In fondo sono solo notizie

Fra le cose che qui a bottega cerchiamo da qualche tempo di portare avanti attraverso i nostri studi e le nostre ricerche,  la questione del rilancio della “funzione d’uso del giornalismo”, è certamente uno dei temi più importanti. Nel corso degli anni, e soprattutto dopo l’avvento della cosiddetta “rivoluzione digitale”; e l’arrivo della società della conoscenza; e la creazione dell’ecosistema dell’informazione, e  il cambiamento del modello di produzione e fruizione delle notizie passato da verticale a orizzontale; il senso del giornalismo non è cambiato ma la funzione d’uso dei giornalisti e la loro utilità sociale sì. E parecchio. Il giornalista a caccia di notizie che consuma le suole delle scarpe e si muove con acume e destrezza in mezzo a informatori, gole profonde e fonti riservate, esiste sempre ma – come prima –  tale attitudine professionale appartiene ad un’élite più o meno ristretta dei “tesserati”.  I giornalisti “da battaglia”, quelli che servono quotidianamente i piatti principali dell’informazione nostrana, sono tutti o quasi giornalisti da scrivania, persone che non lasciano mai la redazione, o meglio che forse non sono nemmeno mai entrati in una redazione ma che scrivono e seguono le notizie direttamente dal proprio pc, tablet o smartphone, e grazie a questi stessi componenti  tecnologici riempiono le bacheche online di piccoli e grandi siti di informazione – famosi e meno noti –  per un pugno di riso e qualche galletta. Il giornalismo praticato quotidianamente è per molta parte questo, sia in Italia, sia nel resto del mondo; con differenze importanti in taluni casi, ma che non cambiano la sostanza dei fatti. Un tipo di professione descritta in modo ineccepibile da Daniele Nalbone nel corso del suo intervento durante gli Stati Generali dell’informazione:

 

 

“Quello che noi leggiamo tutti i giorni sui siti d’informazione è la stessa identica cosa su ogni giornale allo stesso momento.  Non c’è null’altro di diverso. Oggi i siti di informazione sono discariche di link. I piani editoriali prevedono cento, centocinquanta link al giorno,  non c’è una gerarchia, non c’è un approfondimento, non c’è uno studio dietro la produzione che viene fatta di questi di questi articoli, soprattutto su quella che poi è l’interfaccia,  la piazza del Paese cioè i social network.  Se scopriamo una qualsiasi delle bacheche che ci troviamo davanti, o delle pagine, vediamo un flusso continuo di notizie che non hanno né capo né coda. Questa roba qui ha distrutto la professione. Questo è il modello di business nel quale ci muoviamo.  Tutti corriamo nello stesso identico momento per la stessa identica notizia.

Il risultato è quello di aver riempito le redazioni non più dei giornalisti ma di web content editor cioè di persone che si trovano a fare dieci, quindici, venti articoli ogni giorno, copiati da una parte e dall’altra, per farli piovere sui motori di ricerca, sui social network. E la cosa ancora più grave è che queste persone sono pagate, quando va bene, mille euro al mese.

è tutto normale che dal nulla nascano siti che fanno cinquecentomila visite, facendo cento-centocinquanta articoli. E poi chi li produce, non vediamo nessun articolo firmato, nell’80% dei casi sono siglati redazione. Che cos’è quella roba lì ? Il ruolo del giornalista oggi di fronte al declino culturale, non solo di questo Paese, ma proprio dell’intera Società,  è assolutamente importante, ancora più importante”.

 

 

Ripristiniamo dunque la corretta  “funzione d’uso del giornalismo”.  Come abbiamo provato a dire in più occasioni, qui e nei nostri eventi digit “live” : per assicurare proprio adesso,  in questo nostro mondo digitale e interconnesso,  la corretta circolazione delle notizie, di tutte le notizie, e garantire una corretta “formazione dell’opinione pubblica”.  Per dirla con il sociologo della complessità Piero Dominici:   “ In termini pratici, ciò si tradurrebbe nel rafforzamento di un’opinione pubblica (locale e globale) sempre più critica e informata e, per questa ragione, sempre più partecipe e destinataria attiva delle scelte della Politica e del Bene Comune”.

 

Non male eh, che ne dite? Ma proviamo a dirlo ancora meglio e in forma più esplicita prendendo a prestito un passaggio scritto da Shoshana Zuboff:

“Il lavoro del giornalista è produrre notizie e analisi che separano verità e menzogne. Rifiutare che possano essere la stessa cosa è la ragione stessa per la quale esiste il giornalismo con il suo rapporto di reciprocità con i lettori”.

 

Ripristiniamo la corretta funzione d’uso del giornalismo e in modo quasi automatico faremo  si che i professionisti dell’informazione diventino,  per  davvero  e in modo incontrovertibile,  gli esperti – di cui c’è un bisogno assoluto e improcrastinabile –  in questo mondo sofferente per overload informativo. Esperti da ingaggiare ad ogni piè sospinto per aiutare imprenditori, amministratori pubblici e privati, commercianti, produttori, inventori, personaggi pubblici, scienziati, professionisti di ogni  livello e  operanti in qualunque tipo di attività. Esperti da mettere a busta paga  per selezionare, scoprire, e poi divulgare quel tipo di  conoscenza che accresce e fa sviluppare,  ma che, al momento,  è sepolta sempre più in profondità  dentro al magma mediatico in perenne fluttuazione ed espansione esponenziale la che è la rete.

 

Perché di notizie “inutili” si può davvero far indigestione, fino a star male, quasi morire; certamente si rischia una pesante intossicazione come dice Rolf Dobelli  nel suo libro “smetti di leggere le notizie”:

 

…le notizie sono pericolose quanto l’alcol. Di fatto, ancor più pericolose, perché gli impedimenti cui deve far fronte un alcolizzato sono molti di più. Per essere più precisi: con l’alcol gli impedimenti sono maggiori di zero, con le notizie inferiori a zero. L’alcol bisogna comprarlo, e questo costa tempo e denaro. L’alcol non viene portato a casa gratuitamente. E se siete alcolizzati e avete (ancora) una relazione, dovete nascondere le bottiglie piene e liberarvi di quelle vuote il più in fretta possibile. Questo comporta un dispendio di energie. Con le notizie, al contrario, questo dispendio non c’è. Le notizie sono dappertutto, in gran parte gratuite, e si infilano automaticamente nella vostra coscienza. Non dovete farne scorta, e non c’è niente di cui disfarsi. Ed è proprio per via di questi «impedimenti negativi» che le notizie sono così infide.

 

…che cosa sono le notizie? Che cosa le rende così irresistibili? Che cosa succede nel nostro cervello quando consumiamo notizie? Perché siamo così ben informati eppure sappiamo così poco? L’addio radicale alle notizie mi è riuscito doppiamente difficile perché molti dei miei amici sono giornalisti. Li considero le persone più brillanti, spiritose e colte che conosco. Ma c’è di più. Hanno scelto la loro professione principalmente per motivi etici – per rendere il mondo un posto almeno un po’ migliore e tenere d’occhio i potenti. Oggi, stupidamente, sono intrappolati in un’industria che non ha quasi più nulla a che fare con il vero giornalismo. Destreggiarsi con le notizie non ha più alcun significato. Oggi sono «pulito». Dal 2010 ho rinunciato completamente alle notizie e sono in grado di vedere, sentire e descrivere in prima persona gli effetti di questa libertà: una più alta qualità di vita, pensieri più chiari, opinioni più valide, meno nervosismo, decisioni migliori e molto più tempo a disposizione. Dal 2010 non ho più letto quotidiani, guardato telegiornali, ascoltato notiziari alla radio, e non mi sono più fatto inondare dalle notizie on line. Ciò che era cominciato come un esperimento su me stesso è diventato una filosofia di vita. Posso raccomandarvi la dieta di notizie con la coscienza a posto. E credetemi: non vi perderete niente di importante.

 

Rispetto alle notizie siamo oggi al punto in cui eravamo vent’anni fa riguardo allo zucchero e al fast food, perché le news sono per la mente ciò che lo zucchero è per il corpo. Sono invitanti, facili da digerire e al tempo stesso molto dannose. I media ci nutrono di piccoli bocconi di storie banali, leccornie che tuttavia non saziano affatto la nostra fame di conoscenze. A differenza di ciò che accade con i libri e gli articoli lunghi, basati su ricerche accurate, il consumo di news non dà alcuna sazietà. Possiamo ingurgitare quantità illimitate di notizie – ma restano sempre caramelle a buon prezzo.

 

Parafrasando Jo’ Squillo e Sabrina Salerno è proprio il caso di dire:  “Siamo giornalisti oltre le notizie c’è di più…”. Battute  a parte, cosa dovremmo dunque fare per ripristinare il senso delle “cose giornalistiche”? Chi può dirlo? Noi proviamo a buttare giù qualche appunto. Poi magari ne parliamo tutti insieme. Per prima cosa, intanto,  bisognerebbe rifondare questa professione, lo dicono in molti da tanti anni. Lo diciamo anche noi da tempo. Rifondare il mestiere di giornalista partendo dal ripristino della corretta funzione d’uso del giornalismo, potrebbe forse essere un primo aspetto. E poi,  riprendere in mano i percorsi istituzionali e legislativi su cui si basa questa professione, per ristrutturare ove possibile, e riscrivere ove non lo sia, in profondità, le regole del gioco. Un gioco molto diverso per tanti motivi ora come ora. Ma anche uguale a se stesso per altri. I vecchi motivi sono chiari e li troviamo direttamente nella nostra Costituzione e nelle carte di pari valore europee e globali. Quelli nuovi stanno nella comprensione della rivoluzione digitale. E attengono non solo ai giornalisti e al giornalismo, ovviamente, ma ai grandi cambiamenti sociali in atto nel mondo. Per i giornalisti non si tratta di attribuire o meno senso e funzionalità all’Ordine o al Sindacato. Non si tratta neanche di polemizzare sulla divisione atavica fra pubblicisti e professionisti. Non appare così importante neanche la strenue difesa  per il salvataggio dell’Istituto di Previdenza dei Giornalisti. Rifondare la professione partendo dal riformulare il significato profondo  della sua funzione d’uso specifica, significa, a nostro avviso:

ripartire dalla complessità di questa funzione e conseguentemente dal valore che chi lavora in questo comparto deve portare con sé. Un valore aggiunto che ha fatto, fa e farà la differenza,  per tutti,  ora e sempre. Nei rapporti con la politica, con i potenti, con i violenti, con le meta nazioni digitali, con le aziende-stato, con le dittature e i dittatori. Con tutti quelli che non vogliono spiegare,  non vogliono essere messi in dubbio, non vogliono decidere assieme ad altri, magari al popolo. Ripartire dalla formazione – no, non stiamo parlando della tardiva e purtroppo quasi inutile svolta ministeriale verso la formazione professionale obbligatoria – significa, a nostro avviso,    costruire finalmente un percorso di studi e poi di formazione professionale qualificata per questo delicato e utilissimo comparto professionale. A cui va aggiunta una legge di tutela dei professionisti dell’informazione nell’esercizio delle proprie funzioni. Chi racconta i fatti  agli altri deve poterlo fare in piena autonomia e protezione “giuridica”, non tirato per la giacchetta da questo o da quello: financo i propri stessi dirigenti aziendali. E poi mischiamoci. Apriamoci al nuovo. Se il giornalismo di marca o aziendale – leggi brand journalism –  deve entrare a far parte a pieno titolo della pratica professionale, non possiamo relegarlo in un cassetto sotto la scrivania destinato a “favori in cambio di favori”.  Che qualcuno chiama ancora “marchette”. Se lavoro per una casa automobilistica il mio compito non può e non deve essere solo quello di tessere le lodi dei prodotti che la mia azienda produce e commercializza. Il mio ruolo deve essere quello di informare in modo corretto e completo non solo i nostri clienti, ma tutti. E proprio i nostri clienti come tutti gli altri, devono conoscere anche gli eventuali difetti dei  prodotti –  o meglio ancora –  devono collaborare con me, anzi meglio attraverso il mio operato, con la mia azienda per migliorare sempre di più i prodotti, insieme. Per la soddisfazione e, soprattutto,  la “sicurezza” di tutti. Si chiama “fare community” , ed uno degli aspetti cardine della rivoluzione digitale. Uno dei modi  per esplicitare e realizzare il senso profondo dell’essere e del fare rete.

Un circuito di dati (notizie, informazioni, critiche, prove, impressioni) diffusi, ricevuti e condivisi dentro l’ecosistema. Trasparenza e consapevolezza per il bene comune. La rete e la conoscenza condivisa e diffusa non sono quello che vogliono farci credere. Ovvero un luogo di nefandezze da sottoporre a regole ferree. Un posto in cui costruire nuove gabbie, muri e cancelli. Un mondo “virtuale” peggiore di quello reale. Conoscenza e consapevolezza,  come scriveva alcuni anni fa,  Ivan Illich non possono né potranno mai essere un  male per l’Umanità, bensì un enorme valore aggiunto:

 

“Io e molti altri, a me noti e ignoti, ti invitiamo: – a celebrare il nostro comune potere di assicurare a tutti gli esseri umani il cibo, il vestiario, il riparo di cui abbisognano per gioire del fatto di essere vivi; – a scoprire, insieme con noi, che cosa dobbiamo fare per utilizzare il potere universalmente umano di creare l’umanità, la dignità e la gioia di ciascuno di noi; – a essere responsabilmente consapevole della tua personale capacità di esprimere i tuoi veri sentimenti e a invitarci a prender parte all’espressione di essi. Noi possiamo solo vivere questi cambiamenti; non possiamo pensare in astratto il nostro cammino verso l’umanità. Ciascuno di noi e ciascun gruppo con cui viviamo e lavoriamo deve diventare il modello dell’era che aspiriamo a creare. I molti modelli che sorgeranno dovrebbero offrire a ciascuno di noi il contesto adatto in cui celebrare le nostre potenzialità – e scoprire la strada verso un mondo più umano”.