Una nuova figura di giornalista ibrido: in Usa lo hanno battezzato ‘’blogoporterator’’

L’ emarginato, di Luigi Franzese
L’ emarginato, di Luigi Franzese
E’ emarginato dal giornalismo mainstream, che nei confronti dei gruppi sociali ed etnici da cui proviene continua a mostrare forti pregiudizi. Ma quando il razzismo, il sessismo e altri pregiudizi si scatenano, è in grado di commentare e ribattere, di scrivere e diffondere articoli che raccontano le proprie esperienze e opinioni.

 

E’ il blogo-porter-ator,nuova (e bruttina) definizione americana del profilo di un nuovo giornalista ibrido: che per un terzo è blogger, per un altro terzo reporter e per l’ ultimo terzo opinionista. Un nuovo tipo di giornalista che non ha bisogno di attenuare le proprie opinioni per ottenere che i loro pezzi vengano accettati, o per compiacere editori o inserzionisti. Una figura che va anche oltre il giornalismo partecipativo e che qualcuno immagina addirittura come il ‘’futuro del giornalismo’’

 

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Ecco che negli Stati Uniti spunta  un nuovo termine. Spesso le nuove parole sono efficaci e concrete. Altre volte sono proprio brutte, come questo blogoporterator: blogo-porter-ator. Ma se il termine è fastidioso, quello che rappresenta è sostanzialmente una realtà.  E’ il profilo di un nuovo giornalista ibrido: che per un terzo è blogger, per un altro terzo reporter e per l’ ultimo terzo opinionista.

 

La definizione è stata lanciata da Kenneth Rapoza in una riflessione  sul futuro del giornalismo pubblicata su  In These Times. E l’ ha ripresa Sam Bakkila  su Policymic.com chiedendosi addirittura se questa nuova figura non possa rappresentare il futuro del giornalismo (Is ‘Blogoporterating’ the Future Of Online Journalism?).

 

Qui da noi lo potremmo tradurre – se il termine dovesse affermarsi – con blog-cro-pinionista? Mostruoso ugualmente, anche se forse un tantino meglio.

 

Comunque, è  vero che dilagano gli articoli di opinione mentre i servizi di giornalismo investigativo diventano sempre più rari – osserva Bakkila, che è fra l’ altro condirettore dell’  Harvard Square Homeless Shelter, un ostello per senzatetto -. Ma in compenso questo nuovo tipo di cultura giornalistica,  che si intreccia con il giornalismo partecipativo, dà accesso a molte voci che finora erano state sempre escluse dai grandi media: scrittori giovani, scrittori di area LGBT, scrittori di colore, scrittori senza credenziali formali di giornalisti,  e scrittori che lavorano a tempo pieno in altri campi .

 

Al di là di mere questioni di rappresentanza, questa nuova classe di giornalisti non hanno bisogno di attenuare le proprie opinioni per ottenere che  i loro pezzi vengano accettati, o per compiacere editori o inserzionisti.

 

D’ altra parte le fonti di informazione tradizionali hanno pregiudizi eclatanti e sistematici che rispecchiano l’ esclusione di gruppi sociali emarginati dalle loro redazioni e dalle funzioni di leadership. Fra gli esempi recenti quello della CNN che in una vicenda di violenza sessuale ha espresso simpatie per i sequestratori  piuttosto che per la vittima, o quello dell ridicole ipotesi sull’ identità razziale degli attentatori alla Maratona di Boston, oppure la convinzione di un importante commentatore che era così confuso sulla bisessualità da ritenere che tutti i bisex vorrebbero sposare sia un uomo che una donna.

 

I media mainstream, inoltre,  non hanno nemmeno il vocabolario giusto per affrontare in maniera rispettosa molti gruppi, figuriamoci se potrebbero rappresentare le loro voci. L’ Associated Press ha  finalmente rivisto le sue indicazioni lessicali per la redazione, imponendo di smettere di definire “clandestini”  gli immigrati privi di documenti, un cambiamento che invece deve ancora avvenire   al New York Times. Ma mentre il Times non si muove, un  brillante esempio di  blogoporterating sul successo di ‘’ undocumented immigrants’’  è disponibile online.

 

Questo non vuol dire naturalmente che i siti di informazione basati sul giornalismo partecipativo siano privi di pregiudizi o errori. Ma quando il razzismo, il sessismo e altri pregiudizi muovono qualche brutta testa, le comunità oggetto di pregiudizi  sono in grado di commentare, rispondere, e scrivere, e diffondere in giro gli articoli che raccontano le proprie esperienze e opinioni.

 
E anche se il singolo blogoporterator moderno può disporre di una accuratezza inferiore tecnicamente a causa di una ridotta supervisione editoriale,  la comunità di blogoporterator collettivamente potrà raggiungere una accuratezza sostanziale ed epistemica attraverso la prevenzione dei pregiudizi sistemici. E questo sicuramente costituisce una forma più duratura e più moralmente stringente di precisione.
 
Rapoza – osserva ancora Bakkila – non addossa tutti i mali dell’ informazione al blogoporterator, ma è molto franco sulle tante sfide che attendono il settore. Secondo Rapoza  “il blogoporterator è nato e cresciuto in un ambiente in cui il giornalismo riduce e abbassa sempre di più le sue aspettative”.  I problemi finanziari hanno lasciato i giornali senza redazioni adeguate al compito di un corretto lavoro di ricerca, editing, fact-checking e investigazione. Nello stesso tempo, la concorrenza con l’ online e la televisione ha portato ad un aumento della pressione a segnalare e coprire per primi eventi importanti che avvengono in tempo reale. Questa erosione della accuratezza e della capacità di ricerca del giornalismo stampato ha offuscato ulteriormente la differenza tra giornali e blog, dando al pubblico più di un motivo per non rinnovare i loro costosi abbonamenti ai giornali.

 

Rapoza pensa che il blogoporterator possa essere un trabocchetto per il giornalismo moderno, ma anche il possibile futuro del settore. Se c’ è una novità che può risolvere lo stato di crisi del giornalismo, questa potrebbe venire – dice – proprio dai blogoporterator.

 

A patto che diventino parte della soluzione invece che il problema.

 

1)In primo luogo è importante che i blogoporterator stiano in ambienti moderati con attenzione, come PolicyMic, dove i commenti alimentano dibattiti invece che risse virtuali e i singoli commentatori possono costruire e monitorare il loro nome e la loro influenza e credibilità.

 

2)In secondo luogo, i blogoporterator devono rendersi conto che non tutta la condivisione virale è buona in se stessa.  A volte su Facebook o Twitter vanno a razzo articoli tendenziosi o frivoli, ma chi scrive deve rendersi conto che questo non è un buon piano a lungo termine per continuare ad attrarre ripetutamente  i lettori.

 

3)Terzo, questi blogoporterator devono capire come bilanciare tempestività e rispetto della privacy. Ci sono stati vari casi di seri errori giornalistici nelle cronache sulla strage alla Maratoina di Boston. Ma quegli errori  non erano addebitabili solo ai blogoporterators. In ogni caso c’ è bisogno che i media cooperino e che venga accettata l’ ipotesi di interrompere i flussi di false informazioni.

 

4)Quarto,  i blogoporterator hanno bisogno di costruire connessioni più numerose e più strette tra il giornalismo e il mondo accademico. Quella del blogoporterating è in realtà una posizione unica per rafforzare questo legame, visto che molti degli autori sono studenti universitari o laureati o persone con competenze tecniche in un campi  particolari. L’ accademia può sostenere il giornalismo creando un maggior numero di pubblicazioni open-access, dove i blogoporterator possono leggere, condividere e criticare il loro lavoro. Invece di restare chiusi all’ interno di riviste accademiche nascoste dietro paywall a cui accede un pubblico molto ristretto, gli accademici hanno bisogno di usare il blogoporterating per portare il loro lavoro all’ attenzione del vasto pubblico.

 

5) Infine, i blogoporterator devono essere convinti di andare al di là della forma e del contenuto di un normale giornale online. Le comunità di blogoporterator hanno infatti la possibilità di trasformare il consumo di informazione in un’ esperienza attiva e partecipativa e in una rilevante  fonte di impegno civile se si riuscirà a restare immaginativi e innovativi.