Le fake news non esistono

Chiediamo scusa anticipatamente per questa entrata a gamba tesa sul tema in oggetto ma proprio non riusciamo ad ignorare tre fatti importanti che dal tema hanno preso origine nelle ultime settimane. Sono tre iniziative politiche nate dentro ai palazzi del potere o attorno ad essi e quindi ancora più importanti perchè in grado di influenzare in modo pesante la creazione della pubblica opinione.  Il primo fatto, quello più vecchio nel tempo, ha avuto inizio direttamente in parlamento, autrice la terza carica dello Stato  nonchè presidente di quel ramo del nostro parlamento che si chiama Camera dei deputati e riguarda proprio le cosiddette fake news. Un’iniziativa, lodevole negli intenti, ma che come abbiamo già avuto modo di sottolineare in più occasioni, ha invece ottenuto, o sta contribuendo ad ottenere un risultato contrario rispetto a quello auspicato. L’idea era quella di esercitare un controllo sulla diffusione delle fake online e in particolare dentro i social network. Il  risultato è stato la leggittimazione di atteggiamenti censori da parte di qualcuno che già secondo il  proprio oggetto sociale esercita quello stesso  controllo e addirittura censura continuamente i nostri comportamenti online attraverso l’applicazione del proprio algoritmo: facebook. Ma potrebbe essere google, e tutti gli altri grandi e piccoli player che usano i dati e  il sistema algoritmico per gestire, gestirsi e – sigh –  gestirci.

 

 

Il secondo fatto è più recente e ne ha generato a strettissimo giro un terzo quasi immediato, quindi ne parleremo insieme. Si tratta della campagna elettorale di Matteo Renzi contro le fake news lanciata alla Leopolda e della reazione di Di Maio dei Cinquestelle che invoca l’Osce per controllare, non si capisce bene come e dove, l’uso di fake news durante la prossima campagna elettorale italiana .

 

 

In questo campo da gioco, davvero polveroso, o infangato decidete voi, dove la palla non si vede più nemmeno con il cannocchiale, ci piacerebbe provare a riportare il pallone – se ci concedete di continuare ad usare questa metafora calcistica – almeno dentro al campo e non sugli spalti o fuori dallo stadio dove invece si trova in questo istante.

 

 

Le fake news non sono un fenomeno recente non hanno a che vedere con internet non hanno alcuna origine o parentela con la Brexit, Trump o altri luoghi comuni con cui vengono associate oramai da tutti: bar sport compreso.

 

 

Diffondere falsità è sempre stato uno sport molto in voga e nel quale il giornalismo ha esercitato una funzione piuttosto attiva e articolata. Per provare a comprendere quanto cerchiamo di  dirvi basta digitare sul classico motore di ricerca le paroline fantomatiche, in qualunque lingua si decida di usare, e vedrete che di bufale è pieno il mondo da epoca immemorabile.

 

 

Se poi volete divertirvi e comprendere un altro pezzetto del puzzle andatevi a guardare il lavoro che da tempi non sospetti sta facendo sulle bufale – di ogni tipo, dimensione e varietà –  il bravo Paolo Attivissimo. Quando ha iniziato a lavorarci Paolo, la rete così come la conosciamo ed usiamo, doveva ancora arrivare e l’uso di internet era decisamente molto meno spregiudicato, non esistevano i social, non c’era alcun rapporto causa/effetto, come peraltro continua a non esistere nemmeno ora a nostro parere, fra internet e fake news; ma all’epoca era molto difficile anche solo pensarlo, non solo vederlo, questo rapporto, e quindi tutti indagavano su altro e probabilmente provavano a sforzarsi di capire invece di riempirsi la bocca di soluzioni preconfezionate e riguardanti un “falso problema” come, purtroppo,  sta accadendo oggi.

 

 

Poi proviamo a pensare a quello che è realmente accaduto dopo la rivoluzione digitale e, in seguito, qualche anno dopo, grazie all’avvento della rete, nel mondo dell’informazione. Il sistema mediatico verticale è stato scardinato. Le emittenti ovvero i mass media e i riceventi ovvero noi tutti consumatori, o lettori o telespettatori  –  decidete voi come volete chiamarli – improvvisamente hanno cessato di esistere, o meglio tutto è rimasto inalterato, ma l’ambiente sociale in cui si costruiva il processo di relazione fra emittente e ricevente  si è profondamente trasformato ed è diventato: un ecosistema digitale – non è la rete, attenzione, internet è solo una parte dell’ecosistema che non a caso si chiama transmediale – e in questo ecosistema digitale tutti siamo emittenti e riceventi nello stesso momento, sebbene alcuni dei soggetti coinvolti rimangano professionalmente connotati come emittenti: ci riferiamo appunto ai mass media. Nell’ecosistema digitale in cui siamo e da cui non torneremo indietro salvo l’arrivo improvviso e imprevisto di una catastrofe globale  che ci riporti all’età della pietra, il ruolo dei produttori di notizie professionali –  giornali, giornalisti, editori, televisioni, radio, enti pubblici, industrie e chi più ne ha più ne metta senza invocare false ideologie o deontologie e principi morali impraticabili,  così va il mondo oggi come oggi – è divenuto altro e chi non se ne rende conto e non si adegua è destinato –  già a molti è successo – a perire.

 

 

Nel contempo succede che nel solito ecosistema – e per capire meglio di cosa stiamo parlando pensate al ciclo dell’acqua in natura – il ruolo dei giornalisti, meglio definirli professionisti dell’informazione, si è evoluto moltissimo e ha reso questa categoria professionale fondamentale per comprendere e riuscire a orientarsi nel modo giusto in mezzo a questo nuovo mondo sempre più caratterizzato da un eccesso di informazioni, da un eccesso di dati.

 

 

Nel futuro prossimo, fra meno di tre anni, questi dati da cui siamo sempre più circondati, in cui siamo immersi e che stanno aumentando e crescendo istante dopo istante seguendo una progressione esponenziale, dovranno forzatamente essere processati da macchine sempre più intelligenti. Già oggi più della metà delle notizie scritte e distribuite sono prodotte dall’intelligenza artificiale. L’universo ipotizzato nel saggio del 2011 (un eone di anni fa nel tempo della rete) “La scimmia che vinse il pulitzer” è già qui.   Nel 2016 ci ha detto all’ultimo digit il professor Mario Rasetti,  sono stati prodotti dati/informazioni/notizie che complessivamente hanno eguagliato nella mole tutto lo scibile prodotto dall’Umanità dalla sua apparizione sulla Terra,  e  nel 2017 i dati prodotti saranno circa il doppio di quelli dell’anno prima e quindi due volte la storia intera del genere umano.

 

 

Con l’avvento dell’ultimo protocollo di tramissione dei dati medesimi, quel 5g, di cui si sente già parlare e per il quale il nostro Paese è ruscito a conquistarsi la possibilità di essere l’unico sperimentatore europeo fino al 2020 – Prato, Bari, L’Aquila, Milano e Matera sanno i luoghi della sperimentazione –  il mondo si riempirà molto più di ora di sensori che parleranno sempre di più fra loro realizzando quello che già da molti studiosi è stato definito l’internet delle cose.

 

 

Questo ulteriore upgrade tecnologico farà sì  che la mole di dati prodotti dai dispositivi resi intelligenti dai sensori e dalla rete ultraveloce sarà enormemente maggiore e ci costringerà a fare in modo che tutti questi dati debbano obbligatoriamente essere processati direttamente dalle intelligenze artificiali perchè noi non saremo più e in nessun modo in grado di gestirli. Stiamo parlando di un futuro vicinissimo e in parte già in essere, non di uno scenario fantascientifico.

 

 

In tutto questo il fenomeno delle fake news così come è diventato preda della politica, è esso stesso una enorme bufala priva di ogni fondamento e rischia, se gestito in questo modo, di farci perdere di vista i veri problemi e le vere sfide sulle quali dovremmo invece concentrarci e divenire consapevoli. Quello che da molti viene presentato come fake news per esempio quando si parla delle ultime elezioni americane e la conseguente elezione di Donald Trump, è invece un fenomeno  importante e delicato sul quale dovremmo concentrarci per provare a capire come si sia originato. Si tratta di profilazione di altissimo livello derivante proprio dall’uso spregiudicato dei nostri dati – dati che consegnamo più o meno inconsciamente noi stessi ai sistemi di raccolta presenti online: Amazon, oppure Google, o Facebook, soggetti che attraverso l’analisi dei nostri dati sono in grado di vendere, ad esempio ad un candidato politico, oppure ad un’azienda commerciale,  milioni di profili personali così accurati da permettere a questi soggetti terzi di essere così pervasivi, così informati nei nostri confronti da poter acquisire con relativa facilità ed esito quasi scontato:  i nostri voti, le nostre preferenze, i nostri acquisti. Un sistema quasi infallibile che permette di raggiungere milioni di persone, in tempo reale, sapendo con precisione millimetrica cosa loro desiderano, cosa a loro piace, cosa li rende felici e cosa tristi. Un sistema che usato per il bene comune può, ad esempio, permetterci di prevedere con precisione l’evoluzione di un’epidemia, e riuscire a contenere la sua diffusione e il rischio di contagio. Non sono dunque le notizie false il nocciolo del problema bensì, se ci è permesso dire, la negoziazione degli algoritmi. 

 

 

Risposte non ne abbiamo, ma il numero delle domande da porsi è destinato a salire, vertiginosamente. Come appare evidente anche da un contributo davvero interessante suggeritoci dal “nostro” Benedetto Ponti. Si tratta di uno speech del professor Ugo Mattei insigne giurista. Buona visione.