Giornalismo digitale in Italia: nelle redazioni domina ancora la ‘’carta’’ ma la talpa del cambiamento sta scavando

Report-copNella grande maggioranza, le redazioni online più strutturate (sia quelle native che quelle di testate ‘’tradizionali’’) considerano il digitale più come uno strumento tecnico/tecnologico che come un nuovo modo di fare giornalismo, un modo che forzi il paradigma culturale del giornalismo tradizionale, in cui l’ organizzazione e le gerarchie interne restano sostanzialmente quelle della carta.

 

E’ uno dei dati più rilevanti  della ricerca sul giornalismo online in Italia che il Gruppo di lavoro sui ‘’Giornalismi’’ del Consiglio nazionale dell’ Ordine dei giornalisti ha presentato in apertura di Digit20014.

Anche nel caso di molte delle testate native, infatti,  la cultura della carta (quell’ insieme di valori, di rapporti gerarchici e di pratiche che hanno dominato il processo di produzione giornalistico dagli inizi del ‘900)– domina in modo incontrastato.

E infatti in molte di queste testate  la tendenza sembra essere quella di ‘’preservare le funzioni giornalistiche tradizionali e di evitare qualsiasi ‘contaminazione’ ‘’.

 

Ma, anche se in modo minoritario, sia in alcune testate native, come Post o VareseNews, sia in alcune redazioni ‘’tradizionali’’ si segnalano dei cambiamenti che fanno pensare a un processo di trasformazione nel concreto della cultura e della pratica giornalistica.

 

 

 

’Il futuro? E’ del giornalismo nel suo complesso (…) Ci sarà sempre più bisogno di giornalisti che non sanno per chi scrivono, ovvero capaci di lavorare per più piattaforme’’.

 

La valutazione è di Giuseppe Smorto , resposabile di repubblica.it, uno dei vari uomini di macchina ed esperti che abbiamo sentito in questa prima fase della ricerca sul giornalismo online in Italia che il Gruppo di lavoro sui ‘’Giornalismi’’ del Consiglio nazionale dell’ Ordine dei giornalisti presenta in apertura di Digit20014.

 

In qualche modo questo iniziale segmento del nostro lavoro di analisi può essere letto come una prima risposta a quella previsione. Il lavoro tenta intanto di capire se è effettivamente in atto – e, in caso affermativo, a che stadio è arrivato – il processo di assimilazione concreta, nel processo di produzione reale, del concetto che il giornalista è colui che produce giornalismi su varie piattaforme e che non esistono gerarchie di supporti.

 

La risposta non è facile e forse, almeno per questa prima fase, il tipo e l’ ampiezza del materiale raccolto non consentono di delineare una risposta univoca o delle indicazioni convergenti.

 

Delle linee comunque vengono fuori. Tenendo conto che questa prima fase della ricerca ha affrontato l’ analisi della situazione delle redazioni più strutturate (sia quelle native che quelle di testate ‘’tradizionali’’), l’ aspetto più rilevante, forse, è che nella grande maggioranza le redazioni osservate considerano il digitale più come uno strumento tecnico/tecnologico che come un nuovo modo di fare giornalismo. Un modo che forza il paradigma culturale del giornalismo tradizionale, in cui l’ organizzazione e le gerarchie interne restano sostanzialmente quelle della carta.

 

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Anche nel caso di molte delle testate native – e forse l’ esempio più paradigmatico è quello di Affari italiani – le redazioni conservano per molti versi la strutturazione tipica della carta, con una rigida divisione fra lavoro giornalistico e attività tecnica e l’ adozione delle gerarchie tipiche degli spazi produttivi tradizionali. Nelle redazioni più strutturate la cultura della carta (quell’ insieme di valori, di rapporti gerarchici e di pratiche che hanno dominato il processo di produzione giornalistico dagli inizi del ‘900)– domina in modo incontrastato.

 

Insomma, pur essendo native, in molte di queste testate la tendenza sembra essere quella di ‘’preservare le funzioni giornalistiche tradizionali e di evitare qualsiasi ‘contaminazione’ ‘’.

 

Ma, anche se in modo minoritario, sia in alcune testate native, come Post o VareseNews, sia in alcune redazioni ‘’tradizionali’’ si segnalano dei cambiamenti che fanno pensare a un processo di trasformazione nel concreto della cultura e della pratica giornalistica. Per esempio il rifiuto – teorizzato e praticato dalla testata diretta da Luca Sofri – di continuare a tenere separate le attività giornalistiche da quelle tecniche. ‘’Non distinguiamo più i ruoli’’, spiega Sofri. O, altro esempio, la presenza a VareseNews di figure ‘’ibride’’, cioè di giornalisti che svolgono anche funzioni tecniche.

 

D’ altronde lo spiega bene Andrea Iannuzzi, direttore di AGL: i giornalisti dell’ agenzia dei giornali locali della Finegil svolgono ‘’ tutte le funzioni anche tecniche dell’ online. E’ un settore di per sé stesso molto contaminato e i giornalisti digitali hanno una formazione più tecnica rispetto a quella del tradizionale giornalista su carta’’.

 

Il quadro che emerge dall’ analisi del funzionamento e dell’ organizzazione delle redazioni digitali (status giornalistico e professionale, cicli e tempi di produzione, fonti, problemi di errori e rettifiche, politica dei link e dei commenti, utilizzo dell’ UGC, ecc.) conferma per molti versi la descrizione dello stato delle cose che viene proprio da Iannuzzi:

 

Quello delle testate tradizionali mi pare ancora troppo legato alla cultura della carta, che da noi ha un ruolo politico molto più rilevante che altrove. E’ un giornalismo ancora conservatore, legato ai vecchi schemi.

Il giornalismo digitale nativo è invece molto acerbo: in fondo le testate dipendono molto dalle agenzie di stampa, dal flusso mainstream tradizionale. E’ piuttosto gracile.

E la causa, probabilmente, è che non ha ancora trovato dei nuovi editori.

 

 

Racconta ancora Iannuzzi:

 

Le due strutture (carta e web) si sono fuse in un’ unica redazione e si è avviato un processo di integrazione sul piano tecnologico, dei processi produttivi e delle culture proprie dei due mondi. La fusione è già a buon punto, anche se a livello di desk le funzioni di gestione sono ancora separate, anche per conservare alcune competenze in qualche modo distintive. In ogni caso la scrittura e il racconto in generale sono già pienamente contaminati.

Si va verso una integrazione piena, in parallelo con quanto avviene nelle redazioni delle testate locali.

Quindi non c’ è una redazione web: c’ è qualche specialista, è chiaro, ma in generale tutti fanno tutto.

 

Insomma, nonostante una prima sensazione di egemonia a tutto campo della ‘’carta’’ (con tutto l’ apparato ideologico e culturale che questo rappresenta), qualcosa si comincia a muovere.

 

A parte il manifesto e Il Sole 24 ore che hanno redazioni totalmente integrate, le redazioni degli altri quotidiani on-line, ad esempio, pur essendo autonome da quelle della testata “madre”, presentano delle forme di integrazione parziale in alcuni settori. Al Corriere.it, per esempio, è integrata la redazione della pagina economica. Il Secolo XIX ha un desk web autonomo, ma il lavoro di produzione è integrato. In più, le riunioni di redazione si aprono solitamente con le questioni relative al web e il giornale ha un team di videoreporter “specializzati” soprattutto nella cronaca nera, che – spiega Diana Letizia – lavora in maniera crossmediale col web.

 

L’ AGL tra l’ altro è forse, tra quelle analizzate, la redazione dove l’ integrazione fra piattaforme diverse è più avanzata.

 

Ma il processo di integrazione è in fase avanzata anche in un’ altra testata classica, l’ Agenzia Ansa.

 

Spiega Massimo Sebastiani, redattore capo centrale e responsabile del sito ansa.it :

 

La redazione online è autonoma dal punto di vista produttivo, ma nello stesso tempo ‘’parzialmente integrata’’: politica, economia e contenuti per il web li produce la redazione web, mentre esteri, sport, cultura e tecnologia li realizzano le redazioni specifiche.

 

 

Aspetti di forte integrazione fra le redazioni o di scomparsa delle distinzioni fra l’ ambiente ‘’tradizionale’’ e quello digitale sono chiaramente presenti nella redazione di Famiglia Cristiana o di Internazionale, dove i giornalisti lavorano sia per il cartaceo che per l’ online, o anche al TgCom24, dove, pur essendo la redazione autonoma dalle altre testate di Mediaset, lo scambio di inforazioni e materiali ‘’è fitto e continuo’’, tanto che il processo viene definito come un ‘’sistema multimediale integrato’’.

 

Complessivamente, comunque, la sensazione è di un momento di passaggio i cui tempi non sono ancora chiari, nonostante che il giornalismo digitale abbia già altre 15 anni di vita.

 

Ed è difficile anche dire se il processo sia in fase di accelerazione o meno. Dice ad esempio Iannuzzi:

 

‘’La situazione è in continua evoluzione e il dato dominante è quello della sperimentazione. Quello che diciamo oggi fra sei mesi potrebbe non essere più valido. Le cose teorizzate ora possono cambiare, essere smentite, per cui è in atto un continuo aggiustamento. E non ci possiamo fermare e ripartire daccapo, dobbiamo essere disposti a cambiare subito, mentre siamo in movimento….’’

 

Il tasso di innovazione comunque non sembra sia molto accentuato, anche nelle forme istituzionali della professione giornalistica.

 

Se si eccettua F5 – agenzia indipendente che produce materiali giornalistici ma non è una testata depositata (una cooperativa costituita da quattro giornalisti) e ha una assoluta mancanza di gerarchia interna (ogni socio segue un progetto e il ciclo di produzione si adegua alle esigenze del progetto, senza nessuna rigidità nel processo di produzione) – la gran parte delle testate esaminate riprendono quasi interamente le cadenze produttive e l’ organizzazione del lavoro delle redazioni tradizionali.

 

Nelle testate native, ovviamente, la stratificazione in termini di qualifiche è molto meno accentuata e il lavoro è molto più orizzontale.

 

Ma in generale i punti di analogia nel ciclo produttivo sembrano più rilevanti di quelli di eccentricità.

 

E identica è la posizione sul fronte dei ricavi: nessun ‘’paywall’’, tutto si basa sostanzialmente sulla pubblicità.

 

Sui social si registra una posizione sostanzialmente convergente fra testate native e testate ‘’tradizionali’’: tutti seguono i social, con qualche caso di addetto specifico alle reti sociali (fisso o a turno). O, come nel caso del SecoloXIX, con un’ agenzia di consulenza che fa community managment.

 

I materiali provenienti dagli utenti (il cosiddetto UGC, user generated content) in generale vengono considerati più che altro come degli spunti per eventuali servizi affidati a redattori invece che come materiale redazionale frutto di una conversazione specifica con il pubblico. Si distinguono però FanPage, che ha creato una piattaforma specifica e VareseNews, che, come testata iperlocale, punta molto sul rapporto con i lettori, con varie modalità.

 

FanPage tra l’ altro ha oltre 300 blogger e questo di fatto è un ulteriore sistema di integrazione con i materiali prodotti dal pubblico e da esperti di nicchie varie.

 

Anche la posizione a livello dei commenti non presenta delle distinzioni rilevanti fra testate tradizionali e native. L’ impressione è che in generale i commenti siano considerati un qualcosa in più, ‘’che ci deve essere ma che alla fine sono una seccatura’’, e non una risorsa per costruire un rapporto più maturo e articolato con il pubblico.

 

Le fonti sono le stesse – quelle tradizionali, con in più i social – per tutte le testate. Solo Sofri dichiara senza alcun problema:

 

–          Non abbiamo abbonamenti alle agenzie. Solo per le foto ci rivolgiamo a delle agenzie. Per il resto usiamo la Rete.

–          Per il ventaglio di temi di cui ci occupiamo noi le agenzie non servono; sono competitive in cose di che di solito non ci servono, come tutto il settore del dichiarazionificio, ecc.

–          Per i temi internazionali lavoriamo molto con Twitter.

–          Insomma avremmo bisogno delle agenzie solo in occasioni rare e quindi non valgono i costi.

 

Contrapposizione – ma trasversale – invece per quanto riguarda i link, con le testate divise nettamente in due fronti. Chi – come Affari italiani – tende ad evitare link all’ esterno (‘’per non regalare visitatori alla concorrenza’’) e chi invece – come Ansa o il Post – considera i link all’ esterno come un contributo alla ricchezza e allo spessore qualitativo dell’ offerta informativa.

 

In generale la contrattazione è quella prevista dal Contratto nazionale di lavoro Fieg-Fnsi, tranne che a VarerseNews (dove viene applicato il contratto Aer-Anti-Corallo) e a Leonardo e Fanpage, dove gli addetti sono per la maggior parte ‘’liberi professionisti’’.

 

Anche se Pier Luca Santoro fornisce una ampia serie di dati e di considerazioni sull’ andamento economico del settore, restano un po’ sullo sfondo – come in altre ricerche sul giornalismo e l’ editoria in Italia – due questioni rilevanti e intrecciate: la figura e il ruolo dell’ editore e i problemi di sostenibilità economica (a proposito, nessuna delle testate analizzate ha forme di paywall, se si esclude ilManifesto, ma è un paywall di tipo ‘’poroso’’) e di cultura industriale dal versante impresa.

 

Un accenno a questo secondo aspetto viene da Beppe Smorto, che dice:

 

In pochi anni saremo finiti se non riusciremo a far capire ai nostri lettori che il prodotto non può essere gratuito

Ma, dal Manifesto, Matteo Bartocci osserva:

 

I siti italiani dei quotidiani sono completamente diversi dagli altri siti del mondo. Non esiste che sul Guardian ci sia la foto dell’animaletto triste…è molto difficile

È una strategia molto italiana che ha poca fiducia nel pubblico e che puntando tutto sulla quantità di traffico abbassa la qualità e soprattutto addestra milioni e milioni di persone a pensare che quel contenuto sia gratuito, cosa che non è vero. Perché come ogni editore sa, le spese sul digitale ci sono mentre il lettore è abituato a credere che su internet si legge gratis. Non so come torneranno indietro, cioè quando caleranno i ricavi pubblicitari da internet cosa faranno… Cominceranno a far pagare ma hanno addestrato loro, proprio i grandi giornali, milioni di persone a pensare che lì ci vai dieci minuti, leggi notizie, te ne vai e non esiste mai che pagherai qualcosa… Qui secondo me è una scelta editoriale di corto respiro’’.

 

Secondo Bartocci, insomma, con il digitale gli editori hanno commesso lo stesso errore strategico compiuto con i cosiddetti ‘’allegati’’.

 

Io penso che gli editori italiani abbiano sbagliato completamente la strategia sul digitale. Non lo dico per arroganza, ma perché secondo me è abbastanza oggettivo come quando un po’ di anni fa tutti i quotidiani facevano i dvd o le enciclopedie. Sembrava che se non facevi un dvd in edicola non vendevi il giornale. Per tanti anni ha funzionato: ci guadagnavi e ci facevi un sacco di soldi. In realtà in tanti anni hai svalutato tanto i tuoi contenuti, hai svalutato molto la tua redazione e abituato il lettore a pensare che il quotidiano sia quasi un allegato all’enciclopedia di quell’anno e dopo cinque anni di quel modello lì non è restato niente.

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Criteri, metodologia.

 

Questo primo Report intendeva dare un quadro descrittivo della consistenza, struttura, articolazione delle redazioni digitali ‘’strutturate’’, sia native che appartenenti a testate tradizionali.

 

Il campione è stato formato scegliendo alcune testate per tipologie editoriali:

 

–          Quotidiani: Corriere della Sera, Corriere dello Sport, Giornale, Giornale di Sicilia, Mattino, Messaggero, Quotidiano nazionale, Repubblica, Secolo XIX, Sole24 ore, Stampa.

–          Testate native: Affari italiani, FanPage, Il Post, Leonardo.it, LiveSicilia, Varese News

–          Settimanali: Espresso, Famiglia Cristiana, Internazionale

–          Agenzie: AdnKronos, AGL, Ansa, F5

–          Tv e radio: Radio Capital, Radio Radicale, TgCom24,

 

I materiali contenuti in questo primo Rapporto sono stati raccolti sulla base di un questionario articolato in due testi diversi (a seconda se si trattava di testate native o meno). I questionari vengono allegati in appendice.

 

In alcuni casi il questionario è servito da base per un colloquio diretto, fisico, con i responsabili delle redazioni digitali. In altri casi è stato compilato a distanza e inviato via mail.

 

I risultati di questa indagine costituiscono il corpo centrale del Report, che presentiamo a Digit.

 

Essi vengono preceduti da una serie di dati quantitativi generali sul giornalismo digitale in Italia, a cura di Pier Luca Santoro, e seguiti da articoli e interviste sull’ informazione online ad alcuni protagonisti e osservatori del mondo dei media online italiani:

 

–          Matteo Bartocci (Manifesto)

–          Marco Giacomelli (Varese News)

–          Beppe Smorto (Repubblica)

–          Mafe De Baggis

–          Giovanni Boccia Artieri

–          Luca Conti

–          Sergio Maistrello

–          Stefano Quintarelli

 

 

I passi successivi

 

La seconda parte del lavoro del Gruppo ‘’Giornalismi’’ del Cnog cercherà di affrontare l’ analisi del giornalismo digitale ‘’diffuso’’: le piccole strutture locali, di nicchia, diffuse, che costituiscono probabilmente la parte più rilevante dell’ informazione online.

 

Infine, la terza parte dell’ attività del gruppo sarà dedicata agli aspetti economici e industriali dell’ editoria giornalistica digitale in Italia.

 

 

Il Gruppo di lavoro

 

I materiali di questo Report sono stati raccolti da Fabio Amoroso, Paola Cascella, Carmen Lentini, Franco Nicastro, Andrea Pattaro, Pino Rea, Pier Luca Santoro, Alessandro Savoia del Gruppo di lavoro del Cnog ‘’Giornalismi’’.

 

Hanno collaborato anche gli altri componenti del Gruppo: Antonella Cardone, Mario Derenzis, Andrea Morigi e Mario Rebeschini.

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Il testo completo del Rapporto è qui