi un ingegnere che si collega con un giornalista.

 

 

 

Cristina Pantaleoni:  Alla nostra associazione sono iscritti “ragazzi” che vanno dai 23, 24 anni.  Il più vecchio di noi, se così si può dire, ne ha 39. Siamo noi la nuova generazione di questo lavoro giornalistico,  e io voglio che questa distinzione ci sia. Noi nel nostro statuto abbiamo messo una parte che dice proprio:  il lavoro video deve essere giornalistico, perché è questo che gli da credibilità, altrimenti il nostro lavoro non ha più senso.

Nell’associazione noi siamo 65 e nessuno di noi è iscritto al sindacato. Perché in una generazione così giovane nessuno si iscrive al sindacato? Perché non ci crede, perché non è stato fatto niente per loro. E’ vero che vanno fatti gli articoli 1 – magari – però se i tre quarti della nostra associazione hanno una partita iva, facciamo pure  il 90 per cento, se non c’è stata una regolamentazione del nostro settore, del riconoscimento della figura del giornalista videomaker, non può esserci tutto il resto. Tutti i diritti  conseguenti a questo.

Ed è per questo,  scusate, che ho un’altra domanda: perché si vogliono mettere comunicatori e giornalisti nello stesso settore? Sinceramente non lo capisco.

 

 

 

CONCLUSIONI

 

 

 

Ferruccio Sepe: Se vi presentate in ordine sparso di fronte alle istituzioni con temi che non sono ancora definiti, le istituzioni troveranno, non dico comodo perché non è un termine appropriato, ma troveranno difficile trovare un quadro di riferimento e, come spesso accade quando il quadro di riferimento è vago o nelle nebbie, si fermeranno a riflettere e aspetteranno che queste nebbie si diradino. E’ difficile che si possa trovare una soluzione se già le categorie non si presentano con una proposta più o meno chiara, non dico unitaria, ma più o meno chiara. Una proposta di quello che potrebbe essere l’assetto degli interessi che sono coinvolti, e prospettarla quindi al legislatore, che come ho detto sempre, non sa tutto, ma è certamente disposto all’ascolto, se l’ascolto permette di trovare in maniera costruttiva una soluzione.

Qui sono in gioco tre elementi: il primo è quello dell’inquadramento giuridico delle figure, sulle quali mi pare di capire, c’è un accordo sostanziale. Non sul fatto che debba essere definito, ma non sul fatto del cosa bisogna metterci dentro.

Il secondo elemento riguarda tutti i produttori di contenuti quindi anche fotoreporter e altri fotografi professionali, cioè proteggere questi contenuti nell’era del web che è un problema generale basicoC’è una direttiva sul copyright che dovrà essere recepita nel biennio,  e quindi diciamo lo abbiamo già citato,  in questo caso vale: per le rassegne stampa, per le riproduzioni di articoli non autorizzati,  o per gli snippet come nei pezzi online si chiamano le tre o  quattro righe che vengono riprodotte dal motore di ricerca.

Il terzo elemento è appartenere o meno a una cassa previdenziale già esistente una volta che si siano definite le figure professionali. Oppure vivere in maniera autonoma o nella dimensione occasionale, come il consulente del lavoro in qualche modo ha segnalato e certificato come non auspicabile.

Sono questi tre i  temi, grosso modo, almeno quelli che io ho colto, e non è detto che li abbia riassunti bene.  Però questi tre temi indubbiamente andrebbero prospettati in una chiave che possa offrire le soluzioni. Perché altrimenti la frammentazione porterà la politica a  fermarsi a riflettere senza offrire soluzioni valide.

 

 

 

 

Le conclusioni del consigliere Sepe  fotografano molto bene lo stato dell’arte del dibattito in corso nel nostro Paese. In questo caso parliamo sostanzialmente di nuove professioni dell’informazione e della comunicazione. Come avete avuto modo di leggere, anche fra gli esperti, regna sovrana la confusione su funzioni e ruoli. Una confusione che è certamente giustificata vista la velocità sempre maggiore a cui viaggia la nostra società – sempre più digitale – e il nascere continuo di nuove esigenze che vanno risolte – secondo una logica che non ci vede molto in accordo –  con la nascita di nuove figure professionali.

 

Proviamo brevemente a spiegare il motivo del nostro disaccordo. Certamente ci sono figure professionali del tutto nuove e probabilmente necessarie, come sempre accade durante una rivoluzione. Ad esempio gli architetti del web, i disegnatori delle esperienze, i social e community manager, gli ingegneri gestionali, gli scienziati dei dati. Tutte figure che andrebbero definite con grande precisione – partendo da dati e ricerche scientifiche inoppugnabili – e in uno scacchiere che per forza di cose ci vede – come Paese Italia – far parte di un mercato più vasto e utile, ma dove le regole non sono più solo le nostre,  che è l’Europa. Poi ci sono altre figure professionali su cui sarebbe molto importante avviare una riflessione più profonda. Ci riferiamo ad esempio agli specialisti  che si occupano di ottimizzare i contenuti al volere dei motori di ricerca (Seo specialist, Sem specialist), oppure agli influencer, professione di cui non si è parlato in questo convegno,  ma che aleggiava cupa, a nostro avviso, su molti degli interventi  che abbiamo sentito.  E anche molte altre nuove professioni che potrebbero sembrare molto utili o addirittura necessarie per il nostro presente e che in definitiva non lo sono. Sono professioni però, permetteteci di aggiungere, che sono mutuate non da una vera logica di conoscenza ed emancipazione. Non servono davvero a colmare una lacuna. A risolvere un vero problema. A sopperire ad una reale esigenza di qualcosa o qualcuno. Ma nascono in ossequio ad un modello sociale imperante. A questo nostro attuale e ben poco socievole modello sociale, perdonate il gioco di parole. Un modello sociale in  cui non siamo protagonisti e che non abbiamo realizzato di comune accordo.  Un modello sociale che non abbiamo messo in piedi tutti insieme come risposta evolutiva rispetto alle esigenze della nostra società post rivoluzione digitale. Un modello in cui siamo bloccati nostro malgrado. Talvolta senza che ce ne rendiamo nemmeno conto. E che ci è stato per così dire “suggerito” – usiamo un eufemismo –  e ci viene ogni giorno sempre più “imposto”, fuori da ogni retorica, dai gestori privati e assoluti di alcuni degli strumenti di maggior uso comune. Facciamo un esempio? I motori di ricerca. I social media. I market online. Come dite?  Non possiamo farne a meno, così funzionano le cose, così va il mondo! Beh se pensiamo di doverci assoggettare pedissequamente alla volontà di uno o più motori di ricerca – magari ce ne fossero almeno due –  probabilmente diamo per scontato che il nostro modello sociale sia unicamente questo. Un modello dove tutta la conoscenza prodotta dall’uomo deve essere filtrata da un meccanismo automatico, algoritmico, di cui l’uomo stesso non sa un bel niente,  e di cui sanno tutto soltanto i padroni del medesimo motore di ricerca. Se il pensiero comune è questo, allora certamente non ci sono alternative. Ma sinceramente non crediamo sia necessario sentire il parere di un premio Nobel per comprendere che una società non può che fare ed essere “altro”.

 

Una società deve obbligatoriamente privilegiare il pensiero plurale, la contaminazione, le esperienze diverse. Deve essere un coacervo di tante differenze, di tante singolarità, di tante esperienze, alcune magari anche poco simpatiche o decisamente brutte, ma certamente non omologate. Soprattutto non omologate da qualche ente terzo non meglio qualificato e che pensa esclusivamente a riempire le proprie casse e non al bene comune. Non scelte a priori da qualcuno per conto nostro, nemmeno se lo autorizziamo a farlo, in un momento di confusa e/o forse colpevole condiscendenza.

 

Vi ricordate lo spauracchio del grande fratello evocato da Orwell in 1984? L’evoluzione della società dei mezzi di comunicazione di massa studiata e teorizzata da McLuhan.  Non vi sembra oggi, alla luce degli “sviluppi digitali del modello Google, o Facebook o Amazon”, una cosetta da niente rispetto a quello che stiamo vivendo ogni giorno? Occhi elettronici che ci spiano ovunque? Oggi per legge abbiamo dato ai motori di ricerca la facoltà di decidere quali contenuti sono pubblicabili e quali no, online. Sulla rete. Se Tim Berners Lee, l’inventore di internet, sta da qualche tempo esortando tutti a rifondare la rete in un modo diverso da come è diventata, forse un motivo concreto esiste. Non credete anche Voi?

 

Tornando dunque al dibattito e alle conclusioni del consigliere Sepe: i tre elementi fotografati nell’analisi del rappresentante delle Istituzioni sono un utile base di partenza, tenendo però conto di elementi imprescindibili come quelli che segnala molto bene nel suo intervento l’onorevole Lattanzio e cioè – come diciamo da sempre, perdonate l’autocitazione – colmare prima di tutto il gap culturale sempre più profondo che ci fa essere “pessimi” cittadini digitali in un mondo oramai quasi per nulla analogico. Pessimi non per colpa nostra, ma perché incapaci di comprendere anche le più semplici differenze di base fra essere digitali e forzare il mondo analogico e i nostri comportamenti a diventare digitali. E anche questo non certo e non sempre per colpa nostra. Come quando siamo costretti dalle procedure ad andare in un  ufficio, pubblico, ma spesso anche  privato, di persona,  per completare una non meglio chiarita procedura su una pratica che eravamo convinti di aver perfezionato totalmente in digitale attraverso il nostro computer o i nostri tablet e smartphone.  O quando siamo costretti a realizzare completamente una procedura solo in digitale, salvo poi accorgerci  che nonostante gli obblighi di legge, dovremo spendere tempo e denaro in fiumi di carta da stampare e in lunghe code tutt’altro che digitali davanti a sportelli ancora molto, molto analogici.

 

 

 

Il percorso di assimilazione, di comprensione, di inclusione delle nuove professioni nella filiera dell’editoria e più in largo, permetteteci, della comunicazione. E’ necessario e non rimandabile – siamo già in grave ritardo –  ma va lavorato di fino. Con grande acume, con l’ausilio di esperti di grande lignaggio, avviando da subito un percorso culturale di riforma che tocchi il mondo scolastico in modo paritetico a quello della formazione professionale, ma che non escluda il resto della società. Tutti noi, che non siamo più in età scolastica, e non abbiamo alcun bisogno di convertirci professionalmente, ma che abbiamo invece un disperato e irrinunciabile bisogno di avviare la nostra conversione finalmente “cosciente” e partecipata al mondo digitale.

 

 

Di seguito il video integrale della seconda, e conclusiva, parte della giornata di lavoro degli Stati generali dell’editoria, dedicata alle nuove professioni. Grazie della pazienza e dell’attenzione. Alla prossima.