Il teatro, il giornalismo e la miseria della professione

Poteva essere un interessante incrocio fra giornalismo e teatro, ma purtroppo ha prodotto pessimi frutti, soprattutto per il giornalismo, visto che ‘’coloro che escono realmente ammaccati da tutta questa storia sono i giornalisti. Quei professionisti, il cui dovere è controllare e verificare la veridicità dei fatti prima del ‘si stampi’, che per pigrizia o semplice sbrigatività hanno preso totalmente per buoni i report di un attore, esperto nel raccontare storie, un professionista di un campo ben diverso i cui strumenti per il raggiungimento della Verità sono artistici e possono benissimo contemplare la veridicità e la finzione, se non addirittura la menzogna’’.

 

 

Questa è la morale della storia di uno spettacolo di ‘’teatro/verità’’ realizzato da Mike Daisey, un attore che nel 2010 aveva portato in scena The Agony And the Ecstasy of Steve Jobs, un monologo sulle condizioni di lavoro nelle aziende cinesi che producono i prodotti Apple e  molti altri gadget tecnologici.

 

Camillo Miller racconta la vicenda su Theapplelounge, un blog dedicato al mondo della Apple e di cui riportiamo ampi stralci (vedere anche il Guardian e il commento – ‘’Bugie’’ – di Jeff Jarvis sul suo BuzzMachine).

 

Dunque, in un adattamento per This American Life (un famoso programma radiofonico Usa che va in onda ogni settimana su numerose emittenti associate alla Public Radio International) di quel suo spettacolo, Daisey ha ‘’mentito”.

 

Nel suo monologo – ricostruisce Miller – Daisey prende le mosse da un viaggio di una settimana a Shenzhen durante il quale avrebbe visto di tutto: ha incontrato lavoratori minorenni, addirittura undicenni, fuori dai cancelli della Foxconn; ha parlato con un uomo che aveva perso la mano per un incidente sul lavoro; ha incontrato dipendenti intossicati dall’esano e così via, in una serie di testimonianze da far impallidire il più navigato degli ispettori della Fair Labor Association.

 


A scoprire che molti dei fatti raccontati da Daisey non corrispondono a verità è stato un reporter di Marketplace, Rob Schmitz, che ha rintracciato l’interprete di cui Daisey si servì durante il suo viaggio in Cina ed ottenuto conferma che molte delle cose raccontate dal monologhista non corrispondono a verità. L’uomo senza una mano, ad esempio, non era un dipendente Foxconn e Daisey non ha mai parlato con dipendenti minorenni, né con dipendenti intossicati dall’ esano.

Un bugiardo, insomma, senza redenzione?

 

No, semplicemente un attore che per rendere il più accattivante possibile il proprio monologo e il proprio spettacolo non ha esitato ad inventare storie veritiere: basate su fatti realmente accaduti ma quasi sempre adattate per aggiungere la finzione della sua presenza.

 

E’ davvero tutto qui, in fondo, ed è il lavoro di un buon teatrante, un guitto senza alcuna responsabilità giornalistica.

 

Il problema, ci spiega Ira Glass, di This American Life, che ha mandarto in onda una puntata in forma di “mea culpa”, è che Daisey non ha mentito solo sul palco ma ha continuato a tenere botta, reiterando le inesattezze confermando personalmente la veridicità di ciò che egli riportava come fatti, anche durante le interviste giornalistiche e soprattutto durante il fact-checking condotto dai collaboratori di Glass prima della messa in onda della puntata incriminata.

 

La difesa di Daisey è stata affidata ad un post sul blog dell’attore:

 

“Ciò che faccio non è giornalismo. Gli strumetni del teatro non sono gli stessi strumenti del giornalismo. Per questa ragione mi pento di aver permesso a This American Life di trasmettere un adattamento del mio monologo. This American Life è essenzialmente un’impresa giornalistica, non teatrale e per questo opera sotto un diverso insieme di regole e aspettative. Ma questo è il mio unico rimpianto.”

 

Giù il cappello per The American Life, quindi, che ha compreso il proprio errore e ha voluto rimettere le cose a posto dedicando un’intera puntata alla questione – commenta Miller -. E complimenti ad Ira Glass che ha condotto la puntata con la contrizione degna di un pentimento biblico. Siamo colpevoli, hanno detto: Daisey ci ha palesemente mentito e lo ha fatto più e più volte. Non potevamo sapere, ma dovevamo “cercare di sapere”. Bravi.

 

Bravi soprattutto al cospetto di una pletora di altri giornalisti la cui tentazione auto-assolutoria si è dispiegata in tutta evidenza nel corso del fine settimana. La lista dei “gabbati” da Daisey è particolarmente lunga, perché  il monologo ha ricevuto ampia attenzione dopo la copertura dedicata al suo spettacolo dal New York Times nell’ambito dell’operazione mediatica dei pezzi sulla “iEconomy”. Un editoriale di Daisey pubblicato proprio dal NYT è stato corretto solo in un breve paragrafo non fattualmente vero e aggiornato con un update che non spiega fino in fondo le ragioni della correzione.

 

Molti altri giornalisti hanno fatto di peggio, però – prosegue Miller -, ed incolpato apertamente Daisey, reo di aver mentito loro. Ma il dire la verità non è certo una prerogativa dell’attore o, più in generale, delle fonti giornalistiche. E’ dovere del giornalista, tuttavia, verificare l’accuratezza fattuale delle informazioni che riceve. In troppi non lo hanno fatto e nessuno, prima di Schmitz, ha mai messo in dubbio il fatto che Daisey potesse aver visto così tante cose nel corso di una sola settimana.

(…)

Daisey, per giunta, ha saputo giocare un’ultima carta vincente e proprio ieri, prima del suo spettacolo pomeridiano a New York, ha aggiunto un prologo in cui spiega rapidamente tutta la questione e avverte il pubblico della natura dello spettacolo cui sta per assistere. Uno spettacolo che per giusta è stato corretto in alcune parti, in modo da renderne più esplicita la natura non vera, ma veritiera, e integrato rapidamente con alcune parti che raccontano proprio della recente debacle giornalistica.
L’attore può liberamente spaziare e modificare il proprio “reportage”, ad ulteriore dimostrazione della labile “fattualità” di ciò che racconta, mentre i giornalisti rimangono in disparte ad auto-assolversi leccandosi le ferite, mentre probabilmente attendono di potersi rivalere presto su quel “dannato bugiardo”. Magari – conclude Miller – ancora inconsapevoli della spettacolarità che hanno voluto inseguire, abbagliati da un facile sensazionalismo che pagasse direttamente in pageviews e numero di lettori.