Prepararsi all’imprevidibilità (seconda parte)

Seconda parte e passaggio conclusivo del nostro lavoro per estratti, segnalazioni, sottolineature e citazioni del webinar del sociologo e filosofo Piero Dominici su “complessità e altri accidenti” (si scherza), registrato il 28 aprile scorso online nell’ambito di una serie di seminari organizzati da WiseTown e Stati Generali dell’Innovazione per la Civic Tech Academy.   L’incontro era intitolato:  “Oltre il cigno nero. Prepararsi all’imprevedibilità”,   un tema che evoca eventi epocali, ma che è  altro, come ci ricorda e precisa “live” il nostro associato e amico Piero Dominici:  “approfitto per ricordare come “Oltre il cigno nero” sia la formula e il titolo, non soltanto di numerose conferenze da me tenute negli ultimi anni, ma anche, e soprattutto, il titolo della prossima monografia scientifica (con prefazione di Edgar Morin) di prossima pubblicazione”.  A questo proposito per aprire questa seconda e conclusiva parte del post,  abbiamo pensato di citare proprio il gigante francese della filosofia contemporanea,  proponendoVi un sua riflessione sulla complessità estratta dal saggio pubblicato in Italia per Raffaello Cortina editore:  “La via per l’avvenire dell’Umanità” , grazie dell’attenzione, buona lettura e a presto ;)

 

 

 

 

 

Il pensiero politico è al suo grado zero. Ignora i lavori sul divenire delle società e sul divenire del mondo. “La marcia del mondo ha smesso di essere pensata dalla classe politica”, afferma l’economista Jean-Luc Gréau. La classe politica si accontenta dei rapporti di esperti, delle statistiche e dei sondaggi. Non ha più pensiero. Non ha più cultura. Non sa che Shakespeare la riguarda. Ignora le scienze umane. Ignora i metodi che sarebbero adatti a concepire e a trattare la complessità del mondo, a legare il locale al globale, il particolare al generale.

Priva di pensiero, si è messa al rimorchio dell’economia. Come sosteneva Max Weber, l’umanità è passata dall’economia della salvezza alla salvezza tramite l’economia. L’economia crede di risolvere i problemi politici e umani con la competizione, la deregolamentazione, la crescita, l’aumento del pil e, in caso di crisi, con il rigore, cioè con i sacrifici imposti ai popoli. E come la civetta fugge il sole, la classe politica si allontana da qualsiasi pensiero che potrebbe illuminare il cammino del bene comune.

 

 


 

 

 

 

Un altro equivoco viene dall’idea,  dalla visione,  dalla prospettiva talvolta anche ideologica,  che molti dei nostri problemi complessi,  possano trovare soluzioni semplici perché la tecnologia e la tecnica ci forniscono soluzioni semplici.

Il digitale va nella direzione della semplificazione,  soltanto se noi abbiamo la capacità, il desiderio, la volontà politica, la cultura, alla base della complessità di  ripensare in maniera radicale l’educazione, la formazione e l’alta formazione.

In caso contrario,  il digitale diventa elemento di definizione di nuove asimmetrie,  di nuove disuguaglianze,  di una innovazione che non è sociale e culturale ma è un’innovazione tecnologica per pochi per le élite.

Questa civiltà iper tecnologica si basa su una serie di grandi illusioni;

L’illusione della razionalità:  la straordinaria disponibilità dei dati.  Pensate a tutto l’ambito delle scienze, degli studi computazionali che addirittura in certi ambiti di ricerca e di studio,  stanno restituendo a mio avviso,  la certezza illusoria che si possano controllare e gestire, predeterminare perfino i comportamenti degli umani  cioè quella complessità che a mio avviso sfugge a qualunque gabbia e tentativo di gestione

 

L’illusione del controllo: noi umani ce la portiamo dietro da sempre.  Un controllo che evidentemente si lega da sempre ai modelli pedagogici e modelli educativi,  ai modelli culturali, e oggi aggiungerei alla rilevanza sempre più strategica che la comunicazione e la stessa informazione assumono sia a livello di rappresentazioni della complessità,  di  visualizzazione della complessità,  e di conseguenza di percezione di accettazione sociale della complessità. Oppure del rischio,  dell’emergenza,  della insicurezza,  della incertezza che ormai sono condizioni  legate ai modi con cui ci rapportiamo con il reale con la conoscenza. Sono diventate condizioni esistenziali a tutti gli effetti.

 

L’illusione della misurabilità:  qui c’è una gigantesca sfida, non da oggi.  Ripensare la stessa idea e visione e concezione della scienza. Una scienza  basata sul principio della osservabilità evidentemente fondamentale che però in qualche modo ci mette in condizione di perderci tutta la riflessione e lo studio sull’umano e sul sociale.

 

L’illusione della prevedibilità:  che si fonda su questo assunto di fatto che anche ciò che è qualitativo possa essere tradotto in termini quantitativi,  e nel momento in cui è stato  tradotto in termini quantitativi diviene  misurabile pertanto prevedibile gestibile fino in fondo.

 

 

 

Viviamo un’epoca di straordinarie opportunità, ma bisogna operare delle modifiche radicali di impostazione.

La disponibilità di dati,  i big data, gli algoritmi, il deep learning  disvelano una serie di scenari assolutamente straordinari ma ripeto dovremo maturare delle consapevolezze anche nel campo della scienza.

Pensiamo per dirla con Lyotard alle grandi narrazioni disattese:

 

 

 

Dispensa – Riassunto: Jean-François Lyotard – La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. – 1979

 

 

 

Nella società post industriale e nella cultura postmoderna contemporanee, il problema della legittimazione si pone diversamente. La grande narrazione, sia speculativa, sia emancipativa ha perso credibilità.

I germi della delegittimazione erano già presenti nelle grandi narrazioni del XIX secolo. Nel dispositivo speculativo, il discorso denotativo, la scienza positiva non è vero sapere. Una scienza che non ha trovato la sua legittimità non è vera scienza, essa cade al più basso dei ranghi, quello di ideologia o di strumento di potenza”.

 

 

 

Questa civiltà iper tecnologica, iperconnessa  è ancora una straordinaria opportunità per pochi.   Pare abbia tradito le iniziali aspettative – la knowledge society la società della conoscenza – forse è stata l’utopia più forte degli ultimi decenni.

Pensate anche all’esperienza degli hacker e a  quando si parlava della possibilità di condividere la conoscenza in una visione e una prospettiva che a mio avviso è stata totalmente disattesa.

Grandi narrazioni che hanno associato l’avvento del digitale,  della rivoluzione digitale, ad una serie di punti estremamente importanti

Hanno associato il digitale ad esempio all’idea della semplificazione

Hanno associato il digitale alla possibilità di un’emancipazione dei singoli attori sociali,  dei soggetti individuali e collettivi un’emancipazione che senz’altro aveva e ha maggiori opportunità in questa stessa civiltà ipertecnologica. Civiltà che  se non trova modificate le condizioni di partenza non può realizzarsi.  L’eguaglianza delle condizioni di partenza continua a essere un fattore di  profonda diseguaglianza  e di definizione di profonde diseguaglianze e asimmetrie.

Un’ altra grande narrazione è stata quella della disintermediazione. Non tutto può essere semplificato. Abbiamo provato a semplificare anche ciò che non era semplificabile:  il linguaggio, la comunicazione, l’educazione,  la stessa  democrazia.

Ecco le retoriche,  le narrazioni sulla disintermediazione per certi versi,  a mio avviso,  hanno creato anche le condizioni per una simulazione della partecipazione e anche per una illusione della cittadinanza.

Quello che è successo anche nelle prime fasi di questa pandemia – c’è tanta letteratura scientifica su questo –   che ci dice come in presenza di catastrofi disastri in situazioni di rischio più o meno importante si sviluppino sempre dinamiche che afferiscono e che attengono solo ad una solidarietà della paura come la ha  anche chiamata il grande sociologo Ulrich Beck e a un’economia   dell’insicurezza

 

 

 

 

“Risikogesellschaft, società del rischio. Tutti siamo esposti al rischio, perché tutti viviamo nella società del rischio. Prenderne atto non è solo un gesto di responsabilità, ma comporta un vantaggio strategico. La capacità di anticipare un rischio consente infatti di non trasformare le emergenze in panico sociale e le paure in catastrofi.”

 

 

 

 

 

 

 

Siamo in una fase di rapida,  rapidissima obsolescenza non soltanto dei materiali  –  anzi assistiamo a dinamiche di smaterializzazione  – ma di rapida,  rapidissima obsolescenza di tutte le conoscenze, di tutte le competenze e dei saperi.  Da più parti ci viene correttamente detto che l’intelligenza artificiale,  la robotica stanno già ora disegnando scenari del tutto imprevedibili.  Ci dicono, ricordano vecchi rapporti della banca mondiale di altri organismi transnazionali,  che nel giro di pochissimo tempo molte figure professionali che noi continuiamo a educare,  a preparare e  a formare saranno letteralmente spazzate via da queste  nuove dimensioni del tecnologico e delle dell’iper complesso.

Quindi in questa fase di rapida rapidissima  obsolescenza dei saperi e competenze,  è evidente che la prospettiva di continuare a inseguire le istanze del cosiddetto mercato,  e comunque di inseguire il mercato perché il mercato desidera queste figure – come se il mercato assumesse una sorta di funzione vitale –  quasi di deificazione  del mercato.  In questo momento neanche il mercato sa dove stiamo andando. E allora torna centrale l’urgenza di educare e formare non soltanto menti critiche,  menti elastiche,  io le ho chiamate molti anni fa figure ibride  recuperando un concetto che appartiene al mondo delle arti e delle discipline più creative, evidentemente,  non si tratta di tuttologi.

L’ibridazione dei saperi e delle conoscenze non si realizza e non si concretizza nello spalmare appunto l’acquisizione dei linguaggi dei codici dell’informatica,  ne tanto  meno,  nell’insegnamento dell’informatica in tutti i percorsi di studio di laurea.

L’ibridazione dei saperi si realizza ad un livello ancora una volta epistemologico e metodologico.

L’ibridazione dei saperi,  la convergenza,  come dice qualcuno in  maniera poco appropriata,  non si realizza secondo me con operazioni di marketing,  in cui mettiamo un po di materie umanistiche nello scientifico e un po’ di materie scientifiche nell’umanistico,  mantenendo quelle logiche di separazione e continuando a praticare la mono disciplinarietà evidentemente si realizza su altri piani di discorso.

Arriviamo appunto alla questione dell’urgenza di  educare alla prevedibilità.  Prevedere l’imprevedibilità che sembra quasi sembra quasi un ossimoro perché è evidente che si sta giocando su una forzatura che non è soltanto terminologica. Per dirla poi con una celebre formula che è quella di Montaigne e poi recuperata poi dallo stesso Edgard Morin:

 

 

 

 

La prima finalità dell’insegnamento è stata formulata da Montaigne: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena. Cosa significa “una testa ben piena” è chiaro; è una testa nella quale il sapere è accumulato, ammucchiato, e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso”. Una testa ben “fatta” significa che invece di accumulare il sapere è molto più importante disporre allo stesso tempo di: un’attitudine generale a porre e a trattare i problemi; principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso”.

 

http://www.theuniversal.it/3885-2/

 

 

 

 

L’urgenza è quella di educare e formare teste ben fatte e non teste ben piene, ma l’urgenza è quella appunto di ricomporre la frattura tra l’umano tecnologico cioè, mettere davvero mano a questa separazione, a questa frattura profonda tra l’umanistico e lo scientifico però con un progetto forte, non si tratta soltanto di fare una,  come dire,  insalata russa dei saperi e delle competenze

tutto questo porta con sé l’urgenza di definire una nuova cultura della comunicazione che deve riguardare il piano istituzionale, le organizzazioni e appunto le condizioni di dialogo e di traducibilità dei saperi e delle competenze dentro e fuori le nostre istituzioni educative e formative

 

 

Piero Dominici