Se non la smetti ti faccio una app

Quando è stato che siamo passati dal progettare soluzioni digitali a problemi analogici,  a realizzare inutili orpelli fintamente risolutivi in forma digitale a problemi (reali) perlopiù inesistenti?
La mancanza sempre più marcata di una cultura digitale di base, anno dopo anno, ci ha portato,  lentamente ma inesorabilmente,  ad avere sempre meno elementi utili per aiutarci a comprendere i problemi reali, fino a far scomparire dal nostro orizzonte logico gli stessi problemi.  Nel frattempo, questi problemi,  non cessano davvero di esistere,  bensì peggiorano. Ma la sempiterna mancanza di cultura digitale – sigh –  orienta il nostro agire non verso la giusta direzione; bensì alla ricerca di finte o non utili soluzioni di problemi inesistenti, inconsistenti, o peggio, opportunamente costruiti  a tavolino. Alcune strade maestre, percorsi ineludibili fino a pochi anni fa, sono letteralmente scomparse dal nostro orizzonte.
Il riuso è un concetto utile,  sparito quasi del tutto.
La conservazione,  è un altra modalità di approccio alla vita fondamentale, divenuta  oramai obsoleta.
Riparare, aggiustare, scambiare,  sono termini e prassi desuete e anche un po’ risibili ai più. Mentre invece sarebbero necessarie alla nostra stessa sopravvivenza.
A tenere banco, invece,  sono questioni di scarsa utilità, bisogni indotti – più o meno magicamente – problemi “divenuti improvvisamente cruciali”, solo per portarci all’acquisto, per vendere qualcosa a qualcuno, per costringerci ad aggiornare il “sistema”  –  che poi ci porterà a dover risolvere altri “fondamentali problemi”, non a far cessare il disagio/disastro: quello vero.
La querelle planetaria sul corretto metodo di tracciamento/monitoraggio della diffusione dei contagi dentro alla pandemia,  sta li a dimostrare quanto poco siamo davvero consci del funzionamento reale del mondo digitale (il nostro),  e di quanto invece,  siamo quasi totalmente e irrimediabilmente succubi,  della tecnologia.
Siamo succubi, badate bene, di strumenti e soluzioni tecnologiche fini a se stesse. Di scarsissima utilità specifica. E che poi usiamo al 10% delle proprie potenzialità. Che producono danni incalcolabili,  sempre e comunque.  E che ci sviano dalla giusta direzione. Ci fanno immergere sempre di più dentro a scenari fasulli e inconsistenti. Alimentano false e distorte visioni della realtà.
I dati, ad esempio,  quella risorsa indispensabile,  per permettere a “immuni” o alle altre sue 50 consorelle planetarie, di funzionare,  non li andiamo a prendere da chi li ha e in abbondanza – e ce li ha pure messi gratuitamente a disposizione e non certo per magnanimità – no. Non lo facciamo. Li raccogliamo ex novo e in una forma sicuramente molto meno efficace di quanto non lo facciano già le potentissime techno corporation.  Lo Stato,  o meglio qualunque compagnia di sviluppo di software a cui lo Stato abbia appaltato la creazione della app,  non avrà mai le risorse  e soprattutto i dati e le capacità intrinseche di tracciamento dei medesimi che ha una qualsiasi delle big tech americane o cinesi che siano. E dunque perché non fare accordi paritari e di reciproca soddisfazione con questi soggetti, invece di subire la loro egemonia passivamente? O peggio fingere di scavalcarli, non per finalità etiche o di reale emancipazione culturale e operativa, ma per finalità non meglio precisate e certamente periferiche, se non iperlocali?
Ma gli esempi sono molteplici. E riguardano svariati campi operativi. Ne abbiamo parlato spesso.
Riconoscimento facciale.
Deep fake.
Raccolta e riuso improprio e reiterato dei nostri dati, dei nostri archivi, dei nostri comportamenti, dei nostri contenuti, dei nostri studi. E non per creare fantomatiche banche dati onnipotenti (non lo sono ne saranno mai da sole). I cosiddetti big data non sono nulla, anzi sono un problema e un costo enorme, senza una pregressa strategia di sfruttamento. Ma l’uso di questi dati, quello si, produce reddito. Un uso, proprio o improprio che sia non importa.  Certo,  molto meglio poterlo fare senza chiedere il permesso a nessuno.  Meglio ancora,  poterlo fare protetti da una legge fasulla che dovrebbe tutelare l’utente, e invece riduce il problema ad una querelle burocratica.  Un problema vero, reso inconsistente ad hoc. Un problema che a noi rimane ma che pensiamo di aver risolto grazie alla “legge”. Mentre invece proprio grazie alla “norma”, diventa un’opportunità commerciale ed economica, per i soliti noti. Le solite mega-compagnie galattiche. O i compagnucci del quartierino, poco importa. Di sicuro nessuno è interessato al bene comune. Tutti questi soggetti, declinano e coniugano,  il nuovo universo digitale a loro immagine e somiglianza.
Facciamo un esempio che ben si adatta ai nostri studi. Pensiamo al giornalismo e all’araba fenice del fantomatico nuovo modello di business.  Cosa fa il giornalista continuamente, compulsivamente, in modo semi automatico? Raccoglie dati. E non dati qualsiasi. Dati utili. Finalizzati. Spesso rilavorabili. Ma allora questi dati, questi archivi, questo flusso ininterrotto di informazioni potrebbe, forse,  essere monetizzabile? Diventare un flusso di cassa,  e non l’ennesima opportunità di sfruttamento del nostro lavoro da parte delle OTT o di altri più o meno fantomatici soggetti terzi? Smettiamo di aspettare che siano i posteri a darci la sentenza. Le istruzioni per risolvere l’enigma sono tutte alla nostra portata. E’ il momento di agire.
Come diciamo spesso, anche il nostro penultimo articolo cercava di puntare proprio a questo obiettivo, per poter agire,  è necessario, e non più rimandabile, un cambio di paradigma. Serve un riorientamento collettivo e complessivo. Da una parte dobbiamo promuovere e realizzare un processo irrinunciabile di alfabetizzazione digitale e dall’altra dobbiamo cominciare ad agire digitalmente, da subito. Pensare digitale. Scrivere digitale. Essere digitali. E smettere di adattare il mondo analogico al digitale. Per dirla con James Bridle, ed  estraendo un passaggio particolarmente “azzeccato” dal suo ultimo libro, “Nuova era oscura”:

le nuove tecnologie non si limitano ad aumentare le nostre capacità ma, nel bene e nel male, le modellano e le indirizzano. Se quindi vogliamo partecipare in modo significativo a questo processo, è sempre più un imperativo essere in grado di pensare alle tecnologie in modi diversi e nuovi, e avere un approccio critico nei loro confronti. Se non comprendiamo il funzionamento delle tecnologie complesse, le interconnessioni tra sistemi di tecnologie e le interazioni tra sistemi di sistemi, allora resteremo per sempre inermi, in balia delle tecnologie mentre il loro enorme potenziale verrà facilmente imbrigliato da élite senza scrupoli e multinazionali inumane. Proprio alla luce del fatto che le tecnologie interagiscono l’una con l’altra in modi imprevisti e spesso insoliti – e proprio perché siamo legati a esse in modo inestricabile – la loro comprensione non può limitarsi a come funzionano da un punto di vista meramente pratico: dobbiamo estenderla a come sono venute al mondo e ai modi spesso tanto invisibili quanto intrecciati in cui continuano a funzionare. Quella di cui abbiamo bisogno insomma non è una semplice comprensione, ma un’alfabetizzazione.

 

 

I dati, sempre loro, “ça va sans dire”, ci raccontano un Paese, il nostro, ben lontano dall’essere digitale. Ancora agli ultimi posti in tutto o quasi. Ancora molto indietro nei passaggi cruciali, per principiare il passaggio al digitale. Quel passaggio che lungi dall’essere una novità. Si è compiuto ben più di un trentennio or sono, e che nel frattempo ha già subito ulteriori passaggi –  molti dei quali cruciali –  aggiustamenti, sconvolgimenti, e rivoluzioni interne. Noi ancora non usiamo nemmeno il computer, e ancora meno internet. Oltretutto – come ci suggeriva qualche giorno fa il Ns. Marco Dal Pozzo –  ma siamo davvero sicuri che l’ennesimo stravolgimento digitale in corso di realizzazione –  e dove il nostro arretrato Paese, invece, sembra essere, una volta tanto,  all’avanguardia – ovvero il passaggio alla quinta generazione detto confidenzialmente 5G; sia davvero necessario e irrinunciabile, al nostro Paese e al mondo intero? La domanda la lasciamo sospesa, per il momento. A Vs. disposizione per ogni replica, come sempre. In bacheca qui, o sui nostri account social: twitter, facebook, instagram, dove ci trovate come Lsdi o come digit, o con entrambi i brand. Sempre noi siamo, per dirla con Montalbano. Invece a proposito di dati, facciamo una breve incursione nell’ultimo rapporto “desi”, diramato qualche giorno fa dall’Unione Europea. La ricerca eseguita ogni anno dagli analisti della Commissione Europea fotografa, secondo certi parametri, l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società, dei paesi membri dell’Unione. Secondo l’ultimo rapporto, come vedremo nel dettaglio, l’Italia, è ancora molto indietro. E come vedrete, fra tutti gli indici utilizzati nella ricerca, manca proprio quello più importante, quello di cui parliamo sempre, e che anche oggi abbiamo citato “ad ogni piè sospinto”: l’indice della cultura digitale.  Estraiamo dunque alcuni passaggi, significativi, dal rapporto. E buona lettura. ;)

 

 

Le relazioni DESI (Indice di digitalizzazione dell’economia e della società) sono lo strumento mediante cui la Commissione Europea monitora il progresso digitale degli Stati membri dal 2014.

Per l’edizione 2020 dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) l’Italia si colloca al 25esimo posto fra i 28 Stati membri dell’UE. I dati precedenti la pandemia indicano che il paese è in una buona posizione in termini di preparazione al 5G. 

Rispetto alla media UE, l’Italia registra livelli di competenze digitali di base e avanzate molto bassi. Anche il numero di specialisti e laureati nel settore TIC è molto al di sotto della media UE.

Solo il 74% degli italiani usa abitualmente Internet. Le imprese italiane presentano ritardi nell’utilizzo di tecnologie come il cloud e i big data, così come per quanto riguarda l’adozione del commercio elettronico.

… nel marzo 2020 il governo ha varato il Fondo Nazionale Innovazione, che ha una dotazione finanziaria di partenza di 1 miliardo di EUR e opera sulla base di metodologie di Venture Capital per sostenere gli investimenti nelle imprese innovative.

… nel 2019 il governo ha avviato i lavori su due nuove strategie nazionali, una sull’intelligenza artificiale (IA) e l’altra sulla blockchain, con il sostegno di gruppi di esperti dell’industria, del mondo accademico e delle parti sociali.

 

Nel 2019 l’Italia ha perso due posizioni e si colloca ora all’ultimo posto nell’UE per quanto riguarda la dimensione del capitale umano. Solo il 42% delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede almeno competenze digitali di base (58% nell’UE) e solo il 22% dispone di competenze digitali superiori a quelle di base (33% nell’UE).

 

Nel complesso, l’uso dei servizi Internet in Italia rimane ben al di sotto della media UE. La posizione in classifica del paese è rimasta invariata rispetto alla relazione precedente (26esimo posto su 28 Stati membri).

 

Il 17% delle persone che vivono in Italia non ha mai utilizzato Internet; tale cifra è pari a quasi il doppio della media UE e colloca il Paese al 23esimo posto nell’UE.

 

Per quanto riguarda i servizi pubblici digitali, l’Italia è al 19esimo posto nell’UE, la stessa posizione occupata nel 2019. Tale posizione colloca il paese al di sotto della media europea, nonostante le buone prestazioni nell’ambito dell’offerta di servizi digitali e di dati aperti (Open Data). L’Italia supera l’UE per quanto riguarda il livello di completezza dei servizi online, i servizi pubblici digitali per le imprese e i dati aperti. 

La bassa posizione occupata dal paese nella classifica generale è dovuta allo scarso livello di interazione online tra le autorità pubbliche e il pubblico in generale. Solo il 32% degli utenti italiani online usufruisce attivamente dei servizi di e-government (rispetto alla media UE del 67%). Questo dato è addirittura diminuito tra il 2018 e il 2019.

 

 

Che dire? Come avete visto dai nostri appunti, e meglio potrete, leggendoVi nel dettaglio il rapporto completo, non siamo messi proprio benissimo. La pandemia e il conseguente stato di quarantena obbligatorio, hanno evidenziato molto chiaramente le nostre carenze, ma non hanno fatto scattare, ci sembra di vedere, nessun piano strategico realmente teso alla formazione della corretta “cultura digitale di base” in ciascuno di noi. Quella cosa di cui andiamo cianciando da molti anni, e che ora viene inserita –  a parole –  dentro piani, rapporti, indagini, strategie e vademecum anche dai nostri Governi – presenti, passati e futuri – ma che poi tradotta nei fatti non intacca, nemmeno un pochino, la sostanza dei fatti. L’orientamento reale non è mai quello di formare una cultura digitale di base per imparare a ragionare digitale. Si formano esperti per realizzare la transizione, ad esempio nella scuola. E poi si scopre che questi esperti in formazione non si stanno davvero emancipando. Non stanno apprendendo i rudimenti di un corretto approccio al digitale. Al massimo imparano a programmare. Che non è esattamente la stessa cosa. Già il fatto di essere ancora alla ricerca di specialisti per il completamente della transizione, testimonia in modo inequivocabile, l’errato approccio. Non c’è più niente verso cui andare. Forse non c’è stato mai. Per dirla con Mario Tedeschini Lalli, giornalista e grande esperto di digitale:

 

 

Si tratta di accettare proprio una nuova cultura, perché il digitale non è solo un modo diverso, magari più veloce ed efficiente, di fare le cose che abbiamo sempre fatto, non è un insieme di strumenti da imparare, ma una logica diversa.