Sonno leggero (parte seconda)

Che si chiami economia dell’attenzione o capitalismo della sorveglianza, il mondo presente in mano a poche – pochissime – selezionate (o forse sarebbe meglio dire autoselezionatesi) compagnie, è un mondo a senso unico. Un posto dove le libertà e le autonomie stanno venendo meno invece di essere esaltate e rese più potenti dall’arrivo della cosiddetta “società dell’informazione” e dall’emancipazione che le nuove tecnologie avrebbero dovuto portare con sé. E’ successo e sta succedendo l’esatto contrario e anche di più e di peggio. Come direbbe il filosofo e sociologo Piero Dominici : “è successo che le tecnologie digitali che sono – non sarebbero –   una straordinaria opportunità,  siano diventate,  proprio perché non abbiamo messo mano all’educazione e alla formazione in  maniera seria;  elemento di esclusione non di inclusione”.  E ancora: “e il fatto che si sia  pensato  – soprattutto all’inizio quando c’erano grandi aspettative  rispetto alla cosiddetta società dell’informazione  –  che di fatto questa maggiore possibilità di emancipazione e di partecipazione all’insegna di una maggiore orizzontalità comunicativa e di una maggiore autonomia dei soggetti che comunicavano e informavano,  si traducesse automaticamente in una loro responsabilità. E’ stato un abbaglio.  Noi oggi  facciamo i conti anche con soggetti,  soggettività individuali e collettive,  che sono molto più autonome nelle scelte, ma questa autonomia ancora non è incardinata sulla responsabilità che evidentemente riguarda da vicino la questione e la dimensione dell’etica della libertà. Autonomia e responsabilità vanno costruite anche su un ventaglio nuovo di conoscenze e competenze. Una persona che non è preparata e che non è consapevole della complessità dell’informare e del comunicare come fa a essere responsabile, ed esserlo fino in fondo?” In questa società risultato di speculazioni colossali e non di scelte collegiali e condivise per il bene comune. Vedere la pandemia in corso se Vi vengono dubbi e domande in tal senso. Succede poi che l’essere umano tenda a perdere il meglio di sé. Quella essenza di “umanità” che un tempo ci distingueva dalle “bestie” e che forse ora, dentro l’epoca dell’intelligenza artificiale e dei robot ci distingue, ancora, da  un futuro di vetro e cemento per non dire di “duracciaio e plastimante”, scherzando e scimmiottando qualcuno dei nostri autori preferiti di fantascienza. Utili consigli e visioni illuminate ci arrivano dalle considerazioni di Jonathan Crary, critico d’arte e saggista, contenute nel suo “24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno” che abbiamo studiato e analizzato a partire dalla scorsa settimana.

 

 

 

 

 

Alla fine degli anni Novanta, quando Google era un’azienda a capitale privato in attività da appena un anno, il suo futuro amministratore delegato era già in grado di spiegare chiaramente in quale contesto si sarebbe mossa la sua impresa. Secondo Eric Schmidt, il XXI è il secolo della “economia dell’attenzione” e le aziende globali dominanti saranno quelle che riusciranno a conquistare il controllo del maggior numero possibile di “bulbi oculari”. Il livello di intensità della competizione che si svolge quotidianamente per ottenere accesso o far presa sulla vita vigile di ciascuno è uno dei risultati dell’enorme divario che intercorre fra i limiti temporali degli esseri umani e la quantità sterminata dei “contenuti” offerti sul mercato. Il successo delle aziende, però, dipenderà anche dalla quantità di informazioni che esse saranno in grado di estrarre, accumulare e utilizzare al fine di prevedere e modificare il comportamento di chiunque sia provvisto di un’identità digitale.

 

 

 

Nell’economia dell’attenzione, la separazione fra personale e professionale, così come quella fra intrattenimento e informazione, si dissolve, perché su ogni cosa prevale la funzionalità compulsiva di questa nuova forma di comunicazione che in se stessa è inevitabilmente 24 /7.

 

 

 

 

Nel corso dell’ultimo decennio o poco più, tuttavia, un’idea solitamente confinata alle speculazioni fantastiche di un genere narrativo popolare è entrata a far parte di un immaginario assai diffuso, alimentato e rafforzato dalle fonti più diverse. In base a questo presupposto, nella sua forma più semplice, i sogni sarebbero oggettivabili e, in quanto entità discrete, potrebbero essere registrati e in qualche modo rivisti oppure scaricati, a seconda dello sviluppo dell’applicazione tecnologica che si intende prefigurare. Negli ultimi anni, i media hanno dato sensazionale risalto al progetto di ricerca dell’Università di Berkeley e dell’Istituto Max Planck di Berlino che prevede di utilizzare le scansioni della corteccia visiva di soggetti immersi nell’attività onirica allo scopo di generare immagini digitali che dovrebbero rappresentare il contenuto dei loro sogni. Alcuni film ad alto costo, come Inception di Christopher Nolan, accentuano l’idea che i sogni siano un prodotto perfettamente utilizzabile e manipolabile alla stregua di qualunque contenuto mediatico. La diffusione di queste congetture è rafforzata dall’annuncio di sviluppi analoghi nella ricerca neurologica: l’asserzione, per esempio, che in un prossimo futuro vi saranno scanner cerebrali, negli aeroporti e in altri siti, che saranno in grado di rilevare la presenza di «intenzioni pericolose» in potenziali terroristi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti, ci viene detto – non soltanto le imprese e le istituzioni – hanno bisogno di una “presenza on line”, di una esposizione 24/7, per evitare l’irrilevanza sociale o il fallimento professionale. La promozione di questi presunti benefici, tuttavia, è una copertura per ottenere in realtà il trasferimento della maggior parte delle relazioni sociali su piattaforme monetizzate e quantificabili. È anche un passaggio della vita individuale a condizioni in cui la privacy è impossibile e ciascuno diventa un sito costantemente disponibile alla raccolta dati e alla sorveglianza

 

 

 

I profitti della sorveglianza hanno scatenato un’intensa competizione per i profitti del nuovo mercato dei comportamenti futuri. Anche i processi più sofisticati di conversione del surplus comportamentale in prodotti in grado di prevedere accuratamente il futuro dipendono dalle materie prime che processano. I capitalisti della sorveglianza pertanto si chiedono: quale forma di surplus consente la fabbricazione di prodotti predittivi in grado di predire il futuro nel modo più affidabile?

Questa domanda è un punto di svolta cruciale nell’elaborazione pratica del capitalismo della sorveglianza. Cristallizza un secondo imperativo economico, l’imperativo della previsione, e rivela il ruolo decisivo che ha nel determinare i guadagni dei capitalisti della sorveglianza.

(Shoshana Zuboff Il capitalismo della sorveglianza)

 

 

 

 

 

Una delle principali forme di controllo sociale degli ultimi tre decenni consiste nella garanzia che all’orizzonte non vi siano alternative al modello di vita esistente.

 

 

Lenin, Trockij e le loro schiere usufruirono di tutte le tecnologie della comunicazione disponibili nel 1917, ma non le elevarono mai al rango di fattori determinanti, privilegiati e persino venerati, di un’intera costellazione di eventi storici, come invece hanno fatto alcuni cyberattivisti, che hanno decantato oltremodo il ruolo dei social media nei movimenti politici e nelle rivolte degli ultimi anni. Una volta che la mistificazione è in atto e vengono attribuite potenzialità quasi magiche alle reti, nasce una fiducia cieca nel meccanismo, come in quei sistemi di presunto arricchimento piramidale, per cui ci si aspetta un vantaggio automatico a favore dei deboli e degli oppressi. Il mito della natura egualitaria ed emancipativa di questa tecnologia in realtà è stato diffuso ad arte. Le agenzie poliziesche dell’ordine globale possono soltanto ringraziare la buona volontà con cui gli attivisti si concentrano, per organizzarsi, su strategie telematiche, per mezzo delle quali si offrono volontariamente all’individuazione e all’arresto nel cyberspazio, dove le operazioni di sorveglianza dello Stato, di sabotaggio e di manipolazione sono molto più semplici che nelle comunità e nelle località vere e proprie, dove si intrattengono incontri reali. Se ci si propone l’obiettivo di una radicale trasformazione sociale, i media elettronici nelle loro attuali forme di universale accessibilità certamente non sono del tutto inutili, ma solo nel caso in cui siano utilizzati in subordine rispetto ad azioni di lotta e a incontri che abbiano luogo in tutt’altri luoghi. Se invece le reti non sono al servizio di relazioni già esistenti, forgiate da un’esperienza condivisa e da rapporti di prossimità, non faranno che riprodurre e rafforzare le separazioni, l’opacità, le dissimulazioni e l’individualismo egocentrico che sono connaturati al loro utilizzo. Qualsiasi tentativo di scuotere l’ordine sociale che assegni le proprie risorse principali alla dimensione dei social media non potrà che essere storicamente effimero e inconsistente.

 

 

 

 

 

Il 24 /7 offre l’illusione di un tempo senza attesa, di un’istantaneità on demand, di un isolamento sempre maggiore rispetto a qualunque forma di presenza altrui. La responsabilità nei confronti degli altri che le relazioni di prossimità comportano oggi può essere facilmente scavalcata attraverso la gestione elettronica che ciascuno può realizzare delle proprie routine e dei propri contatti quotidiani. Una conseguenza forse anche più importante è il fatto che il 24 /7 ha determinato un’atrofizzazione degli atteggiamenti individuali di pazienza e di rispetto che sono essenziali per qualsiasi forma di democrazia diretta: la capacità di ascoltare gli altri e di attendere il proprio turno nello scambio di idee.

 

 

 

… l’eventualità di rimanere in attesa nell’ascolto dell’altro è stata eliminata. Il blogging dunque, a prescindere dai suoi contenuti, rappresenta una delle numerose avvisaglie della fine della politica. I momenti di attesa che si sperimentano effettivamente oggi – negli ingorghi stradali o nelle sale degli aeroporti – servono ad acuire il senso di rivalsa e di competitività nei confronti degli altri. Un luogo comune piuttosto banale, ma certamente significativo sulla società divisa in classi, vuole che i ricchi non debbano mai attendere e ciò accresce la spinta a emulare un simile privilegio nei limiti delle proprie possibilità.

 

 

 

Negli anni Venti, il filosofo sociale George Herbert Mead tentò di definire gli elementi costitutivi della società umana, senza i quali essa non sarebbe stata possibile. Egli li individuò nei rapporti di cordialità con i vicini, di disponibilità e cooperazione. “Il fondamentale atteggiamento di aiuto alla persona che è a terra, che è caduta in malattia o in qualche altro caso sfortunato, appartiene alla struttura stessa degli individui di una comunità umana”. Mead aggiunge inoltre che questi stessi valori sono stati anche, per migliaia di anni, alla base dello scambio economico: “Vi è una partecipazione nell’atteggiamento del bisogno, ponendosi ciascuno nell’atteggiamento dell’altro nel riconoscimento del reciproco valore che lo scambio ha per ambedue”. L’opera di Mead può essere criticata per l’eccessiva mancanza di senso storico, ma in questo caso la sua universalizzazione dell’essenza cooperativa delle società umane permette di mettere in luce la discordanza che divide il capitalismo del XXI secolo dal mondo sociale. Essa permette inoltre di collocare in un contesto significativo la diagnosi di Bernard Stiegler riguardo all’insorgenza, nell’età contemporanea, di una patologia globale che rende impossibile prendersi cura degli altri o di se stessi.

 

 

 

 

 

 

... per via della sua incoercibile resistenza allo sfruttamento e all’assimilazione, il sonno è quasi un’enclave indipendente rispetto all’attuale ordine globale. Il sonno è sempre stato permeabile, pervaso dai flussi dell’attività diurna, sebbene oggi sia più vulnerabile che mai ad attacchi che lo erodono sempre più. Purtuttavia, il sonno rappresenta la ricorrenza nelle nostre vite di un’attesa, di una pausa. Afferma la necessità di un rinvio e il recupero differito di tutto ciò che è stato lasciato in sospeso. Il sonno è una remissione, una liberazione dalla “costante continuità” di tutti i percorsi in cui si è invischiati da svegli. Sembra un’ovvietà l’affermazione che il sonno richiede un disimpegno periodico dalle reti e dagli strumenti, al fine di entrare in uno stato di inattività e inerzia. È una temporalità che ci induce a mutare direzione rispetto a quella consueta cui sempre siamo ricondotti, verso ciò che possediamo o ciò che – assolutamente, ci viene detto – dovremmo possedere.

 

 

 

Quel che intendo come sonno, nella modernità, include quell’intervallo che lo precede, la condizione di penombra in cui si è coricati, in quell’indefinita attesa della tanto agognata perdita di coscienza. In questo tempo sospeso vi è un recupero di capacità percettive che, durante la giornata, vengono annullate o accantonate. Avviene allora una riappropriazione involontaria di una sensibilità o reattività alle sensazioni sia interiori che derivate dal mondo esterno, in una intervallo di tempo non misurabile.

 

 

 

 

Molte sono le conclusioni possibili dopo la lettura di queste “dense” riflessioni estratte dal testo  del critico d’arte e saggista statunitense Jonathan Crary. Alcune le abbiamo suggerite noi stessi,  o in qualche modo anticipate,  sottolineando alcuni passaggi attraverso l’implementazione del testo con alcuni altri estratti tratti  da opere di altri scienziati e pensatori, oppure aggiungendo video o immagini al testo medesimo. Una strada da percorrere che ci interessa  molto è quella tracciata da un sociologo illustre – che è stato anche fra i relatori di digit, il nostro festival dedicato alle “questioni digitali” – Derrick De Kerckhove, nel suo ultimo libro, “Oltre Orwell – Il gemello digitale”, scritto a quattro mani con la giornalista Maria Pia Rossignaud. Ed è proprio con un breve estratto da questo testo che ci congediamo da Voi quest’oggi, ringraziando per l’attenzione e la pazienza. A presto ;)

 

 

 

La conclusione è che una parte sostanziale della nostra presenza nel mondo è destinata ad essere fuori dal nostro corpo in un’entità digitale che ci rappresenta.

 

il nostro gemello digitale personale non è ancora nato, ma la sua moltiplicazione cellulare si sta verificando proprio in questo momento negli innumerevoli database che raccolgono informazioni su ciascuno di noi.

Tutti questi dati e profili sono ormai destinati ad essere raccolti e integrati in un’unica entità accessibile, probabilmente prima nei nostri smartphone ma poi in varie applicazioni che spaziano dai robot umanoidi, alle apparizioni 3D che ci somigliano. Il gemello digitale sarà un secondo sé in grado di accedere, registrare, analizzare e comparare non solo quanto conosce grazie al suo doppio fisico, ma anche grazie a tutto ciò che è disponibile on line.

 

In generale il doppio digitale nasce quale rappresentazione di un oggetto, come una turbina, ma anche come processo (si pensi all’assemblaggio di un veicolo nella catena di montaggio), addirittura un servizio, come un sistema di trasporto urbano, e ora anche rappresentazione delle persone.

 

A questo punto è chiaro che il gemello digitale, in un certo senso, è un convertitore di dati in informazioni. Possiede cioè la capacità di fornire informazioni mirate a un certo obiettivo a fronte di dati ricevuti dall’entità rappresentata e dalla conoscenza di ciò che questa entità è, e quindi del significato attribuibile ai dati.

 

Nel caso dell’uomo, l’emergere di copie digitali è iniziata a livelli micro e macro. A livello micro, per esempio, è ormai pratica comune quella di avere i nostri esami clinici digitalizzati (radiografie, TAC, MRI, ecc.). Tali rappresentazioni biologiche delle parti del nostro corpo permettono poi al medico di trovare soluzioni per il paziente. A livello macro possiamo invece considerare Facebook (e numerosi altri social) come una sorta di gemello digitale grezzo in grado di catturare aspetti della nostra vita: ciò che facciamo, chi siamo, cosa amiamo. Il mondo digitale è un ambiente dove la rappresentazione della realtà è protagonista.