Turchi meccanici

Correva l’anno 2011, e nel giorno 17 novembre su questo medesimo blog/giornale usciva un pezzo dedicato ad un fantomatico sistema di analisi dei nostri discorsi e comportamenti online. Un sistema “globale”.  Roba algoritmica. Al tempo ancora quasi non si parlava di algoritmi. Non a livello generalista. Nell’articolo dal titolo, a dire il vero, piuttosto criptico:  “CrowdControl, intelligenza artificiale e giudizio umano per valutare l’ affidabilità delle informazioni in crowd-sourcing”, si ragionava, partendo da un articolo dell’ Editor’s weblog, di : “Un software che permette di giudicare l’accuratezza delle informazioni ottenute tramite il lavoro di produzione collettivo (il crowd-sourcing) combinando i sistemi più avanzati di intelligenza artificiale con la elasticità di messa a fuoco del giudizio umano”.  Un sistema di spionaggio realizzato attraverso l’AI, insomma niente di nuovo sotto al sole giaguaro, per dirla con Calvino, ma che all’epoca – eravamo molto più ingenui – ancora non ci appariva tale, anzi, ci spingeva avanti alla ricerca di nuove tecnologie in nome del progresso e di “un mondo migliore”. Perdonate l’amara chiosa, ma visto come è andata a finire con le OTT e il capitalismo della sorveglianza, forse potevamo essere un tantino più accorti. Bando alle riflessioni amare, la parte che ci interessa  estrarre dall’articolo, e della quale vorremmo parlare oggi, dieci – e dico dieci – anni dopo, è quella dedicata ai : mechanical turk. Ovvero? Nel pezzo in questione, il termine veniva inserito ad un certo punto della narrazione per formulare questa definizione:

 

 

Mechanical Turk, una piattaforma di Amazon che ‘’esplora’’ le analisi realizzate col crowd-sourcing utilizzando 500.000 lavoratori, localizzati in 190 paesi, che sondano i social media.

 

 

Definire i turchi meccanici. Questo è il problema. Parafrasando Amleto e soprattutto Shakespeare – si scherza lo sapete – proviamo a declinare il ruolo, lo scopo;  e la fenomenologia ad essi applicata. In un altro nostro pezzo d’archivio, troviamo il lavoro certosino di Marco Dal Pozzo sulla gig economy e su lavoro e sfruttamento:

 

 

Il Prof. Valerio De Stefano ha fatto una recensione al libro di Roberto Ciccarelli, “Forza Lavoro”.

Il grande equivoco è pensare che dietro un ordine fatto tramite una applicazione non vi sia il lavoro di  esseri umani e che, quindi, non ci sia il problema della difesa dei diritti dei lavoratori. C’è il problema dell’invisibilità: bisogna rimarcare che il lavoro non è una tecnologia“.

De Stefano “Gig Economy:

“Crowdwork”: lavoro online (lavori di traduzioni, scrivere recensioni, scrivere articoli, commenti: ci sono piattaforme attraverso le quali si danno in outsourcing questo tipo di lavori). 2.5 dollari all’ora ad esempio su Amazon Mechanical Turk .

 

 

Eccoci ancora una volta a parlare della piattaforma di lavoranti online concepita e realizzata da Amazon più di dieci anni or sono. Come segnalavamo nel nostro post del 2011. Dunque dopo aver ampiamente dimostrato che i turchi meccanici esistono. Proviamo ora a stabilire cosa fanno e chi sono e come mai si chiamano in questo modo? Iniziamo dalla definizione di “turco meccanico” che estraiamo dal testo di Luciano Floridi “La quarta rivoluzione”.

 

 

Un’altra applicazione di successo nella computazione basata sull’uomo è offerta dal servizio Amazon Mechanical Turk. Il nome deriva dal celebre automa capace di giocare a scacchi costruito da Wolfgang von Kempelen (1734-1804) nella seconda metà del XVIII secolo. L’automa divenne celebre battendo persone come Napoleone Bonaparte o Benjamin Franklin e lottando alla pari con un campione come François-André Danican Philidor (1726-1795). Tuttavia, si trattava di un falso, poiché albergava al suo interno uno scomparto in cui si nascondeva un giocatore umano che ne controllava le operazioni meccaniche. L’Amazon Mechanical Turk utilizza un trucco simile. Amazon lo definisce come un sistema d’“intelligenza artificiale  artificiale”. Si tratta di un servizio web di crowdsourcing che permette ai cosiddetti “requester” (richiedenti) di avvalersi dell’intelligenza di operatori umani, definiti “provider” (fornitori) o, più informalmente, “turker”, per realizzare compiti definiti HIT (Human Intelligence Tasks, compiti che richiedono intelligenza umana), che i computer non sono tuttora in grado di svolgere. Un richiedente posta un HIT, come può essere trascrivere una registrazione audio o taggare i contenuti negativi di un film (due esempi concreti). I “turker” possono navigare, scegliere tra HIT esistenti e svolgerli ottenendo la ricompensa offerta dal richiedente. Al tempo in cui il libro è stato scritto, i richiedenti dovevano essere enti con sede negli Stati Uniti, ma i “turker” potevano avere sede ovunque. I richiedenti possono verificare se i “turker” possiedono determinate qualità prima di affidare loro un HIT. Possono anche accettare o rifiutare il risultato fornito dai “turker” e ciò incide sulla reputazione di questi ultimi.

 

 

 

Un fenomeno quello dei “turchi meccanici” che è già stato indagato, da qualche collega giornalista, ad esempio, sul Manifesto,  grazie a Clara Mogno,  in un pezzo pubblicato nel 2018 intitolato “Ho lavorato come turca meccanica per Amazon” da cui estraiamo un passaggio, a nostro avviso,  molto significativo:

 

 

Ho lavorato come turca meccanica per Amazon. Con il mio computer ho messo a disposizione la mia umanità per Amazon Mechanical Turk, il servizio di micro-lavori digitali creato da Jeff Bezos nel 2005. Per circa 40 ore mi sono occupata di riconoscimento di immagini, lettura di scontrini e trascrizioni di registrazioni audio varie guadagnando quasi 15 dollari. Non ho solo registrato e analizzato ricevute di un’enoteca del Wisconsin. Ho anche insegnato ai robot a essere più umani valutandone, positivamente o negativamente, dizione, pronuncia e intonazione nella lettura di brevi testi: quello che mi era richiesto era infatti di valutarne l’artificialità. Ad alcuni poi ho insegnato a salutare, aprire bottiglie e annuire registrando video. 

 

 

Questa dei turchi meccanici è una parabola di “utilizzo” – chiamiamola così eufemisticamente –  che “serve”,  e parecchio, ai signori delle piattaforme per mettere a punto le tecnologie dell’Intelligenza Artificiale di ultima,  e ultimissima generazione. Roba che si chiama “machine learnig”, “deep learning” e che fa largo uso del “potenziale umano”, in modo in genere non proprio trasparente, per accrescere la capacità delle macchine di autoapprendere. Per arrivare – chissà, forse – ad autoprogrammarsi. Vedere alla voce computer che vincono altri computer giocando a scacchi senza avere nessuna precedente programmazione precaricata in memoria sul gioco degli scacchi,  ma solo auto apprendendo durante il gioco stesso. Vedere anche la serie televisiva di Netflix,  –  “per ora” e ancora per poco, fantascientifica,   –  di recente produzione che si intitola NEXT. Dove un computer prende, meglio dire un sistema di macchine artificiali pensanti, impara ad autoprogrammarsi e grazie alla rete, prende il controllo di tutto e tutti. O almeno ci prova. Ma non appena torniamo nel mondo reale, il nostro Marco Dal Pozzo dal suo post “Il lavoro non è una tecnologia” ci fa ancora  notare che è proprio dentro alla tecnologia, che non è neutra e nemmeno casta e pura che vengono tracciate politiche e strategie di sfruttamento dei lavoratori, umani:

 

 

La tecnologia, che dà la possibilità di accedere a queste forme di lavoro con un taglio di costi e con tempi veloci per l’erogazione. Oltretutto il pagamento è “a consumo”, cioè si paga a cottimo senza che vi siano tutele.

 

La forza lavoro “a consumo”: “Prima di internet sarebbe stato davvero difficile trovare qualcuno, farlo lavorare per te dieci minuti e licenziarlo dopo quei dieci minuti. Ma con la tecnologia puoi davvero trovarlo, pagarlo il poco che gli devi e sbarazzartene qando non ne hai più bisogno”. (L. Biewald, ceo di Crowdflower, traduzione di Valerio De Stefano)

Accesso a “Humans as a service” (J. Bezos, Amazon) : Manodopera on demand: la pago solo quando ne ho bisogno.

 

Il punto è che queste idee dell’Human as a service, ci fanno dimenticare che gli umani sono persone, non servizi o tecnologie, che hanno bisogno di tutele e protezioni.

 

 

 

In questo nostro mondo digitale e tecnologico,  in cui le professioni dovrebbero cercare le loro nuove o vecchie funzioni d’uso, più che andare verso super-specializzazioni sempre più di nicchia, come invece il marketing sta provando a convincerci a fare da tempo;  anche i diritti e i doveri dei lavoratori,  devono essere serenamente e urgentemente,  ristudiati e riformulati,  per evitare l’accettazione pedissequa e forzata,  della nascita di una nuova classe di schiavi (magari pure muniti di computer, o bicicletta, o microfono, e/o strumenti vari, spesso anche molto tecnologicamente evoluti) strumenti utili e forse anche innovativi, ma che non ci emancipano anzi ci rendono succubi. Novelli pupazzi meccanici, automi per finta, ma controllati da un burattinaio nascosto: i mechanical turk.

 

Servono dunque nuovi diritti e soprattutto nuovi modelli sociali, (non solo di business),  che sottendano oltre che una buona operatività anche una piena soddisfazione economica, fisica e mentale del lavoratore. Il lavoratore casalingo da terminale, che passa anche 24 ore davanti ad un terminale, per guadagnare 10 o 20 dollari in un giorno, non può in alcun modo essere definito uno “smart worker”, ma nemmeno un “worker”, è, solo e soltanto, un nuovo tipo di  schiavo.

 

E quando ci viene fatto notare che nei paesi in cui questi schiavi della tastiera,  svolgono il proprio operato, queste cifre rappresentano molto più della media dei guadagni dei “lavoratori normali”, non possiamo in alcun modo sentirci consolati o peggio gratificati dall’azione delle multinazionali hi tech che sovrintendono questo specifico tipo di sfruttamento del lavoro. Siamo tutti indignati con le multinazionali che fanno cucire i vestiti, o confezionale le scarpe,  ai bambini del terzo mondo per pochi dollari – anche se sono relativamente tanti  in quei paesi –  dovremmo ugualmente indignarci contro lo sfruttamento indiscriminato dei “mechanical turk”. 

Insomma, tornando al nostro pezzo d’apertura di oltre dieci anni fa, la considerazione che facevamo in  chiusura dell’articolo del 2011,  continua ad essere molto utile e – purtroppo – ancora assai moderna e attuale:

 

 

I social media non sono solo ‘’affari’’, il loro valore nasce soprattutto dal fatto che essi consentono alle persone di costruire relazioni. Insomma – conclude Editor’s weblog – non possiamo permettere che ‘’un sistema di misurazione faccia il lavoro degli uomini’’. O, come Stewart sottolinea, ‘’almeno non in un mondo in cui Justin Bieber (un cantante e musicista canadese di 17 anni,ndr) viene considerato, come ora, l’ essere umano con la maggiore capacità di influenza”.

 

 

 

Ma siccome non ci piace chiudere in calando, o peggio, lasciandoVi tristi e frustrati. Prendiamo a prestito un lungo e articolato contenuto  della Treccani sulla gig economy e i diritti e doveri dei lavoratori,  dentro a questo particolare tipo di economia. Da cui estraiamo questo passaggio, che fa ben sperare per il futuro  e che – a differenza di quello che sta succedendo in Italia dove la questione non è ancora arrivata in Parlamento ma è stata affrontata solo dalla Magistratura – in Francia,  ha portato alla promulgazione di una legge specifica, la Loi Travail, per la tutela dei turchi meccanici e di tutti i lavoratori delle piattaforme. Grazie per l’attenzione e a presto ;)

 

 

 

La Loi Travail francese ha rintrodotto una disciplina specifica del lavoro su piattaforma che riconosce espressamente ai lavoratori autonomi alcuni diritti di previdenza sociale oltre al diritto di formare sindacati e di aderirvi e di intraprendere l’azione collettiva (artt. L. 73411/L. 73426 del Code du Travail). Il testo francese è di particolare importanza perché, pur ricomprendendo tali lavoratori nell’ambito del lavoro autonomo, come del resto i nostri lavori parasubordinati, riconosce loro alcuni diritti tipici del lavoro subordinato.