Scimmie e giornalismo

Dunque le scimmie sostituiranno i giornalisti? L’intelligenza artificiale che già 7 anni fa era in grado di stilare brevi articoli di giornale negli Usa, in particolare le tabelline dei resoconti delle partite di baseball come spiegavano molto bene nel loro libro “la scimma che vinse il Pulitzer” Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo nel 2011, si sostituirà del tutto ai cronisti?

 

 

La risposta è sì, ma anche no! Entrambe le risposte sono valide come ci ha spiegato proprio uno dei due autori del libro in questione: Nicola Bruno, nel corso del suo intervento a #digitRoma lo scorso 2 febbraio. In realtà nell’edizione pratese di digit quella che si è svolta presso il Polo Universitario di Prato il 28 ottobre dello scorso anno, avevamo già avuto conferma delle nostre perplessità in tal senso. Il professor Mario Rasetti, fisico e grande esperto di ingelligenza – naturale e artificiale –  fra le altre cose, ci aveva spiegato che già oggi oltre il 60 per cento delle informazioni che circolano online hanno origine diretta dalle intelligenze artificiali. Più delle metà dei contenuti arrivano direttamente dalle macchine. E dunque il mestiere del giornalista è destinato a morire? Secondo Rasetti certamente sì, assieme a molte altre professioni così come le conosciamo e pratichiamo oggi. Secondo noi, e anche secondo gli ultimi studi presentati a #digitRoma da Nicola Bruno, le cose non starebbero proprio così.

 

 

Il mestiere del giornalista così come sta ancora oggi nell’immaginario collettivo e anche nella pratica della maggior parte degli iscritti alla categoria, soprattutto nel Belpaese, è ancora fermo a vecchi e oramai decisamente obsoleti stilemi di un mondo morto e sepolto. Il giornalismo che produce le notizie non esiste più. Lo vediamo quotidianamente, lo vediamo dal proliferare delle notizie fasulle, dagli specchietti per le allodole sempre più frequentemente posizionati più o meno strategicamente sulle nostre strade, dalla difficoltà oggettiva che le redazioni dei media mainstream hanno a mantenere vivi i propri monumentali apparati per arrivare “primi” sulle notizie. Un qualunque signor nessuno con uno smartphone ovunque nel mondo  arriva sempre davanti a tutti oramai con puntualità esasperata nel 99% delle volte. La quasi totalità dei filmati trasmessi per documentare un fatto di cronaca arriva da testimonianze postate online in diretta o quasi da persone che assistevano al fatto. Nessun giornalista se non in qualità di testimone esso stesso del fatto e in modo del tutto involontario può battere al giorno d’oggi questo tipo di concorrenza, anche perchè di concorrenza non si tratta ma di modifica effettiva e ineluttabile dei nostri costumi, della nostra cultura, del nostro modo di vivere. Smettiamo di dividere il digitale dal resto perchè oramai non è più così e non lo sarà mai più. Tutti noi siamo –  come ha detto il professor Rasetti a #digits17  – uomini con protesi elettroniche non semplici uomini. E questa nuova “razza” di uomini produce dati, una infinità di dati che devono essere vagliati, esaminati, archiviati, interpretati, uniformati, razionalizzati e sottoposti ad azioni ancora più sofisticate ma utili esse stesse per riuscire a interpretare al meglio quello che accade in questo nostro mondo, nella nostra quotidianità. Il lavoro, uno dei lavori, che devono poter svolgere i giornalisti – assieme alle scimmie  – non in competizione con loro,  è costituito proprio dall’interpretazione dei dati. Non a caso da oramai diversi anni si è sviluppata una “nuova” forma di giornalismo strettamente legata all’interpretazione dei dati. Chiamatelo data journalism, data driven, sensor journalism, o semplicemente giornalismo di precisione quello che va notato è che applicare il “nostro” mestiere all’analisi dei dati da origine ad una figura lavorativa che non esiste e che sempre di più servirà in questo nostro “pazzo” mondo. Così come serviranno sempre di più in questo mondo in cui nel corso dell’anno 2016, come ha ben spiegato il professor Rasetti il genere umano ha prodotto dati in un solo anno che sono pari a tutti i dati prodotti dall’umanità nel corso di tutta la sua storia, dei curatori. Persone – giornalisti diremmo – in grado di dare un senso a tutte queste informazioni prodotte. In grado di distinguere i dati veri da quelli falsi. I dati prodotti artificialmente ma anche e soprattutto artificiosamente da sofisticati meccanismi che accoppiati all’intelligenza artificiale riescono in automatico ad avvelenare i flussi di informazioni e a renderli così tanto inquinati da non poter essere distinguibili, intellegibili.  Quei “bot” che hanno probabilmente permesso a Donald Trump di vincere le ultime elezioni e che forse a brevissimo permetteranno anche a  qualche leader politico italiano di fare lo stesso il 4 marzo prossimo?

 

Dunque per i giornalisti si prospettano giorni bui o giorni di gloria?  “L’IA è destinata a diventare il più grande driver di spesa tecnologica nel prossimo decennio”, ha dichiarato Sarbjit Nahal, Managing Director presso Bank of America Merrill Lynch all’ultimo world economic forum di Davos. “Nel processo che sostiene questa crescita, molte aziende che operano nel campo della creatività, della scrittura, dell’editoria saranno automatizzate in qualche misura  attraverso l’uso dell’Intelligenza Artificiale, poiché le loro catene di produzione funzionano in questo modo. Ognuno di essi inizia con la creazione o la raccolta di contenuti, passa all’elaborazione e alla modifica di essi e termina nella distribuzione del prodotto. E una volta che l’IA  sarà in grado  di comprendere i meccanismi di un processo creativo, potrà essere rapidamente applicata al successivo”. Diamo un’occhiata ad un’interessante tabella inserita da Nicola Bruno nella sua presentazione a #digitRoma in cui vengono ipotizzate dagli scienziati le prossime tappe dei processi di apprendimento in campo creativo da parte delle macchine:

 

 

Nel 2009 le macchine sono state in grado di redigere un breve resoconto di un avvenimento sportivo

 

 

Nel 2011 di battere un essere umano ad un gioco a quiz

 

 

Nel 2016 il computer ha battuto gli esseri umani in una gara di GO   (la cosiddetta dama cinese)

 

 

Nel 2020 le macchine potranno  competere e vincere in alcuni casi nei tornei mondiali di Poker

 

 

Nel 2024  potranno programmare in Python

 

 

Nel 2026 potranno scrivere un tema in una scuola superiore

 

 

Nel 2027 comporre una canzone che possa aspirare a raggiungere la classifica delle top 40

 

 

Nel 2028 realizzare un video

 

 

Solo ventanni dopo ovvero nel 2049 le macchine saranno in grado di realizzare un articolo da prima pagina per un quotidiano mainstream

 

 

Nel 2050 potranno gareggiare nel Putnam (competizione matematica per studenti americani)

 

 

E infine solo fra 41 anni le intelligenze artificiali potranno condurre ricerche scientifiche in proprio

 

 

Direi che per il momento non dobbiamo preoccuparci dell’invadenza dell’Intelligenza Artificiale nelle nostre vite. Sicuramente invece dovremmo cambiare le nostre abitudini, provare ad aprire le nostre menti, apprendere le basi della nuova cultura digitale e se vogliamo continuare a fare i giornalisti: applicare queste nuove basi culturali alla nostra professione, trasformandola secondo le nuove esigenze del mercato ma anche e soprattutto alle nuove esigenze sociali.

 

 

In allegato il pdf scaricabile dell’intervento di Nicola Bruno a #digitRoma