Le radici ‘’culturali’’ del paywall

paywallIl paywall ha poco a che fare con il digitale e molto di più con la cultura della carta – profondamente sedimentata – secondo cui alla fine quello che conta davvero è il prodotto stampato,  di cui il web sarebbe solo una estensione. Si parla tanto degli aspetti economici del fenomeno dei paywall ma molto poco di quelli culturali. Douglas Hebbard, giornalista, editore  e direttore di  ‘’Talking New Media’’,  cerca invece di affrontare la questione da un altro punto di vista e per  questo ci sembra interessante il suo punto di vista. Da editore.  

 

‘’Ogni sei mesi – dice fra l’ altro – scrivo uno di questi articoli sul paywall nei giornali e non mi pare che la risposta alla domanda se essi funzionano sia più vicina. L’ unica cosa che è cambiata è che più  giornali hanno innalzato il muro. Uno mi fa: ‘ma come è possibile che tutte queste persone stiano sbagliando? Lo sanno chiaramente che cosa stanno facendo…’.  Mi sono dovuto trattenere dal ridergli in faccia’’.

 

 

Hebbard1Paywalls: for many newspapers, the paywall remains more about print than digital

di  D.B. Hebbard

(Talking  New Media)

 

La questione dei paywall nei giornali è una di quelle saghe interminabili in cui accade pochissimo e  tutti si affannano intorno a piccoli dettagli.  Ai giornalisti piace parlare di paywall e si dividono in ‘’partiti’’, molto più accesi dei democratici e dei repubblicani al Congresso.
In generale preferisco starmene alla larga. Trovo che questi argomenti siano troppo da giornalisti per essere … divertenti. Raramente la conversazione affronta punti di vista che posso essere presi molto sul serio. Ad esempio  l’ argomento secondo cui il paywall è necessario per compensare le perdite di entrate pubblicitarie potrebbe essere contrastata chiedendo semplicemente: ‘’scusa ma questo dove è accaduto? Quand’ è che un giornale ha compensato le perdite pubblicitarie con la diffusione a pagamento?” Nenche il NYT , che pure ha fatto meglio di tutti gli altri giornali nel campo dei contenuti a pagamento, ha visto aumentare i ricavi totali ad opera del paywall – ma nella migliore delle ipotesi solo a mitigare le perdite pubblicitarie.

 

Essendo un editore mi sembra che il paywall sia come un pugile che si lega la mano sinistra dietro la schiena per combattere: poi se la scioglie e si lega quella destra – e poi  aspetta che le cose migliorino.
Peter Preston dell’ Observer chiede: ma Paton  fa un grande affare  con i nuovi paywall a Digital First Media? Mi sembra un non-evento. Nessuno dei giornali della catena è nella classifica dei primi dieci e l’ attività di un gruppo che ha dichiarato fallimento per due volte negli ultimi tre anni, ed è stato fortemente in ritardo quando si tratta di editoria digitale, mi interessa poco. Quello che vedo è solo un disperato tentativo di attenuare le perdite continue di entrate pubblicitarie, e poco più.

A mia moglie, ex venditrice di spazi pubblicitari dei giornali (…), un addetto alla pubblicità della Western newspaper ha raccontato che lo spazio per le inserzioni è calato soprattutto a causa dei paywall: è difficile vendere digitale col calo dei lettori online.
Ci sono molte ragioni per cui gli editori mettono i loro paywall , ma sono convinto che l’unica vera ragione per cui lo fanno è che lo stanno facendo anche gli altri. Pochi ci credono davvero e sono quelli che li hanno messi da tempo. Ma gli altri gli vanno dietro soltanto perché non sanno che altro fare.

Sono convinto che i paywall abbiano a che fare più con la carta che con il digitale . Ancora oggi, per molti editori il loro prodotto principale rimane il giornale cartaceo, e considerano i loro siti web come delle semplici estensioni della testata stampata, e quindi far pagare per l’ accesso all’ on-line sembra avere un senso. E infatti, all’ inverso, c’ è stato qualche giornale gratuito che ha messo il paywall?

In effetti, alcuni considerano che la relazione tra carta e digitale sia talmente stretta che stanno pensando di dare gratis anche la carta perché ritengono che il futuro sia nell’ accesso gratuito all’ informazione.

 

La mia posizione non è cambiata in tre e più anni di pubblicazione di TNM (‘’Talking New Media’’): il paywall funzionerà per i giornali economico-finanziari, sono convinto di questo;  per gli altri ho dei seri dubbi. Il motivo è semplicemente il valore dei lettori che vengono convogliati sulla notizia. Dove sono in gioco investimenti in soldi, l’ informazione è incredibilmente preziosa. Ciò vale anche in alcuni casi B2B : per esempio, le notizie sulle offerte immobiliari sono di vitale importanza e una pubblicazione che le inserisse nei propri siti web potrebbe chiedere un pagamento per l’ accesso senza troppi problemi.

Nel campo dei siti web dei giornali bisogna valutare le proprietà dell’ offerta digitale. I siti di Digital First Media e le loro applicazioni mobili, hanno un valore molto modesto . Pagare per accedere probabilmente non funzionerà, se la mia teoria tiene . Ma per quanto riguarda il New York Times, il Washington Post e altri giornali importanti? Dipende, vero ? Se vivo nell’ area di Washington e lavoro per il governo o per una società di lobbying, il WaPo è vitale. Se invece ho un negozio di alimentari ad Alexandria  forse non sarà così indispensabile. (Pago per il New York Times perché le mie abitudini di lettura mi hanno dimostrato che l’ accesso illimitato vale il prezzo pagato . Ma non pago per l’ app dell’ edizione cartacea sull’ iPad perché non mi ha ancora indicato il suo reale valore aggiunto.)
Ogni sei mesi scrivo uno di questi articoli sul paywall nei giornali e non mi pare che la risposta alla domanda se funzionano sia più vicina. L’ unica cosa che è cambiata è che più  giornali hanno innalzato il muro. Uno mi fa: ‘ma come è possibile che tutte queste persone stiano sbagliando? Lo sanno chiaramente che cosa stanno facendo…’.

Mi sono dovuto trattenere dal ridergli in faccia’’.