Soppiantare il giornalismo professionale sul web

Parliamo di giornalismo e in particolare di una delle piaghe del giornalismo moderno, quelle notizie false, o meglio bufale, o meglio post verità, che da alcuni anni, sembrano aver catalizzato integralmente il dibattito dentro alla  nostra professione. Sviando ahinoi, da temi ben più importanti, quando si parla di giornalismo, l’attenzione delle persone,  e molto spesso, anche dei cosiddetti esperti. Soppiantare il giornalismo o anche “dell’indifferenza radicale”.  Una sorta di locuzione, davvero bellissima, dal significato evidente –  o meglio –  speriamo che lo sia, o più probabilmente lo diventi, quando e se,  arriverete in fondo  alla lettura di questo nostro resoconto!  La geniale definizione è stata coniata da Shoshana Zuboff, nel suo ultimo libro che si intitola “il capitalismo della sorveglianza”.  Un testo davvero importante, a nostro avviso, e sul quale stiamo lavorando da alcune settimane. Significativa e acuta, questa definizione, perché evoca in modo chiaro l’atteggiamento dei cosiddetti “capitalisti della sorveglianza”, che per Zuboff sono in buona sostanza, le techno-corporation, o meglio: tutte le aziende che attraverso l’uso dei “nostri” dati, attinti in modo più o meno lecito, dal web e dai nostri comportamenti digitali;  non solo provano a venderci cose, beni e servizi; ma attraverso lo studio e l’utilizzo dei dati del cosiddetto “surplus comportamentale” –  ovvero tutti quei dati che vengono registrati in modo automatico tracciando tutti i nostri comportamenti on e spesso anche off line –   hanno anche  trovato il modo per  gestirci a loro piacimento e a nostra insaputa; programmare e influenzare le nostre scelte, i nostri gesti, le nostre decisioni, anche anticipando le nostre stesse emozioni, le nostre pulsioni; prima ancora che i nostri desideri vengano manifestati in modo coerente. Dice la Zuboff nel capitolo conclusivo del suo testo:

 

 

“nel 2018, quando BuzzFeed ha pubblicato un memo interno di Facebook vecchio di due anni. Scritto da Andrew Bosworth, uno dei dirigenti storici più influenti dell’azienda, mostrava l’applicazione scientifica dell’indifferenza radicale: 

 

 

Spesso parliamo di quanto c’è di buono e di cattivo nel nostro lavoro. Io voglio parlare del “brutto” iniziava Bosworth, e poi continuava spiegando come l’equivalenza sia più importante dell’uguaglianza se tutti sono solo “organismi tra gli altri organismi” e si cerca di guadagnare grazie a una conoscenza totale:

Noi mettiamo le persone in contatto. Può essere una cosa buona se fanno qualcosa di positivo. Magari qualcuno troverà l’amore o salverà la vita di un potenziale suicida. Perciò cerchiamo di mettere in contatto ancora più persone. Ma può essere una cosa cattiva se fanno qualcosa di negativo. Magari qualcuno dovrà affrontare il bullismo e ci rimetterà la vita. Magari qualcuno morirà per colpa di un attacco terrorista coordinato con i nostri strumenti. Ma continuiamo a connettere le persone. Il lato più brutto della faccenda

…è che per noi qualunque cosa ci consenta di connettere più persone di fatto è positiva. Per quanto ci riguarda, è forse il solo ambito nel quale i calcoli sono del tutto sinceri.

Ecco perché il nostro impegno per crescere è giustificato. Tutte le operazioni discutibili per importare i contatti. Tutte le sfumature di linguaggio che fanno in modo che i contenuti di una persona siano ricercabili dai suoi amici. Tutta la fatica per aumentare la mole delle comunicazioni.

Non sono i prodotti migliori a vincere. Sono quelli che usano tutti.

Se siamo qui, è senza dubbio grazie alle nostre tattiche per crescere.

 

 

Come dice chiaramente Bosworth, l’indifferenza radicale ritiene equivalenti i fattori positivi e negativi, malgrado i loro diversi esiti e significati morali. Il solo obiettivo razionale non è più realizzare i prodotti “migliori”, ma quelli che intrappolano “tutti”.

 

L’indifferenza radicale significa che non conta che cosa ci sia in serbo, conta solo che tutto fluisca in modo abbondante.

 

la “moderazione dei contenuti” è al massimo una tattica difensiva, non una presa di responsabilità.

 

 

Quando lasciamo a Facebook o a Google le decisioni su cosa pubblicare e cosa togliere dal web, forse dovremmo tenere a mente questo ultimo passaggio del libro della Zuboff. E a proposito di funzione d’uso del giornalismo. Un ragionamento sul quale da poco più di un anno stiamo riflettendo, prendendo appunti, e realizzando contenuti,  qui a bottega. La studiosa americana ci viene in aiuto, nel suo testo,  con questo passaggio di rara precisione e chiarezza, dove si sostanzia in modo evidente una delle “funzioni d’uso” della nostra professione. Una di quelle “utility” – per dirla col gergo dei tycoon della Silycon Valley – che alle techno corporation non servono – per usare un eufemismo – anzi, provocano, un fastidio diffuso:

 

 

Finora la più grande sfida all’indifferenza radicale è arrivata dalla volontà di Facebook e Google di soppiantare il giornalismo professionale sul web. Entrambe le aziende si sono frapposte tra editori e pubblico, sottoponendo il “contenuto” giornalistico alle stesse categorie di equivalenza che dominano gli altri scenari del capitalismo della sorveglianza. Il giornalismo professionale è formalmente l’esatto opposto dell’indifferenza radicale. Il lavoro del giornalista è produrre notizie e analisi che separano verità e menzogne. Rifiutare che possano essere la stessa cosa è la ragione stessa per la quale esiste il giornalismo con il suo rapporto di reciprocità con i lettori.

 

Con il capitalismo della sorveglianza, queste reciprocità vengono cancellate. Un esempio calzante è stata la decisione di Facebook di standardizzare la presentazione dei contenuti sul suo news feed in modo “che tutte le storie sembrassero uguali dalle inchieste del Washington Post al gossip del New York Post, fino alle bugie del Denver Guardian, un quotidiano completamente inventato”. L’equivalenza priva di uguaglianza ha reso il primo testo di Facebook incredibilmente vulnerabile alla corruzione delle cosiddette fake news.

 

 

 

 

E proprio a proposito della disinformazione, ci piace a questo punto, incastrare nella nostra narrazione, alcune dichiarazioni sul tema, del sociologo della complessità Piero Dominici, estratte da un suo recentissimo intervento online che troverete nel video allegato:

 

 

Nell’era della disintermediazione noi abbiamo un disperato bisogno di intermediazione. Abbiamo un disperato bisogno di recuperare le figure di mediazione;  i processi di mediazione; le dinamiche di mediazione.

 

Il  problema è che dobbiamo mettere mano alle conoscenze e alle competenze di chi poi sarà responsabile  di queste dinamiche che sono tutt’altro che  lineari.   Qui non si tratta,  ancora una volta,  di contrapporre sterilmente la specializzazione dei saperi alla loro interdisciplinarietà,  multidisciplinarità, transdisciplinarità,   complessità,  natura sistemica degli stessi saperi.  Le conoscenze e  le competenze sono importanti entrambe – anche questa è una falsa dicotomia –  conoscenze e competenze non possono che essere specializzate,  e andare sempre di più verso una maggiore specializzazione,  anche con l’affinamento degli strumenti di analisi e rilevazione.

Il problema è non aver creato,  aver negato in partenza,  le condizioni di una permeabilità dei saperi. Torniamo  alla questione della cultura della comunicazione e alla centralità strategica della comunicazione.  Comunicazione che può essere davvero il terreno in cui costruire,  non soltanto un rinnovato un ripensato dialogo dei saperi,  delle conoscenze,  delle competenze e quindi anche delle scienze: di ciò che è scienza.  Ma è anche il terreno su cui ricostruire un rapporto di fiducia e di credibilità con le persone nel lungo periodo.

 

Venendo alle fake news e al tema della postverità provo a cavarmela in questa maniera: sintomo o patologia?

 

Io ho sempre pensato che le fake news e la disinformazione,  non solo nascono con il genere umano – certo poi i fenomeni cambiano  e si radicalizzano e si manifestano in altra maniera – le ho sempre viste come un tema vecchissimo cui è stata restituita una certa originalità, soprattutto da certa letteratura d’oltreoceano.

 

Se  la vedessimo come patologia è evidente che saremmo portati, anche alla luce di quelle che ho chiamato le grandi illusioni della civiltà ipertecnologica che prevedono il coinvolgimento esclusivo di quei saperi e di quelle competenze che più garantiscono quelle illusioni;  saremmo portati a scegliere, per esempio, di poter delegare alle stesse piattaforme agli stessi – evocando Mcluhan –  cannibali digitali che gestiscono questa nuova parte di questo nuovo ecosistema,  a delegare a loro –   in un momento in cui peraltro la politica è debole e marginale –  decisioni e scelte che riguardano la nostra libertà, il pluralismo è tutta una serie di diritti che continuiamo – a torto –  a dare per scontati.

 

Viceversa se a mio avviso,  e questa è la proposta su cui ho sempre lavorato,  la disinformazione la riconosciamo e  la decliniamo invece come sintomo di qualcosa che è molto più importante complesso e difficile da affrontare.  E mi riferisco in questo caso al declino della democrazia,  alla difficoltà in cui versa il regime politico che comunque pur con tante criticità,  difetti,  punti di debolezza,  continua a essere il regime politico che meglio ha mostrato di sapersi adattare appunto alle perturbazioni dell’ambiente,  degli ecosistemi,  e a quella imprevedibilità quella caoticità a quella instancabile dinamicità che caratterizza i sistemi sociali.  Allora, se la  disinformazione fosse sintomo di qualcosa: si tratterebbe di  un problema molto più profondo; una dinamica che ci chiede di rimettere al centro la persona.  Quante volte l’abbiamo sentito questa cosa:  rimettere al centro la persona, il cittadino,  il consumatore.  Ecco se noi vogliamo  davvero creare le condizioni, che sono sociali e culturali,  e quindi riguardano anche i rapporti di potere,  per una rinnovata centralità delle persone;  non possiamo che recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa. La qualcosa significa, scusate quello che può sembrare gioco di parole, ma non è: cambiare in maniera radicale i processi educativi e formativi,  costruire una cultura dell’errore,  educare all’empatia, educare all’imprevedibilità,  ripensare in una chiave relazionale i concetti stessi di libertà e di responsabilità.

Se non faremo questa operazione non avremo risultati.  Si tratta di pensare davvero al lungo periodo.  E questo è un discorso che riguarda la nostra democrazia,  il nostro abitare insieme,  il nostro riconoscere,  ripeto,  nella diversità, nel pluralismo,  non a parole,  nella coerenza dei comportamenti e degli atti; i valori fondanti e fondativi.

 

 

A far eco, alle parole illuminanti del sociologo romano, grande amico di Lsdi e digit, troviamo questo conclusivo passaggio ancora una volta estratto da “il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff. Un passaggio in cui vengono sintetizzati alcuni temi centrali dell’uso – davvero poco assennato, permetteteci di dirlo  – che le techno corporation, farebbero proprio, della disinformazione, della postverità, delle famigerate fake news. Uso, forse è il caso di sottolinearlo:

 

 

 

In modo coerente con l’indifferenza radicale, le fake news e le altre informazioni corrotte sono sempre state una caratteristica di Google e Facebook. Ci sono infiniti esempi di disinformazione che si sono diffusi perché rispondevano agli imperativi economici, e ne voglio citare qualcuno. Nel 2007, un importante analista finanziario si dichiarò preoccupato per le possibili ripercussioni della crisi dei subprime sul settore pubblicità di Google. Può sembrare strano se non si sa che prima della Grande recessione, Google aveva accolto a braccia aperte nel proprio mercato dei comportamenti futuri alcuni soggetti poco cristallini che concedevano prestiti subprime, per mettere le mani sulla parte migliore dei 200 milioni di dollari che spendevano ogni mese in pubblicità online. Un rapporto del 2011 di Consumer Watchdog sul comportamento di Google nel mercato pubblicitario prima e durante la Grande recessione concludeva che “Google è stata tra i primi beneficiari della crisi nazionale dei prestiti e dei pignoramenti,

accettando pubblicità fuorvianti di operatori fraudolenti che mentivano ai consumatori ignari, promettendo di risolvere i loro problemi di credito e mutuo”. Malgrado la diffusione sempre maggiore di queste notizie, Google ha continuato ad accettare clienti fraudolenti fino al 2011, quando il dipartimento del Tesoro le chiese finalmente di sospendere i rapporti con “più di 500 inserzionisti associati a 85 presunte frodi online, con relative pubblicità ingannevoli”. Solo pochi mesi prima, il dipartimento di Giustizia aveva multato Google di 500 milioni di dollari, “una delle sanzioni economiche più grandi della storia”, per aver accettato, malgrado i ripetuti avvertimenti, pubblicità di farmacie online canadesi che proponevano agli utenti statunitensi di Google di importare illegalmente dei farmaci.

 

La corruzione delle informazioni è stata una presenza fissa anche su Facebook. Il finimondo causato dalle campagne di disinformazione durante le presidenziali del 2016 non era una novità: era stato preceduto dalla corruzione del dibattito e dei risultati elettorali in Indonesia, Filippine, Colombia, Germania, Spagna, Italia, Ciad, Uganda, Finlandia, Svezia, Olanda, Estonia e Ucraina. Studiosi e analisti politici da anni richiamavano l’attenzione sulle conseguenze dannose della disinformazione online.

 

Non c’è luogo dove l’influenza sproporzionata del capitalismo della sorveglianza sulla divisione dell’apprendimento sia presente come nella “moderazione dei contenuti”. Tutto l’orrore del mondo viene cancellato o meno in base a un flusso di lavoro razionalizzato, con decisioni prese in un istante, evidenziando come contino solo gli imperativi economici. Soltanto grazie al lavoro di alcuni studiosi e giornalisti d’inchiesta abbiamo avuto qualche dettaglio su queste procedure segrete, attualmente assegnate a una serie di call center, studi legali e piccoli siti dislocati in tutto il mondo. Spiega una di queste ricerche: “Facebook e Pinterest, insieme a Twitter, Reddit e a Google, si sono rifiutate di fornirci le linee guida delle loro policy per la moderazione passate o presenti”.

 

I pochi che sono riusciti a capire come agisca Facebook tornano sempre sullo stesso tema: questa forza lavoro segreta, che qualcuno ritiene essere composta da 100.000 o più “moderatori dei contenuti”, non agisce a contatto con il cuore dell’azienda, e mescola giudizi umani e strumenti d’apprendimento automatizzati.  I suoi componenti, che qualcuno chiama “custodi”, passano in rassegna contenuti segnalati dagli utenti come problematici. Ci sono regole generali, come l’eliminazione di immagini pornografiche e di violenza sui bambini, ma il testo con le linee guida dettagliate punta al rifiuto del numero minore possibile di contenuti, fissando una soglia minima di tolleranza. Lo scopo è trovare un equilibrio tra la capacità di attirare gli utenti con il loro surplus nel sito e il rischio di respingerli. È un calcolo basato sull’indifferenza radicale, che non ha nulla a che fare con la verità dei contenuti o con il rispetto di un rapporto di reciprocità con gli utenti. Questa tensione spiega come mai la disinformazione non sia una priorità.

 

L’indifferenza radicale significa che non conta che cosa ci sia in serbo, conta solo che tutto fluisca in modo abbondante. (repetita iuvant)

 

 

Siamo dunque sull’orlo del baratro. E solo la conoscenza dei meccanismi di funzionamento di questa grande – immensa – macchina per lo sfruttamento sistematico e generalizzato dei nostri comportamenti on e off line, messa a punto dalle techno corporation può darci qualche chance. Solo quella e l’educazione a gestire noi stessi e le nostre azioni in modi differenti da quelli “suggeriti” –  in realtà imposti –  dai medesimi signori delle OTT. Grazie dell’attenzione e della lettura, e alla prossima ;)