In guerra “antichi e moderni” in Francia dopo il Manifesto per un altro giornalismo

Manifesto
E se la conversione al digitale fosse “una trappola mortale per i giornali”? Un nuovo Manifesto, pubblicato qualche giorno fa in Francia, lancia una pesante requisitoria contro un presunto “grande ‘bluff tecnologico’ di internet” scuotendo il mondo dell’ informazione – “I fatti sono stati rimpiazzati dalle opinioni, accusa il Manifesto, e le informazioni dal divertissement” destinato a “consumatori di informazione” mentre si è passati da “un sogno di giornalismo a un sogno di comunicazione” in cui “la pubblicità sostiene i giornali come la corda sostiene l’impiccato”  – L’ iniziativa ha provocato forti reazioni perché è vero che la polemica non ha nulla di nuovo, ma è anche vero che le condizioni di lavoro nelle testate francesi si è via via aggravata in questi anni per quello strato, sempre più diffuso, di ‘’forzati dell’ informazione’’ – I responsabili web delle grandi testate d’ Oltralpe però replicano con toni sferzanti: “Non è che se non si è sul terreno col vento nei capelli e un gilet multitasche si fa del cattivo giornalismo”

 

 

di Andrea Paracchini

 

 

Qualche mese dopo la pubblicazione del “Manifesto della stampa on line”, un altro manifesto arriva a scuotere il mondo dell’informazione d’ Oltralpe. Venti pagine fitte fitte, pubblicate il 9 gennaio (solo in versione cartacea, ma le potete trovare qui) all’interno dell’ultimo numero del trimestrale XXI.

 

– E se la “conversione al digitale” fosse una trappola mortale per i giornali?

– E se i dirigenti della stampa mondiale si stessero sbagliando a investire a più non posso in applicazioni, siti e  redazioni multimedia?

– E se le cifre mirabolanti delle pagine visitate e le audience clamorose delle testate trasformate in “marchi mediatici” fossero un’esca?”

 

 Le prime righe del manifesto danno il tono e il senso di quella che, continuando nella lettura, appare essere una pesante requisitoria contro il grande “bluff tecnologico” di internet che ha portato ad una “circolazione circolare dell’informazione” ad opera di un giornalismo “seduto” dietro a uno schermo e “automatizzato”.

 

Nella prima delle tre parti di cui si compone il manifesto si sostiene che il passaggio al digitale non avrebbe portato alcun risultato positivo. Anzi, all’abbandono dei generi nobili come il reportage ha corrisposto l’adozione di un nuovo sistema dove dei “tecnici dell’informazione” – ridotti al ruolo di “stenografi” – producono “oggetti” caratterizzati da una “scrittura calibrata, duplicata e formatta” in cui “i fatti sono stati rimpiazzati dalle opinioni, le informazioni dal divertissement” destinato a “consumatori di informazione”.

 

Nella seconda parte, si procede ad una storia della stampa – non priva di qualche strafalcione – in cui si individua negli anni 80 il momento in cui si è passati da “un sogno di giornalismo a un sogno di comunicazione” in cui “la pubblicità sostiene i giornali come la corda sostiene l’impiccato”. Oggi la corda è rotta ma non si sa come ripararla perché ciò che vale sono i visitatori, non l’ informazione.

 

L’ ultima parte è quella più costruttiva, quella in cui il manifesto fissa i pilastri sui quali “rifondare una stampa post-Internet concepita per i lettori e non a partire dagli inserzionisti”.

 

Il tempo. I giornalisti devono abbandonare l’idea di essere i primi ad annunciare un’informazione e dedicare il tempo necessario per “portare ai lettori un’informazione differente, intensa, concentrata su ciò che dura, che l’articolo faccia dieci righe o dieci pagine”

 

Il terreno. “Il giornalista è colui che va dove il lettore non può andare”

 

L’immagine. “La stampa non ha nulla da guadagnare dal praticare del cattivo giornalismo video”. Piuttosto, dovrebbe tornare ad interessarsi al fotoreportage o dedicare più spazio al graphic journalism.

 

– La coerenza. “La ‘grande stampa’ ha tutto da guadagnare a parlare con una sola voce, chiara, coerente, fatta di carne e di vita: è rinunciando ai target identificati attraverso un algoritmo ai quali corre dietro perdutamente che ritroverà lettori e ristabilirà una relazione di fiducia”

 

 

I forzati del web

 

XXI è un “mook” (contrazione di “magazine” e “book”) lanciato nel gennaio del 2008, che ha avuto in Francia un grosso successo. E In una stampa segnata dalla precarizzazione galoppante e dalle chiusure a ripetizione, si capisce come questo insolente successo commerciale e l’ inarrestabile fenomeno di emulazione che ne è scaturito (ne parleremo presto in un altro articolo) abbiano spinto la testata a dettare il suo verbo al resto della stampa francese. E non solo, visto che il manifesto sarà tradotto e pubblicato nel prossimo numero della rivista americana Harper’s.

 

XXI

 

Un atto comprensibile dunque, legittimo forse, ma di certo non da tutti gradito. Intanto perché la polemica non ha nulla di nuovo. Anzi, qualcuno la credeva ormai superata e in molti in effetti hanno subito ripescato negli archivi l’inchiesta pubblicata nel maggio del 2009 dall’ ”autorevole Le Monde”, in cui i giornalisti web venivano definiti “i forzati dell’informazione”.

 

Il problema è che per alcuni la situazione non è così tanto cambiata. Per giorni ad esempio è rimbalzata su web e social network, la reazione, anonima, di un giovane giornalista web.

 

In un sfogo dal titolo “Non è su questo giornalismo che ho messo la firma”, il collega ammette che oggi alcune redazioni – si pensi a quelle di LeMonde.fr o LeFigaro.fr – possono contare su anche 70 giornalisti e che i reportages sono più frequenti come pure il dialogo fra on line e cartaceo. Ma poi parte ad elencare tutto quello che non va…e l’elenco è lungo

 

 

Un giornalista web di un sito d’informazione generalista tratta e arricchisce delle notizie di agenzia, pubblica fino a sette pezzi al giorno: è là per produrre sempre più contenuto. Soltanto, lasciatemi dire che dopo aver editato quattro agenzie, redatto tre articoli a partire da link (“veglia”, “letto, visto e sentito”, ‘visto sul web”) e tirato fuori alla bella e meglio un articolo in due ore, non si ha sempre l’impressione di aver portato un’informazione originale al lettore. Soprattutto quando tutti i concorrenti hanno la stessa informazione. (…) Molti siti pubblicano i takes delle principali agenzie senza editing e firmati AFP o Reuters. (…) Viene da chiedersi se i giornalisti più pubblicati sul web non siano proprio i giornalisti d’ agenzia.

 

Il responsabile? Ha le forme morbide e colorate di Google, considerato ormai alla stregua di un capo redattore.

 

Paradossalmente, gli editori continuano a chiedere soldi a Google, quando fanno di tutto per fare colpo sui suoi robot. La linea editoriale è direttamente modificata da Google, non c’è da scherzare: certi articoli nemmeno esisterebbero senza l’ingiunzione di queste parole chiave che bisogna per forza avere sul proprio sito. Ed è sempre più frequente che le persone del marketing suggeriscano delle “idee” ai capo redattori. Se avete già fatto 12 pezzi su un argomento che “tira clic”, domani ve ne chiederanno un tredicesimo anche se non c’è che una riga di contenuto da aggiungere. Ma ci vuole un titolo.

 

Il risultato è il dilagare di formati stereotipati e “facili” di cui il lettore italiano troverà facilmente equivalenti nel nostro panorama nazionale

 

La rassegna web – come lo era prima la rassegna stampa – è oggi il formato facile usato da certe redazioni per evocare degli argomenti che non sanno proprio come trattare. Il buon giornalista web è quello che sa identificare un buon buzz. E’ quello che metterà meno tempo degli altri a pubblicare un pezzo da 500 battute, inserendoci tre tweets e una cattura da schermo più veloce dei suoi colleghi. Quattro ore più tardi, tutti avranno fatto lo stesso pezzo con gli stessi tweet, da Melty.fr al NouvelObs.com. E le redazioni che hanno abbastanza effettivi avranno lasciato altri giornalisti lavorare su angoli più precisi.

 

Certi nuovi formati come il web documentario e il diaporama sonoro si sono rivelati poco adatti ad attrarre “un lettorato avido di informazione da consumare rapidamente”. A loro sono state preferite altre soluzioni (anche queste ampiamente praticate in Italia).

 

Per moltiplicare gli articoli e quindi il contenuto e quindi i clic, il citizen journalism o giornalismo partecipativo ha parecchio aiutato le redazioni. Con la scusa di un’apertura delle redazioni ai lettori, i media hanno capito che lasciare la parola agli internauti permette di avere sempre più contenuto: commenti, foto, video, post, contributi. Un internauta che commenta è un internauta che ritorna e quindi clicca. Un giornalista, un esperto, potranno pure loro contribuire di tanto in tanto e gratuitamente, basterà dirgli che “fa bene alla visibilità”

 

I paladini del web

 

Di ben altro tenore sono state le reazioni dei responsabili web dei grandi media francesi.

 

C’è chi come Serge Michel, vice direttore della redazione di Le Monde,avanza ironicamente un sospetto «Mi piace molto XXI, ma il loro manifesto è leggermente pro domo» e attacca la visione romantica della professione che vi è propagandata, con tanto di esempi.

 

 “Non è che se non si è sul terreno col vento nei capelli e un gilet multitasche si fa del cattivo giornalismo! L’eccellente blog The Lede  del New York Times ad esempio (…) mostra che per raccontare precisamente il reale, non basta più consumare le suole. E che il web è divenuto esso stesso un terreno. »

 

 

HaskiPierre Haski, che nel 2007 lasciava Libération per fondare Rue89, il primo grande pure player transalpino, si dice preoccupato all’ idea di ricominciare l’eterna guerra fra Antichi e Moderni. In un lungo editoriale sottolinea in particolare che “il digitale ha fatto perdere ai giornalisti il monopolio della parola e noi di Rue89 riteniamo che sia una buona notizia per tutti, a cominciare dalla democrazia”.

Il commento di Johan Hufnagel, redattore capo e cofondatore di un altro pure player Slate.fr, è senz’altro il più stizzito:

 

«La stampa senza digitale, non è un dibattito è un errore fattuale. La crisi precedeva internet e XXI commette diversi errori di giudizio. Primo, i giornali non hanno investito massicciamente nel digitale negli ultimi anni. Secondo, non siamo migrati su internet perché era una moda ma perché era lì che stavano i nostri lettori. Terzo, è troppo presto per pronunciarsi sul sostenibilità dei modelli economici. (…) La dipendenza dagli abbonati e la corsa all’informazione che implica è forse più virtuosa? (…) A costo di caricaturare, il giornalismo in piedi non è garanzia di qualità. Se XXI parla della figura del deskman che macina dispacci, questa esisteva prima del web. E vorrei aggiungere che se non si passa un po’ di tempo seduti su una sedia, si bucano le preoccupazioni degli internauti.»

 

 

Edwy Plenel, un tempo alla testa di Le Monde, poi cofondatore di Mediapart, un pure player su abbonamento famoso per le sue inchieste scomode, è meno drastico:

 

«Per me la trappola mortale è altrove, nel modello scelto, quello della gratuità pubblicitaria. La stampa ha reso schizofrenico il suo pubblico tenendo un discorso doppio: da una parte, la stampa ha un costo che non può essere nullo per chi la legge; dall’altra si impone la gratuità pubblicitaria perché si considera che la gente non voglia più pagare per avere delle informazioni. (…) E’ evidente che la qualità dell’informazione prodotta non è legata al supporto – internet in questo caso – ma al modello economico per il quale si opta. »

 

 

Marc Mentré, professore di giornalismo all’Ecole des métiers de la presse (EMI-CFD) scrive sul suo blog Media Trend di condividere il punto di partenza, la crisi della stampa, ma nutre dubbi sulla ricetta unica per uscirne. Anzitutto il rapporto col tempo. Secondo Mentré, le dirette live di Francetv info o della nuova formula del sito di Le Monde funzionano e attirano il pubblico.

 

Questi nuovi formati impongono nuove sfide ai giornalisti, una fra tutte il fact checking in diretta. “Questo per dire che il giornalismo di qualità non è riservato al solo slow journalism che sostengono Laurent Beccaria e Patrick de Saint Exupéry”. Quanto al ritorno al giornalismo di terreno, se già non è praticato, appare essere l’unica strada percorribile dai siti per acquisire personalità e differenziarsi. Poi il rapporto con l’immagine, che non si può più ridurre alla pubblicazione di una serie di foto. “La specializzazione dei mestieri è un non senso o, piuttosto, ogni mestiere deve arricchirsi di nuove competenze. Questo non significa che sul campo tutti faranno tutto e che un giornalismo si trasformerà in shiva, ma semplicemente che ognuno utilizzera al meglio le sue competenze e si appoggerà sulle competenze dei professionisti con cui lavora.”

 

 

Insomma, internet mette di fronte alla molteplicità dei tempi, dei formati, dei ruoli…

 

“XXI è la prova che se si inventano, delle nuove forme di stampa e dei nuovi modelli economici possono imporsi. Ma il plurale è di rigore.”

 

La molteplicità dei modelli, o piuttosto il rischio che si vada verso un “modello unico”, inquietano Jean-Marie Charon, sociologo dei media al CNRS. In un’intervista concessa al quotidiano economico Les Echos, sempre a proposito del manifesto, avverte:

 

 

“Il funzionamento senza pubblicità sembra possibile solo per media di nicchia che si rivolgono ad un lettorato che è disposto a pagare per informarsi. (…) Quello che temo di più da questa critica è l’evoluzione verso un dualismo sempre più grande nelle nostre società fra un pubblico che ha i mezzi per informarsi e un altro che non dispone delle stesse risorse culturali e finanziarie e che consulta di conseguenza dei supporti gratuiti e meno ricchi.”

 

E più avanti aggiunge quella che può essere un insegnamento non scontato di questo manifesto, ma soprattutto della reazione che ha suscitato da parte dei giornalisti, di quanti quotidianamente fanno informazione, sia essa sul web o altrove.

 

 

“C’è sempre stato in Francia un rifiuto padronale di ammettere che i giornalisti hanno un ruolo nella riflessione sulle modificazioni delle pratiche e delle imprese di stampa. Parimenti, oggi gli editori rivendicano per sé il ruolo di condurre l’innovazione e le trasformazioni delle strutture. I giornalisti non hanno che da adattarsi. [Ma] Se si pensa che le trasformazioni si faranno soltanto dall’alto e dal management, non si combinerà granché.”