Rudimenti di economia tonda, meglio se circolare (pt1)

    La circolarità non solo dell’economia, rende necessaria l’educazione, l’informazione e la formazione di ciascuno di noi – esperti o neofiti – su molti argomenti che l’avvento della rivoluzione digitale ha introdotto. Molti temi sono specifici, molti altri sono generici. Tutti gli argomenti necessitano di una riflessione a monte. Un cambio di passo, di orientamento, un approccio mentale e spesso anche fisico diverso. Quello che attraverso la rivoluzione digitale siamo ora in grado di fare tutti, prima era appannaggio di pochi. L’essere riusciti a trascrivere il mondo in numeri, ci permette di avere un più libero accesso alle “cose” del pianeta. Di partecipare in modo attivo alla sua amministrazione, alla sua gestione, alla sua sopravvivenza. Ora più che mai l’esempio di ciascuno, può davvero influenzare il comportamento di molti. Ora più che mai ognuno di noi ha gli strumenti per poter fare la differenza. Come dice molto bene il nostro collega, associato e amico, Sergio Ferraris, giornalista scientifico, e grande esperto di questioni ambientali, nel suo saggio dedicato all’economia circolare intitolato: “L’economia cerca un sistema: circolare”

 

 

… Il capitale con la sua tendenza all’accumulazione iniqua e logaritmica, arrivata a livelli mai visti prima nella storia e che sta preoccupano anche gli economisti classici, sarà a breve insostenibile in primo luogo sul fronte sociale. 

 

 

La seconda fase dell’economia circolare, se vorrà svilupparsi non dovrà fare i conti con l’accumulo di valore ma, al contrario, dovrà passare a una logica di valore diffuso con l’inclusione dei flussi naturali che sono incompatibili con la logica dell’accumulo del capitale.

 

 

Sergio ci ha concesso la possibilità di pubblicare integralmente il suo saggio e noi a partire da quest’oggi, e per alcune settimane a venire, vorremmo proporVi le sue riflessioni puntuali e circostanziate sul cambiamento sistemico del nostro approccio al mondo. Un cambiamento che – come dice benissimo Piero Dominici, sociologo insigne e nostro associato  – dobbiamo affrontare in primo luogo distinguendo complicazioni e complessità. Le prime sono certamente inutili orpelli, retaggio di mondi precedenti, in cui era la burocrazia a governarci. Mentre la seconda, frutto maturo dell’evoluzione umana, una volta compresa, non può che portarci verso un futuro radioso in cui collaborazione, condivisione e interazione, saranno alla base dell’umana convivenza.  Buona lettura e a presto!

 

 

La discussione sull’economia circolare è giunta ad un punto cruciale. Partita come una critica dell’economia lineare sotto il profilo ecologico, fissando il concetto di limite, oggi deve affrontare le filiere industriali esistenti avvicinandole dal punto di vista sistemico. Si tratta di una sfida senza precedenti che investe tutte le complessità della biosfera.       

 

Il problema è il concetto di limite. Si può riassumere in questo postulato il dibattito che ruota attorno agli ecosistemi, al loro utilizzo (e per alcuni sfruttamento), da circa mezzo secolo, ossia da quando negli anni Sessanta si iniziarono a gettare le basi dell’ecologia, intesa come analisi sistemica, contestuale e complessa dei processi vitali sul Pianeta. Disciplina che nel quadro dell’evoluzione del pensiero scientifico, filosofico e quant’altro, tipica del Novecento come risposta alla complessità, ha subìto una specializzazione nel dettaglio delle interazioni tra i viventi, poiché include la biologia e altre scienze relative al Pianeta Terra; fatto che ne ha allontanato spesso, ma non sempre, il proprio centro d’indagine e riflessione dalle scienze sociali.

Sociologia, psicologia ed economia sono state molte volte solo sullo sfondo rispetto al pensiero ecologico, portando una divisione tra questi contesti, cosa particolarmente evidente in Italia dove si concretizza una sostanziale assenza di dialogo tra il mondo del sociale e quello ambientale, sia a livello politico sia dell’associazionismo. Trovando una contrapposizione netta in conflitti come quelli sull’Acna di Cengio, impianto chimico al confine tra Liguria e Piemonte inquinante e letale in primo luogo per gli operai che vi lavoravano, e che fu oggetto di un aspro confronto tra sindacati e ambientalisti negli anni Ottanta, oppure in quello dell’Ilva di Taranto che persiste ancora oggi.

Il limite, come vincolo oggettivo, fu introdotto nel 1972 dalla ricerca commissionata al Mit dal Club di Roma “I limiti dello sviluppo”, rapporto che mise in evidenza la relazione tra crescita della popolazione e limiti delle risorse leggendo la configurazione delle attività umane come una “nicchia ecologica” dalla quale l’umanità stava sostanzialmente “traboccando” e scontrandosi con i limiti stessi di un sistema chiuso come quello del Pianeta (Meadows D., et altri, 1972).

Si è trattato del primo approccio sistemico ai problemi ecologici, che ha messo in connessione diretta lo sfruttamento delle risorse con la sopravvivenza di molte specie animali e vegetali e con un possibile “arretramento” delle condizioni di vita e di benessere della specie umana. Il rapporto è stato, ma lo è ancora, criticato per aver sostanzialmente “mancato” le previsioni. In realtà, il limite del primo rapporto del Mit è di non aver posseduto adeguati sistemi tecnologici e conoscitivi sui quale basarsi, ma anche se non ha, per così dire, centrato il bersaglio ha reso tangibile una tendenza: quella dell’esaurirsi delle risorse.

Con il progredire della potenza di calcolo informatica e delle possibilità di indagini scientifiche sullo stato del Pianeta, in modo particolare attraverso le rilevazioni satellitari, nel giro di pochi anni si arriva a rivelazioni che confermano la validità del rapporto. Nel 1974 si scopre, ad esempio, che i clorofluorocarburi, introdotti dall’industria nel 1928 e utilizzati nella refrigerazione – consentendo la creazione di una catena alimentare sana ed efficiente che ha migliorato la vita di milioni di persone – danneggiano lo strato d’ozono che protegge la Terra dai raggi ultravioletti provenienti dal Sole e che potrebbe essere la causa di melanomi. Al “buco”, scoperto nel 1984, si tentò di porre rimedio, pare con successo nel 1987, attraverso il Protocollo di Montreal che bandiva l’utilizzo di questi gas.

 

 

Clima surriscaldato

 

 

L’anno successivo, il 23 giugno 1988, James Edward Hansen climatologo della Nasa, riferisce al Senato degli Stati Uniti dell’esistenza dei cambiamenti climatici, che al 99% sono causati, secondo lo scienziato, dall’immissione di gas serra come la CO2 prodotti dall’attività umana. Da quell’anno abbiamo immesso in atmosfera 840 miliardi di tonnellate di CO2 aumentandone il ritmo fino a oggi con 35,9 miliardi l’anno. Un trend che, se proseguisse, ci porterebbe nei prossimi 29 anni a immettere altri 1.041 miliardi di tonnellate, esaurendo entro il 2046 lo stock di CO2 che è possibile emettere per contenere l’aumento di temperatura entro i 2 °C al 2100. Oltre la metà del secolo, quindi, la presenza dell’uomo dovrebbe essere a emissioni zero.

Nel 1987, oltre alle questioni climatiche, vide la luce un altro fondamentale documento: il Rapporto Brundtland, realizzato dalla World Commission on Environment and Development (Brundtland G.H., et altri, 1983). Il documento fissa una serie di obiettivi a lungo termine soprattutto attraverso la definizione precisa del concetto di sviluppo sostenibile basato, secondo il lavoro della Commissione, su tre pilastri: ambientale, sociale ed economico. Si tratta di un passaggio essenziale che tenta di trovare una compatibilità tra elementi fino ad allora, e secondo molti ancora oggi, estranei, e con il quale la politica internazionale butta le basi di una discussione che culminerà qualche anno dopo, nel 1992 con l’Earth Summit di Rio de Janeiro e negli anni successivi con il Protocollo di Kyoto per il, tentato, contenimento delle emissioni climatiche alteranti.

Il problema di fondo, che con ogni probabilità è alla radice della sostanziale inazione sul fronte climatico degli ultimi trent’anni, è che nello stesso periodo di quest’accelerata sul fronte ambientale, il mondo dell’economia stava radicalmente cambiando in direzione opposta, con l’abbandono degli accordi di Bretton Woods e la cancellazione dell’approccio keynesiano all’economia. Con l’affermarsi del neoliberismo, la promozione della globalizzazione, la creazione della World Trade Organization (Wto), l’espansione del ruolo della Banca Mondiale sull’economia e sulle società dei paesi in via di sviluppo, la politica internazionale abdica al proprio ruolo di controllo e di regolazione. Ciò accade anche e soprattutto con l’economia, che nel frattempo assume contorni più finanziari, in relazione ad ambiente e società, e getta le basi per un’enorme dilazione dei tempi di soluzione delle questioni, ambientali e sociali, al contrario di quanto successe nel periodo precedente. Successivamente, sul clima, si entra in una fase di stasi se non di negazione generale rispetto ai problemi climatici, di circa quindici anni, che inizia a sbloccarsi negli anni della crisi globale.

E i cambiamenti climatici rappresentano il cuore del problema, vista la loro pervasività. La chiave di volta è rappresentata dal Rapporto Stern, pubblicato nel 2007, che riesce a ricostruire una relazione diretta tra l’ambiente, il sociale e l’economia, calcolando gli effetti economici dei cambiamenti climatici sul lungo termine (Stern N., 2009). E non è indifferente il fatto che la redazione del rapporto non sia stata fatta da un ecologista radicale ma da un economista di fama mondiale: Nicholas Stern. Nel frattempo il miglioramento della ricerca scientifica sul fronte del monitoraggio ambientale offre nuovi strumenti di carattere generale  come l’impronta ecologica che, attraverso l’utilizzo di un indicatore d’insieme quale l’area di territorio biologicamente necessaria a una determinata attività umana, riesce a valutare l’impatto ambientale di processi molto diversi tra di loro come quelli dell’agricoltura, della pesca o della manifattura.

Si tratta di elementi che nel loro complesso hanno portato ai due primi tentativi di ridefinizione, e di ristrutturazione, dell’economia insostenibile, così come la conosciamo oggi. Da un lato, la decrescita, il cui principale fautore è Serge Latouche, e che si pone obiettivi di riduzione dei volumi dell’economia legati a produzione e consumi, per riportare in equilibrio le attività umane con le risorse sostenibili che il Pianeta può offrire, mentre dall’altro, troviamo l’economia circolare, che punta a un modello nel quale le risorse sono riutilizzate sia sul fronte biologico sia su quello tecnico. Si tratta di due modelli che non sono contrapposti, ma che affrontano le problematiche legate all’economia insostenibile e lineare, sotto ottiche diverse; un parallelismo non complementare.

Una non complementarietà, che sarebbe invece necessaria, dovuta a barriere di carattere per così dire “culturale” o meglio d’analisi. La decrescita, infatti, tiene conto del fattore ambientale come essenziale ma ha come approccio la riduzione dei consumi e della produzione e quindi del Pil cosa che, al netto di eventuali correttivi di tipo etico come la redistribuzione di risorse verso le fasce più deboli, lascia per così dire “scoperto” l’aspetto legato all’aumento demografico: oggi siamo 7,5 miliardi e per il 2050 la previsione è di 9 miliardi. Si occupa poco dell’aspetto legato alla produzione, e quindi al valore, esponendosi alle critiche degli economisti classici e di estrazione marxista e possiede, infine, un approccio blando verso l’innovazione tecnologia. Tutto ciò al netto della questione legata alle aspirazioni di vita e di benessere delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, che se raggiungessero con fonti fossili anche solo l’intensità energetica dell’Italia, Paese tra i più virtuosi dell’Ocse, porterebbero la concentrazione di CO2 a livelli molto più elevati di quelli già alti previsti agli scenari Businnes as Usual.

 

Produzione al centro

 

 

L’economia circolare, invece, pur mettendo al centro della propria riflessione il concetto di limite e d’entropia di un sistema chiuso come quello del Pianeta Terra, identifica come campo privilegiato d’azione quello della produzione industriale, intesa come parte integrante della nostra biosfera. E non potrebbe essere altrimenti visto che la produzione di beni e servizi ha effetti sul ciclo del carbonio, dello zolfo e dell’azoto. Da ciò i concetti di metabolismo ed ecologia industriali, elaborati dal fisico statunitense Robert Underwood Ayres, partendo dall’approccio alla termodinamica di Nicholas Georgescu-Roegen, precursore dell’economia ecologica che è anche alla base del concetto di decrescita. Attraverso questi concetti si riducono gli impatti delle produzioni attraverso lo studio dei flussi di materia ed energia. Quest’ultima deve essere rinnovabile in quanto unico apporto esterno al sistema che non produce residui, al contrario delle fossili che sono limitate come disponibilità e producono scarti. E se l’energia può essere di tipo rinnovabile, visto che è una fonte esterna e proviene dal Sole in quantità enorme – 1.300 km2 nel deserto del Sahara impiegati per il fotovoltaico sarebbero sufficienti per produrre tutta l’elettricità impiegata sul Pianeta – la materia non è disponibile in quantità così elevata e la biosfera non è in grado di accogliere in maniera efficiente gli scarti di produzione/consumo/utilizzo. Ossia i rifiuti. In questo quadro l’economia circolare ha un approccio più pragmatico ai problemi, poiché si occupa di processi industriali, più sistemico, dovuto alla pervasività di tali processi, e più olistico dato che valuta l’impatto complessivo sulla biosfera. L’economia circolare ha anche una caratteristica peculiare, quella di rimanere all’interno dell’universo delle dottrine economiche, nel tentativo di trovare delle soluzioni compatibili con il presente rappresentato dalla sfera antropomorfa e dall’ecosistema terrestre, senza puntare a un ribaltamento radicale del paradigma della produzione di beni e servizi, conservandone, forse almeno in parte, come analizzeremo, il sistema del valore. La prima analisi dettagliata dell’economia circolare la compie nel 1976 l’architetto svizzero Walter R. Stahel con Geneviève Reday-Mulvey quando, in un report alla Commissione europea, dà un fondamento concreto alla perdita di risorse dovuta all’obsolescenza e alla dismissione dei beni in luogo del loro riutilizzo. Il modello alternativo è quello dell’economia ciclica – la ricerca fu poi pubblicata nel 1981 – che si contrappone a quella lineare soprattutto per la caratteristica di creare lavoro, per la necessità di lavorazioni aggiuntive nelle filiere cicliche, (come ad esempio la preparazione al riuso e al riciclo), ma anche grazie alla sostituzione di beni con servizi (come ad esempio l’auto di proprietà vs car sharing). La questione del lavoro nell’economia circolare torna centrale in relazione all’innovazione tecnologica, come vedremo in seguito (Stahel W.R., Genevieve R.M., 1981).

 

 

FINE DELLA PRIMA PARTE   (continua)