Sonno leggero (prima parte)

La vita scorre attimo per attimo, ora dopo ora, giorno dopo giorno, in un moto incessante e costante. Incurante degli sconvolgimenti, delle feste, degli incidenti, delle natività e delle morti. Il flusso è costante, regolare, persistente, da sempre. Panta rei dicevano gli antichi. Ma con la transizione digitale il ritmo regolato dal ciclo sonno-veglia si è trasformato, è cambiato, forse per sempre. I ritmi circadiani non esistono più, il mondo, e tutti noi dentro ad esso, abbiamo smesso “letteralmente” di dormire. O meglio, il ciclo regolare di ore di sonno e ore di veglia si è trasformato in un ciclo “irregolare” e “artificiale” di rari momenti di sonno in lunghi, lunghissimi, estenuanti,  cicli di veglia. L’apparecchietto – perlopiù un arnese di tortura – proposto da Burgess  poi reso immortale da Kubrick nella trasposizione cinematografica del capolavoro dello scrittore inglese “clockwork orange”; oggi potrebbe presto diventare – si scherza – un utile, addirittura indispensabile, oggetto d’uso quotidiano da portare ovunque “nella sua pratica custodia” con la tracolla. Partendo da questa riflessione di base, Jonathan Crary, critico d’arte e saggista, ha scritto un libro davvero importante –  a nostro avviso – per capire meglio, “i tempi moderni”, per dirla con Charlot;  ed aggiungere un nuovo utile tassello al nostro cammino di conoscenza verso la comprensione della società attuale. Quella in cui viviamo quotidianamente. La società post rivoluzione digitale. Malgrado tutto. Il saggio di Crary  si intitola “24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno”. L’abbiamo letto, studiato, osservato a fondo. Abbiamo preso appunti e come sempre, proviamo a proporVi alcuni passaggi, estratti dal volume, che a nostro avviso appaiono essere particolarmente significativi. Grazie per l’attenzione e per la pazienza, e alla prossima ,)

 

 

 

“24/7 come l’inquadramento generalizzato della vita umana in una durata senza interruzioni, contraddistinta da un principio di operatività incessante. Si tratta di un tempo che, avendo superato i limiti del tempo orario, è in effetti diventato immobile”.

 

 

 

Dietro la vacuità del facile slogan, il 24 /7 rappresenta una forma di sovrabbondanza statica che rinnega ogni legame con il tessuto di ritmi e scansioni periodiche dell’esistenza umana. È basato su uno schema rigido e arbitrario – quello della singola settimana – utilizzato a prescindere da qualsiasi idea di svolgimento vitale o progressivo dell’esperienza.

 

 

Un’espressione come «24 /365», per esempio, non riveste il medesimo significato, dato che implica lo scomodo riferimento a una temporalità prolungata, in cui un cambiamento in effetti potrebbe accadere e alcunché di imprevisto potrebbe aver luogo. Come si è detto all’inizio, molte istituzioni del mondo sviluppato sono già operative 24 /7 ormai da alcuni decenni. È solo di recente, invece, che vi è stata una riorganizzazione dei modi in cui avviene la costruzione dell’identità personale e sociale di ciascuno, al fine di ottenere un adeguamento completo alle attività incessanti dei mercati, delle reti informatiche e di sistemi consimili. Un ambiente 24 /7 ha solo le sembianze di una società vera e propria, ma in realtà rappresenta un modello non sociale di performance automatiche e una sospensione dell’esistenza che dissimula i costi umani necessari a sostenerne il funzionamento. Esso va nettamente distinto da ciò che, all’inizio del XX secolo, Lukács e altri autori identificavano come il tempo desolatamente omogeneo della modernità, ovvero il tempo rigidamente scandito dall’agenda degli Stati o dal mondo finanziario e industriale, da cui era bandita ogni possibilità per le speranze e per i progetti dei singoli individui. La sua particolarità è l’abbandono definitivo della pretesa che il corso del tempo sia legato a una qualsiasi iniziativa a lungo termine, anche all’illusione stessa di progresso o di sviluppo. Un mondo illuminato 24 /7 senza ombre è il miraggio capitalistico finale della post-storia, l’esorcismo dell’alterità, che sarebbe il vero motore del cambiamento storico.

 

 

 

Il 24 /7 rappresenta il tempo dell’indifferenziato, davanti al quale la fragilità della vita umana non ha difese e in cui il sonno non ha una propria necessità o inevitabilità. Per quanto riguarda il lavoro, diventa plausibile – se non normale – l’idea di un impegno ininterrotto, al di là di ogni limite.

 

 

 

 

 

 

Secondo le più recenti statistiche, il numero delle persone che si svegliano una o più volte a notte per controllare la casella di posta elettronica o i propri dati va aumentando in maniera esponenziale. Un’immagine all’apparenza incongrua ma comune è quella evocata dall’espressione tecnologica della modalità di sospensione del funzionamento indicata come “sleep mode”. L’idea di un dispositivo in stato di utilizzabilità a bassa energia attribuisce alla nozione più ampia di sonno il significato di un’operatività o accessibilità semplicemente differita o ridotta. Sostituisce l’alternativa tra on e off, di modo che nulla sia del tutto off e non vi sia quindi in alcuna occasione uno stato di riposo vero e proprio.

 

L’unico elemento che fornisca un senso coerente al continuo avvicendarsi di prodotti e servizi di consumo apparentemente privo di ordine consiste nell’integrazione sempre più stretta del proprio tempo e delle proprie attività all’interno dei parametri del sistema di scambio elettronico. Ogni anno vengono spesi miliardi di dollari per cercare di ridurre il tempo occupato dai processi decisionali ed eliminare del tutto il tempo inutile della riflessione e della contemplazione. Sono queste le modalità in cui si realizza il progresso nell’epoca contemporanea, attraverso il tentativo inesorabile di imbrigliare e sottoporre a controllo sia il tempo che l’esperienza degli esseri umani.

 

Certamente, per gran parte del XX secolo, l’organizzazione della società dei consumi non è mai stata disgiunta da forme di assoggettamento e di controllo sociale, ma ora la gestione del comportamento economico è diventata un sistema atto a formare e perpetuare individui docili e consenzienti. Non ha cessato di rimanere in atto la logica precedente dell’obsolescenza pianificata, continuando ad alimentare la richiesta di sostituzione o di miglioramento. In ogni caso, anche se la dinamica che determina l’innovazione dei prodotti continua a essere collegata all’incremento dei profitti o alla competizione fra aziende per il dominio nel proprio settore, il maggior spazio di tempo occupato da sistemi, modelli e piattaforme “migliorate” o riconfigurate contribuisce in modo fondamentale alla ricostruzione del soggetto individuale e all’intensificazione del controllo sociale. Un atteggiamento passivo e una condizione di isolamento non sono sottoprodotti occasionali di un sistema economico globale finanziarizzato, ma sono alcune delle sue principali finalità. Vi è un nesso anche più stretto fra i bisogni individuali e i piani funzionali e ideologici di cui ogni nuovo prodotto è inscritto. Lungi dall’essere quasi mai soltanto concreti strumenti o apparecchiature, inoltre, i “prodotti” sono in realtà servizi e interconnessioni di vario genere che assumono rapidamente il valore di modelli ontologici dominanti o esclusivi nella realtà sociale di ciascun individuo.

 

Oggi, il fatto che sia sufficiente una durata così breve perché un sofisticato prodotto tecnologico si trasformi in niente altro che spazzatura richiede fin dall’inizio la compresenza di due disposizioni mentali contraddittorie: da una parte, il bisogno e/o il desiderio dell’oggetto, dall’altra, l’accettazione positiva della sua appartenenza a un processo di inesorabile cancellazione e sostituzione. Le incalzanti immissioni nel mercato di prodotti sempre nuovi provocano una disabilitazione della memoria collettiva e implicano il fatto che lo svuotamento della conoscenza storica non debba più essere realizzato come imposizione dall’alto. Le condizioni di accesso al flusso delle informazioni e della comunicazione su base quotidiana assicurano la cancellazione sistematica del passato come parte della costruzione fantasmatica del presente.

 

 

 

 

 

 

 

La maggior parte delle immagini oggi sono prodotte e diffuse allo scopo di massimizzare la quantità di tempo trascorso in forme quotidiane di autogestione e autoregolazione individuale. Secondo Fredric Jameson, con il venir meno di quei confini che per consuetudine erano sentiti come invalicabili tra la sfera lavorativa e quella del tempo libero, l’imperativo di guardare le immagini è diventato di fondamentale importanza per ciò che concerne il funzionamento delle istituzioni dominanti nell’epoca attuale. Egli sottolinea il fatto che le immagini della cultura di massa, fino alla metà del XX secolo, rappresentavano spesso un modo per aggirare gli opprimenti divieti del Super-Io. Ora, in una sorta di capovolgimento, le perentorie istanze di perpetua immersione 24 /7 nel flusso dei contenuti visivi diventano di fatto una nuova forma di Super-Io istituzionale. Naturalmente, vengono guardate o anche solo viste molte più immagini e di maggiore varietà di quanto non sia mai stato possibile fino a oggi, ma ciò avviene nell’ambito di quella che Foucault ha definito come una “rete di osservazione permanente”.

 

 

 

Nella società disciplinare a ogni istituzione è legato un sapere e un oggetto del sapere, entrambi prodotti dalla particolare forma di tecnologia impiegata

 

 

La maggior parte delle accezioni che, di volta in volta, il termine osservatore ha assunto nel corso della storia risultano stravolte nelle condizioni attuali, nel momento in cui, cioè, gli atti individuali della visione sono costantemente sollecitati per essere trasformati in informazioni, non soltanto al fine di potenziare le tecnologie del controllo, ma anche per diventare una specie di plusvalore, in un mercato che risulta possibile fondamentalmente in base alla accumulazione dei dati relativi al comportamento degli utenti. Il rovesciamento dei presupposti risulta ancora più significativo se consideriamo la posizione e la capacità di agire di un osservatore in quella svariata e sempre più ampia serie di mezzi tecnici che sono in grado di trasformare gli stessi atti della visione in oggetti di osservazione.

 

 

 

 

Il filosofo Bernard Stiegler ha elaborato a fondo le conseguenze di quella che egli definisce come l’omogeneizzazione dell’esperienza percettiva nella cultura contemporanea. Il maggiore interesse della sua ricerca è la circolazione globale degli “oggetti temporali” prodotti in serie che comprenderebbero film, programmi televisivi, musica popolare e videoclip. Stiegler considera l’avvento dell’ampia diffusione di internet, nella prima metà degli anni Novanta (per la precisione, il 1992 come momento chiave), un punto di svolta decisivo nella storia degli audiovisivi industriali e del loro impatto sociale. Negli ultimi due decenni, secondo lui, essi sono stati responsabili di una “sincronizzazione di massa” della coscienza e della memoria. La standardizzazione dell’esperienza su vasta scala, sostiene, implica una perdita di identità soggettiva e di singolarità; conduce anche alla catastrofica scomparsa della creatività e della partecipazione individuale alla produzione dei simboli che vengono scambiati e condivisi da tutti.

 

 

 

 

Si tratta di inventare l’industria del calcolo che impedisca di calcolare (sul) le esistenze – ma inventarla con gli strumenti digitali. Si tratta, in effetti, di reincantare il mondo, ossia di edificare i modi di sussistenza e di esistenza che sostengono l’altro piano, il piano delle consistenze, che è quello del canto – il canto delle Sirene senza le quali non c’è nulla. Solo là si trova il piano dei motivi che, come orizzonte delle Muse, è il piano dell’incanto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Secondo il collettivo Tiqqun, siamo diventati i cittadini innocui e accomodanti delle società urbane globali. Anche in assenza di una qualche costrizione esplicita, eseguiamo tutte le scelte che ci vengono proposte; permettiamo la gestione dei nostri corpi, delle nostre idee, del nostro intrattenimento e accettiamo che tutti i bisogni relativi al nostro immaginario ci vengano imposti dall’esterno. Acquistiamo prodotti che ci sono stati raccomandati attraverso il monitoraggio delle nostre esistenze elettroniche e poi, volontariamente, lasciamo traccia per altri riguardo a quello che abbiamo acquistato. Siamo il soggetto arrendevole che si lascia sottoporre a ogni tipo di intrusione biometrica e di sorveglianza, ingerisce cibo e acqua tossici e vive in prossimità di reattori nucleari senza protestare. La nostra assoluta abdicazione a ogni responsabilità nella vita ci viene ricordata dai titoli di quelle guide in cima alle classifiche di vendita che ci dicono, con tono lugubre e fatale, i 1000 film, le 100 destinazioni turistiche, i 500 libri che non possiamo non consumare prima di morire.

 

 

 

 

 

 

 

Finito il tempo degli eroi. Scomparso lo spazio epico del racconto che ci piace dire e ci piace sentire, che ci parla di quel che potremmo essere ma non siamo.

L’irreparabile è ormai il nostro essere-così , il nostro essere-nessuno. Il nostro essere Bloom.

 

 

./. continua