Perugia/ Open data e Data journalism, appunti da un giornalismo lontano

Il mio primo giorno al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia mi lascia molte perplessità e qualche certezza. Una è che l’innovazione (e con essa anche il data journalism) entrerà a far parte del vocabolario giornalistico italiano, ma non attraverso i c.d. mainstream media. Arriverà dal basso, dal lavoro oscuro, reticolare e acuto di quella “nuova razza di giornalisti” che si affaccia alla professione con occhi diversi, intatti, ma avidi di contaminazione. I big inseguiranno, come sempre dall’avvento del digitale; perché prima degli strumenti, è necessaria la testa.

 

 

di Andrea Fama

 

 

Provo a tirare le file di uno dei tre incontri a cui ho assistito oggi.

 

Verso il 2030:  trasparenza, responsabilità e dialogo è un panel che ha inteso analizzare le grandi sfide che attendono l’umanità da qui al 2030 (clima, demografia, migrazioni, energia), identificando “le possibili risposte: innovazione tecnologica, una governance internazionale più efficace, comportamenti individuali più sostenibili”.

 

Massimi sistemi, insomma, che però non hanno impedito alla conversazione l’irrinunciabile virata sul potere salvifico dei nuovi media sociali – a quanto pare comoda panacea non  solo per curare i problemi del giornalismo, ma anche dell’Uomo, della Natura, dell’Universo.

 

Mi sono permesso un intervento, esitante dall’ultima fila, domandando se fosse veritiero aspettarsi “comportamenti individuali più sostenibili” senza una corretta informazione che favorisca, tra le altre cose, l’ auto-determinazione dell’individuo – di contro all’idea di un governo mondiale.

Domandando se, di fianco a Twitter, non fosse utile anche una legge che tuteli il diritto all’informazione dei cittadini.

Domandando se oltre a twittare di Open Government, non fosse il caso di iniziare a parlare seriamente anche di Open Journalism.

 

In fondo, se – come suggerito nel corso del panel – la soluzione ai problemi del XXI secolo non verrà né dall’alto né dal basso, allora è lecito pensare che (se) verrà da uno sforzo comune, condiviso, frutto del contributo di ciascuno di noi, ognuno sulla base dei rispettivi ruoli e competenze. Perché il futuro, non solo per le redazioni, passa dalla collaborazione trasversale.

 

È necessario, pertanto, che il giornalismo non si limiti alla denuncia, ma si faccia strumento di partecipazione e di formazione per l’utente. Qualche esempio? Aprire il processo di produzione dell’informazione; rimodulare le redazioni; corredare il prodotto giornalistico con i meta-dati che rendono l’utente esperto a sua volta, favorendo l’ampliamento delle possibilità giornalistiche e aprendo a una reale partecipazione (l’effetto moltiplicatore per cui se tutti abbiamo accesso a strumenti, fonti e informazioni, allora d’improvviso il panorama giornalistico – e non solo – italiano potrebbe popolarsi di centinaia di Rizzo & Stella).

 

Altrimenti l’inchiesta, la denuncia, rischia di limitare il proprio effetto all’indignazione auto-assolutoria del lettore (e io che posso fare, è la casta …), perdendo di vista la necessaria propulsione dell’individuo.

 

La risposta a queste banali osservazioni è stata forse altrettanto banale, comunque deludente. Sostanzialmente, si è detto, non è vero che in Italia ci sia alcun vulnus; ci sono tanti giornalisti, tanti nuovi media, tanta collaborazione (per il concetto di collaborazione, si rimanda al panel “Il futuro dell’informazione: collaborazione”. Ovviamente solo relatori stranieri.); e non c’è carenza né di dati né di informazioni.

 

Mi domando: passi la quantità, ma la qualità?

 

Nel corso del panel si è parlato di innovazione tecnologica. Ebbene, i giornali italiani, se va bene, hanno un blog che ne parla, ma non hanno giornalisti che la praticano applicandola alla professione. Si veda il data journalism.

 

È di questi giorni un esempio che è sintesi emblematica del grado di innovatività concesso alla professione in Italia, in un’epoca necessariamente orientata alla collaborazione e alla contaminazione virtuosa.

 

Il giornalista Jacopo Ottaviani ha realizzato in modo indipendente un interessante progetto di data journalism, tra i pochi casi finora in Italia: Patrie Galere, ovvero la mappa basic e aperta delle morti nelle carceri italiane dal 2002 ad aprile 2012, basata sull’incrocio dei dati del Ministero della Giustizia e del Centro di Documentazione Due Palazzi, con una “tabella finale che elenca i decessi (con nome, cognome, età e causa del decesso) associati all’indirizzo dell’istituto penitenziario in cui sono avvenuti”.

 

La Stampa.it ha pubblicato in proposito un post, segnalando l’iniziativa. E aspettando di vedere “quello che si potrà realizzare una volta che la politica dei dati aperti, che in Italia ha già iniziato in alcuni enti e istituzioni a prendere piede, sarà diventata la regola e non più l’eccezione”.

 

Ma quali istituzioni? Quelle pubbliche o quelle giornalistiche? Perché la vera spinta verso l’openness pubblica dovrebbe venire proprio dal giornalismo, che non dovrebbe mai smettere di pungolare le amministrazioni in tal senso.

 

Fossi stato il Signor LaStampa.it, avrei chiesto al giovane freelance di accomodarsi a collaborare con la mia redazione, al fine di condividerne (e farle proprie)  le competenze e creare finalmente progetti nuovi. “Patrie galere”, come tutto il data journalism, è un progetto espandibile esponenzialmente. Invece, a quanto pare, a noi basta il rassicurante cortile delle 3000 battute di un post per fare innovazione.

 

Il punto, naturalmente, non è l’ottima redazione della Stampa.it, ma la cifra culturale di chi gestisce l’informazione ufficiale in Italia. La velocità con cui il mo(n)do dell’informazione si sta muovendo è tale da scavare solchi su solchi tra i professionisti –  anagrafico, tecnico, culturale – creando una sorta di genuino disorientamento. È la distanza siderale che separa, semplicisticamente, analogico e digitale: due mondi dell’informazione così lontani da lasciare spossato chi prova a intraprendere il viaggio, come vittima di un insostenibile jet lag.