Becchi e bastonati

La colorita frase del nostro titolo odierno non lascia dubbi. Il fatto per il quale ci definiamo “cornuti e mazziati” per usare un’ altra espressione idiomatica altrettanto nota è: la famigerata normativa europea sul copyright. Sulla vicenda ci siamo già espressi in modo tutt’altro che conciso e nemmeno troppo tecnico. Per noi qui a bottega l’espressione del titolo si confà in modo perfetto con l’approvazione di detta normativa. Ma nelle ultime settimane e a pochi giorni dall’ennesimo pronunciamento della Commissione europea sulla medesima, è successo un fatto a dir poco strano, se non sospetto. Uno degli attori della vicenda, uno dei protagonisti della riforma: Google, per non far nomi; ha dato il via ad una campagna pubblicitaria serrata e assai costosa per informare il maggior numero di utenti europei e non che se la normativa dovesse essere approvata senza ulteriori rimaneggiamenti succederebbero fatti gravi, molto gravi. Sono state preparate pagine informative specifiche online sulla vicenda i cui link sono stati diffusi sui social network, in particolare su facebook e twitter e poi è stato diffuso su decine e decine di quotidiani cartacei europei un annuncio pubblicitario specifico.  Il cartello confezionato dagli specialisti di Mountain View lo vedete qui a lato come immagine di accompagnamento al nostro articolo, ma per fugare ogni dubbio riportiamo il testo integrale dell’annuncio qui di seguito, in modo da poterci  riflettere “tutti insieme appassionatamente” :

 

 

“Oggi più che mai è importante conoscere tutti i punti di vista su una notizia. Notizie nazionali. News internazionali. Servizi locali. Contenuti di approfondimento. Opinioni diffuse. Voci fuori dal coro.

Abbiamo bisogno di prospettive differenti per avere una visione d’insieme e per capire meglio il mondo in cui viviamo. L’Articolo 11 della nuova direttiva sul copyright dell’Unione Europea mira a proteggere il lavoro della stampa. E questo è un obiettivo che condividiamo pienamente.

Quello che ci preoccupa, tuttavia, è che alcuni elementi di questa legislazione potrebbero ridurre lo spettro e il numero di notizie che si trovano quando si ricerca online.

Esistono molte opinioni su questa riforma:  la nostra è che serve una soluzione che consenta agli editori, piccoli e grandi, di scegliere liberamente e apertamente come i lettori possano accedere  ai loro contenuti.

E che consenta a tutti noi di continuare a conoscere i diversi punti di vista su una notizia”.

 

 

Il nostro pensiero sulla vicenda “legge europea sul copyright” è già noto ed è stato espresso in un articolo uscito mesi fa. Per chi non avesse voglia di rileggerlo integralmente proviamo a sintetizzarlo in poche semplici frasi. Intanto il titolo di questo articolo è già una sintesi perfetta a nostro avviso, ma, battute a parte, la nostra idea è che:  nessuna delle parti in causa stia davvero cercando di proteggere il bene comune ovvero quella cosetta di “poco valore” che si chiama formazione dell’opinione pubblica.

 

 

Tutti i soggetti in campo hanno torto in quanto stanno provando a speculare sulla pelle delle persone – stiamo parlando di formulare una legge di portata europea – quando invece dovrebbero preoccuparsi, tutti, a cominciare dai legislatori, di spiegare alle persone come funziona, oggi, il nostro mondo. Fare formazione, attraverso una corretta informazione di base,  non omologata e per tutti. Per farlo non servono leggi ma investimenti massicci che generino cultura.  Strumenti per comprendere il mondo.   

 

 

L’iter legislativo è in dirittura di arrivo e proprio in questi giorni potrebbe giungere una decisione finale dai vertici del Governo europeo come spiega dettagliatamente Vincenzo Vita su Art.21. L’Ordine dei giornalisti nei giorni scorsi ha assunto una posizione molto precisa sulla vicenda e in particolare sugli ultimi “accorgimenti” assunti dai vertici di Alphabet Inc. diffondendo un video dove il Presidente Carlo Verna riassume il suo parere  e in un articolo a firma Michele Mezza che riportiamo sotto al video.

 

 

 

“La campagna scatenata da Google su tutti i giornali in Europa per la modifica della legge comunitaria sul copyright ha l’aggravante, oltre alla brutale pressione che esercita sugli editori, di cogliere un aspetto oggettivamente debole di quella legge. Avere anche ragione per chi vuole usare l’occasionale giustezza delle sue osservazioni per ribadire un potere coercitivo è davvero insopportabile. La legge che disciplina l’accesso ai contenuti della stampa è infatti inadeguata e del tutto datata. In una civiltà basata sulla circolarità dei contenuti e sull’accesso molteplice e immediato di ogni cittadino ad ogni notizia, requisito ormai essenziale per esercitare la propria cittadinanza, limitare e commercializzare quest’accesso è del tutto anti storico. Capisco bene le ragioni che hanno portato editori e autori a strappare una norma che possa ridurre il continuo saccheggio di opere e produzioni intellettuali da parte di pochi monopolisti, che trasformano la libertà di accesso in un mercato oligopolistico che impone gabelle e pedaggi ad ogni respiro . Come spiegava un grande pedagogo all’inizio dell’Ottocento, J.B.Lacordaire: fra un forte e un debole la legge libera e la libertà opprime. Siamo esattamente in quelle condizioni: il 75 % della pubblicità digitale è oggi bottino di soli 3 soggetti globali che nulla hanno a che fare con il mercato editoriale professionale. Il 87 % di ogni query, ossia ricerca on line, viene oggi canalizzata dallo stesso Google. Non è monopolio ma vera e propria dittatura di un solo algoritmo. Un algoritmo che proprio Google stesso ci fa intendere nella sua minacciosa pagina di pubblicità editoriale che ormai incombe quasi ogni giorno sui quotidiani, è in grado di mutare la sua griglia selettiva, autorizzando o inibendo l’accesso a intere filiere di informazioni. Dunque questa dittatura va contenuta e risolta, come giustamente sollecita il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Verna, in quella che al momento è l’unica reazione del mondo del giornalismo quell’irruzione arrogante di Google. Ma proprio perché siamo in presenza di un cambio radicale di paradigma sociale e culturale nel sistema dell’informazione , non credo che possiamo arroccarci nelle vecchie formule di tutela del copyright. Google ha ragione quando afferma che la circolarità dei contenuti prevale sulla titolarità degli stessi contenuti, per cui assicurare il libero accesso ad ogni informazione è ormai un vero e proprio servizio pubblico, ancora di più: è una pretesa sociale. Ma questa circolarità deve riguardare tutti i contenuti: gli articoli dei giornali, le notizie delle agenzie, le opere audiovisive e musicali, ma anche gli algoritmi e le API delle piattaforme. Tutta la catena del valore della comunicazione, nella società della comunicazione, deve essere parimenti accessibile. Dunque solo un’ipocrisia proprietaria permette a Google di mistificare la domanda di libertà, limitandola solo all’oggetto del sistema dell’informazione che sono appunto le notizie. Ben più rilevante è il soggetto di questo mondo che oggi sono i sistemi intelligenti che muovono, selezionano, indicizzano, profilano e archiviano tutti i contenuti dell’umanità. Dunque farebbero bene i cittadini, i produttori, le imprese e soprattutto i giornalisti a prendere in parola Google: dobbiamo garantire la piena libertà di accesso e il totale pluralismo di tutte le informazioni, a cominciare dai sistemi cognitivi che le pre organizzano, rendendole fruibili, quali sono gli algoritmi e i meccanismi di impaginazione delle piattaforme. Per questo sarebbe civile e trasparente introdurre un principio di reciprocità: chi copia e fa circolare contenuti, traendone per altro profitto inimmaginabili, deve rendere accessibile e disponibile per i titolari dei quei contenuti i propri algoritmi e le proprie piattaforme, per poterli riprogrammare ed innescare nuovi modelli di servizi. Google accetta questa sfida: libertà e pluralismo per tutti i linguaggi dell’informazione, dagli algoritmi alle news ? Sono in grado di lavorare realmente in una logica di competizione, senza lucrare, come fanno ora, sulla rendita di posizione che gli è garantita dal predominio sulla potenza di calcolo primaria ? Sono disponibili ad essere partner e non padroni dei nuovi linguaggi della comunicazione, senza sfruttare la loro disponibilità economica, frutto anche di un gigantesco sistema di evasione fiscale, per comprarsi la compiacenza di giornali e autori con finanziamenti e inserzioni abbondanti e mirate ? Sono queste le domande che pone l’Ordine dei giornalisti con la dichiarazione del presidente e soprattutto con il progetto di un centro di ricerca sull’etica del calcolo. Google sappia che ci ha convinto: il giornalismo non è più solo letteratura dell’informazione, ma è diventato innanzitutto ingegneria dei sistemi di diffusione e selezione delle notizie. Su quel terreno non siamo più disposti a concedere deleghe in bianco. Così come siamo stati , e continuiamo , ad essere, come ha  rappresentato la copertina di fine anno di Time, guardiani nei confronti degli abusi del potere politico ed economico, saremo altrettanto solleciti sorvegliare e misurare la trasparenza e le finalità dei sistemi digitali. Algoritmo per algoritmo. E’ la stampa bellezza.”

 

 

Questi i pareri delle parti in campo, che vanno aggiunti  a quello degli editori e più in generale dei proprietari dei contenuti, gli autori appunto, che giustamente rivendicano  la necessità di mettere mano ad una normativa che garantisca il giusto compenso per chi produce i contenuti, senza i quali la rete e tutto il mondo dell’online non sarebbe altro che un enorme guscio iperveloce ma sostanzialmente vuoto o meglio pieno delle nostre chiacchiere ma privo di sostanza.

 

 

E’ certamente sensato difendere la produzione dei contenuti e tutti coloro che lo fanno, ma è anche necessario, diremmo sostanziale, conoscere come funzionano le rinnovate dinamiche post rivoluzione digitale della produzione dei contenuti e della loro diffusione. In queste semplici frasi è contenuto un mondo di diversità di approccio sia alla produzione sia alla diffusione dei contenuti.  Ne abbiamo provato a parlare anche in un nostro appuntamento digit a Torino nell’ottobre scorso assieme a Maurizio Codogno, che interveniva a #digitTorino in qualità di portavoce di Wikimedia. A Maurizio abbiamo chiesto oggi un parere personale – come esperto di politiche delle reti da oltre un quarto di secolo –  sugli sviluppi di questa vicenda e in particolare sulla campagna pubblicitaria architettata dai signori di Mountain View:

 

 

“L’azione di Google è partita da settimane su Twitter e credo anche su Facebook. Questa campagna stampa è l’ultima idea. Tieni conto che il trilogo poteva e può fare qualche modifica e ovviamente Google sta cercando di spingere pesantemente: se vuoi un parallelo, pensa a quando Berlusconi fece fare gli spot-che-non-erano-spot contro il referendum  tv ai suoi attori e presentatori. Servirà? Non so, potrebbe essere un fumogeno mentre i lobbisti fanno il loro lavoro. Le modifiche alla legge saranno fatte perchè lo vuole la gggente.

 

 

L’intervento del trilogo non peggiorerebbe comunque  le cose, la commissione anzi sperava in un voto meno schierato all’europarlamento per liberalizzare ancora qualcos’altro. Quello che Google vuole è evitare di bloccare troppa roba perché gli riduce il fatturato. Insomma ok che la direttiva non abbia censura automatica – non perché Google farebbe fatica ad implementarla ma perché toglierebbe troppi upload – ma devono esserci anche meno richieste di blocco. In effetti lo user generated content tipicamente è materiale derivato di cose sotto copyright. La Siae e gli altri produttori di contenuti vorrebbero trarre benefici economici anche da lì e lo si è visto all’europarlamento; Google e Facebook vogliono la libertà di pubblicazione perché i soldi li fanno con la pubblicità di chi arriva sulle loro pagine per vedere quei contenuti. Il problema è che nè i primi nè i secondi vogliono dirlo esplicitamente, l’avessero fatto, si poteva aprire una discussione seria”.

 

 

Indossando poi per un momento nuovamente i panni di portavoce di Wikimedia Maurizio Codogno ha aggiunto sulla questione:

 

 

“Wikipedia non interviene perché se la direttiva si ammorbidisce ci guadagna anch’essa, ma è contraria alla logica dietro alla campagna di Google. Bisogna tenere conto che Noi non accettiamo in Wikipedia tutto quello che Google mantiene, perché siamo molto più restrittivi riguardo al copyright. Insomma la posizione di Wikipedia è mantenere il copyright standard evitando di creare nuovi diritti accessori che favoriscono i titolari attuali anche se a loro le idee relative non erano mai venute in mente, e quindi non si può certo parlare di tutela della loro creatività. Nel nostro punto di vista non parliamo di Google o Facebook ma nemmeno di Wikipedia stessa. Si tratta di una posizione di tipo:

 

 

Copyright   =   rispetto anche economico della creatività ma nel contempo possibilità di ampliare la conoscenza”

 

 

Per aggiungere altri elementi di conoscenza alla vicenda e in particolare provare a fornire nuovi punti di vista sulla specifica presa di posizione dei vertici di Google abbiamo sentito un altro esperto di problemi digitali il data scientist Luca Corsato.

 

 

“Il copyright come lo intendiamo in Italia e in Europa si concentra solo sulla recinzione e non sul modello di business dei servizi sul capitale intellettuale”.

 

 

Una frase davvero notevole, permettetecelo, che ci ha immediatamente indotto a porre una successiva domanda a Luca: “ma proprio Google che è proprietario dei recinti e anche del modello di business che va per la maggiore online per lo sfruttamento dei contenuti come mai solleva il problema?”.  Le risposte di Corsato sono decisamente illuminanti:

 

 

“Guadagnano dai contenuti, se questi sono difficili da usare … L’industria dei contenuti è un’industria di trasformazione di informazioni in servizi. Che siano canzoni, video, articoli, non cambia per Google: devono trasformarli in servizi da cui estrarre conoscenza implicita. La conoscenza implicita è a mio avviso l’insieme dei saperi e delle esperienze delle persone che riversano – spesso inconsapevolmente – nelle loro attività. Per questo Gortz parlava di reddito di esistenza: cara Google, siccome guadagni dalla qualità dei miei video su You Tube, garantiscimi non solo un compenso per il prodotto ma un sostegno per avere esperienze da riversare nei video.  E questo già avviene. Lo youtuber che fa video in giro per il mondo viene pagato da You Tube e viene pagato da “n” soggetti che guadagnano dalle sue esperienze e prodotti/servizi. In questo modello il copyright è d’impiccio.   Perché tutti gli attori coinvolti sanno che la volatilità dei servizi e dei prodotti è altissima. Il modello del copyright si basa sull’archivio. Ma le generazioni attuali non hanno alcun interesse allo storico. Quindi non pagheranno mai per usare un contenuto di dieci anni fa.

 

 

Google brevetta delle soluzioni e dei prodotti che poi non rinnova quasi mai, anzi li rilascia per adempiere alla responsabilità sociale. Quindi hai “tensor flow” che ti interpreta le foto e altri prodotti liberamente usabili – pensiamo a tutti gli strumenti open per giornalisti  ad esempio – in cui loro (Google) guadagnano attraverso le informazioni “esperienziali” o anche solo semplici dati, lasciati dagli utenti dentro a quegli strumenti.

 

 

Del resto è anche molto difficile se non impossibile pensare alla liberalizzazione degli algoritmi che stanno alla base del funzionamento del modello Google. Perché regolare un algoritmo richiede delle professioni e delle competenze che nessuno dei soggetti coinvolti  nel processo è in grado di pagare. Quanti editori sarebbero disponibili a pagare centomila euro l’anno ad un programmatore senior? Quanti capo redattori o direttori di giornale sono disposti a farsi dettare la linea editoriale in base alle variazioni della SEO?”

 

 

Un ragionamento, quello di Luca Corsato, a nostro avviso davvero interessante e che ci spinge ad incalzarlo sulla “sempiterna” questione della ricerca dei nuovi “modelli di business” post rivoluzione digitale e in particolare sulla difficile ma necessaria integrazione fra il marketing forzatamente “digitale” e la produzione dei contenuti. Un ragionamento molto delicato che porta alla commistione forzata fra prodotti e contenuti. Un ragionamento che riguarda molto da vicino anche il mondo del giornalismo e dell’informazione.

 

 

Secondo noi i guru del marketing digitale hanno ragione quando rimproverano pesantemente editori e giornalisti ma più in generale tutti i possessori e produttori di contenuti di non stare facendo nulla per cercare una forma di remunerazione dentro agli ambienti algoritmici. Invece di cercare di creare nuovi recinti, steccati o leggi sarebbe  auspicabile che i titolari dei contenuti stabilissero in modo molto chiaro un regime di scambio a pagamento con i proprietari degli algoritmi. Una sorta di do ut des. Invece di coalizzarsi contro questo o quello o peggio ancora chiedere e/o accontentarsi di pochi spiccioli concessi dalle compagnie che controllano gli algoritmi, gli editori ad esempio, dovrebbero trattare da pari a pari con le OTT per ottenere un giusto compenso per i propri contenuti che riempiono le piattaforme algoritmiche. In fondo senza contenuti – e solo in questo post è già la seconda volta che lo ribadiamo – la rete e tutti i suoi ambienti sarebbero solo chiacchiere senza alcuna sostanza.

 

 

“Si cerca uno scontro – ribadisce anche Luca Corsato – usando un modello di contrattazione al rilancio invece di riportarla ad uno scambio. Il problema è che per usare eventuali cose che potrebbero arrivare dallo scambio con le OTT ci vorranno almeno 15 anni. Mica tutti hanno a disposizione personalità e ingegni come quelli di Ray Kurtzweil o economisti di fama mondiale come Hal Varian  . Quelli di Google hanno raccolto i migliori e li hanno spremuti. Nel caso della direttiva sul copyright si cerca di spremere il meglio da cosa fatte da morti. Nel senso che molti dei detentori dei diritti sono eredi di persone oramai defunte. Il motivo per cui Google chiede di variare ulteriormente i famigerati articoli 11 e 13 della direttiva europea sul copyright è economico/commerciale.

 

 

Immaginiamo Google come un impero antico. Hanno un’estensione troppo vasta per far fronte ad una miriade di obiezioni legali. Sarebbe una distrazione enorme che creerebbe disaffezione. Cerchi su Google perchè sai che avrai la risposta (la loro risposta) in millisecondi. Vai su You Tube per caricare le tue cose  o per fare riunioni in streaming. Chi vuoi che si metta a leggere i Term of Service? Gli OTT sanno che se dovranno obbligare la gente a leggerli, le persone scapperanno. Oggi vince chi semplifica, chi facilita con tempi sempre più vicini allo zero. Alle persone dobbiamo far capire che come Google chiede facilità di accesso e uso delle informazioni nello stesso modo lo Stato deve assicurare a tutti noi servizi che abbiano la stessa concretezza ed efficienza”. Magari affidandole – aggiungiamo noi – proprio agli stessi OTT.

 

 

“Ricordiamoci sempre la regola del 90-9-1. La percentuale di persone che producono contenuti esclusivi è assai ridotta. La maggior parte delle cose che circolano sono copiate o per bene che vada,  riadattate da lavori  di pochi singoli autori”.

 

 

Chiedere competitività ed efficienza agli Stati magari convincendo i nostri amministratori a trattare in modo serio con gli OTT significherebbe – concludiamo noi, cogliendo la giusta provocazione di Corsato –  mettere finalmente mano a politiche volte alla comprensione della nuova complessità che stiamo vivendo – come sostiene da tempo un altro grande amico di digit e Lsdi Piero Dominici – per rendere per davvero il mondo un posto migliore.

 

 

E se avete ancora qualche dubbio su come funzionino le OTT guardatevi una serie tv davvero molto divertente che si intitola – lupus in fabula – Silicon Valley. Grazie dell’attenzione e buona visione!