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Jarvis 5 / Giornalismo come impegno sociale, etico ed educativo

Questo l’ultimo dei cinque articoli di Jeff Jarvis (qui il primo, il secondo, il terzo e il quarto) inclusi in un ampio saggio (in uscita a ottobre) che indaga in profondità, come spiega lui stesso, su “nuovi tipi di relazione, nuove forme e nuovi modelli imprenditoriali per il giornalismo di domani”.
 
Questo articolo si concentra sui nuovi ruoli per giornalisti e testate, come quello di “organizzatori di comunità”, che ne sottolineino l’impegno sociale a tutto tondo, di un’informazione a difesa dei principi etici e a servizio dei bisogni del pubblico – rimanendo comunque “super partes”. Senza dimenticare l’opportunità per i giornalisti di vedersi anche come “educatori”, capaci però di «spingere lettori e comunità a sperimentare, condividere e costruire in autonomia, in base a proprie abilità, desideri e bisogni».

Organizer, advocate, educator

di Jeff Jarvis

(da Medium)

 

“Organizzatore di comunità” suona come la battuta cruciale di una barzelletta su Barack Obama fatta a Fox News. Eppure, se le redazioni devono porsi a servizio delle comunità, non di rado sono chiamate a contribuire all’organizzazione di queste comunità in maniera alquanto pratica: ascoltandone le necessità, attirandone l’attenzione su certi temi, portandole a incontrarsi e confrontarsi, spingendole ad agire e aiutandole a raggiungere i propri obiettivi. Questo sembrerebbe violare il nostro mito professionale dell’oggettività e della distanza, mito per cui (come l’equipaggio di Star Trek) sottostiamo alla Prima Direttiva di non interferire con altre forme di vita, limitandoci a osservarle. Ma la verità è che da tempo le testate d’informazione spingono la gente a prendere l’iniziativa – non è forse questo l’esito auspicato del giornalismo investigativo (le cosiddette crociate), cioè stimolare i lettori a far pressione sulle autorità per specifici interventi, ad avere un impatto sociale, a spingere per il cambiare le cose? Eviterò lo stantio dibattito sull’oggettività del giornalismo e confesso che sul tema ho una ferma convinzione: noi non siamo oggettivi.

 

Se i tradizionalisti del settore non hanno già appallottolato e gettato via quest’articolo (o qualsiasi altra cosa si possa fare, nell’era del post-cartaceo, a un testo elettronico che ci disgusta) di fronte alla mia precedente affermazione che non dovremmo occuparci dei contenuti bensì soprattutto di creare delle narrative, quest’ultima battuta può portarli ad accendere un fiammifero o staccare la spina. Eppure andrò ancora oltre, sostenendo che se non propugna l’impegno sociale allora non è giornalismo. Non è forse la difesa dei princìpi e del bene pubblico il vero banco di prova del giornalismo? Le scelte che noi giornalisti facciamo su quali notizie riportare e come le raccontiamo, rispetto a quel che i lettori devono sapere, sono atti di impegno sociale per conto della gente. Non pensiamo forse di agire nel loro interesse? Per citare James Carey, docente di giornalismo alla Columbia University: «Il bene indiscusso del giornalismo, la sua quintessenza, il termine senza cui quest’impresa non ha senso, è il pubblico”. Quando il Washington Post – il cui ex direttore decise di non votare più alle elezioni per mantenere quel tipo di oggettività professionale – sceglie di fare un’inchiesta sui segreti di Stato o sugli abusi amministrativi ai danni dei reduci di guerra oppure sugli illeciti del presidente e relativi insabbiamenti, allora sta agendo in difesa del pubblico.

 

Quando un direttore incarica i reporter di lavorare sulle truffe ai danni dei consumatori o sulle frodi di Wall Street oppure sull’appropriazione indebita di fondi statali, opera a tutela del pubblico. Quando un giornale si accolla la causa dei poveri, degli emarginati, dei maltrattati o semplicemente quella del cittadino qualunque contro i potenti, sta agendo in loro difesa. Quando i giornalisti che si occupano di medicina ti dicono come evitare il cancro o anche come perdere peso, agiscono in tua difesa. Quando un redattore decide di raccontare un certo reato in un quartiere ma non quelli accaduti in un altro, sta sostenendo gli interessi del primo. Quando il telegiornale parla continuamente delle vincite alla lotteria senza citarne i costi sociali, sta sostenendo la ridistribuzione regressiva della ricchezza collettiva. Potrei affermare che l’impegno sociale riguarda perfino una recensione cinematografica che ti permette di non buttare soldi per un fiasco clamoroso, (anche se oggi non c’è più bisogno delle recensioni per questo – e anch’io le facevo).

 

Come la mettiamo però con un canale TV che invia una troupe o un elicottero per trasmettere il video dell’incendio del giorno senza chiarirne l’impatto complessivo oppure per dettagliare un tragico incidente senza offrirne alcuna lezione utile? È forse a difesa di qualcosa? No. Quando una rete TV – senza con questo voler puntare l’indice contro la TV – dedica ore e ore ai dettagli osceni di un delitto passionale che non tocca certo la nostra vita, possiamo forse considerarlo a difesa di qualcosa? No. Quando un sito online mostra immagini di gattini, è un impegno sociale? Non proprio. Quando un quotidiano spreca risorse per seguire le partite di calcio, sta difendendo qualcosa? Scusate, ma la risposta è no. Quando una testata “racconta” le sciocchezze dei nomi celebri, si tratta qualcosa a favore del pubblico? No. Questi esempi sono forse giornalismo? Nel contesto delineato fin qui, no.

 

Ovviamente ci sono delle limitazioni a questa spinta sociale, altrimenti torneremmo al tempo in cui i giornali erano gli organi dei partiti politici e ne veicolavano gli interessi. Quel che ci distingue dal passato – oltre al sostegno economico garantito dagli inserzionisti – è l’onestà intellettuale e l’indipendenza, l’affermazione dei princìpi etici, la nostra credibilità. È questo che distingue il giornalismo dal semplice impegno sociale. Citando Michael Oreskes, redattore prima del New York Times e poi dell’Associated Press: «Il fulcro sono le pratiche corrette ed etiche; in loro assenza, non è giornalismo». Come esempio di onestà intellettuale citerei il Guardian e la sua cronaca delle rivelazioni di Edward Snowden sulla National Security Agency (NSA). La missione dichiarata testata è quella di essere prima voce liberal al mondo; non c’è impegno sociale più evidente di questo. Eppure la copertura del caso NSA ha messo in seria difficoltà proprio un governo liberal. Quindi il Guardian sostiene la libertà e i diritti individuali e la democrazia di fatto, non certo una parte politica. In quanto entità giornalistica, il Guardian ha dovuto chiedersi se il pubblico avesse il diritto di conoscere le rivelazioni di Snowden, a prescindere da chi potesse avvantaggiarsene (nella misura in cui non ledevano gli interessi del pubblico in termini di sicurezza). Il punto successivo per il Guardian era capire se ciò era un valore aggiunto a livello d’informazione e perché. Ovviamente questo è un altro banco di prova per il giornalismo. Edward Snowden, come Wikileaks, ha fornito una gran quantità di documenti grezzi e segreti. In entrambi i casi, il Guardian vi ha aggiunto valore evitando di pubblicare quel che poteva essere pericoloso, guidando il pubblico nelle rivelazioni e soprattutto aggiungendo la cronaca ai dati grezzi, verificando e spiegando ove necessario.

 

Cos’è quindi quella cosa che chiamiamo giornalismo ma che non propugna impegno sociale o difende i princìpi, che non è a servizio dei bisogni del pubblico? Nel peggiore dei casi è sfruttamento (esca per lettori, vendite o clic). Nel migliore dei casi è intrattenimento. Il primo è peggiorativo, il secondo può non esserlo, perché l’intrattenimento – che sia narrativa giornalistica o un libro, uno spettacolo, un film – può sempre informare e spiegare. Ma se non offre informazioni che la gente possa usare per gestire meglio la propria vita o società, direi che non può considerarsi giornalismo rispetto ai risultati e all’impatto sociale.

 

Il giornalismo come impegno sociale è stato messo insieme al giornalismo come intrattenimento per motivi economici: l’intrattenimento può attirare la gente verso un certo medium e contribuire a sostenerne le spese. È stato forse un errore metterli in un’unica categoria? Se un quotidiano fa informazione, va considerato giornalismo tutto ciò che producono suoi redattori? No. Corollario: chi non è giornalista può comunque fare giornalismo. Ciò riguarda il valore distribuito, non una qualifica professionale.

 

Perché non sposare quindi la causa dell’impegno sociale e assicurarci di farne buon uso? Perché non misurare i risultati e l’impatto di tutto il nostro lavoro in base a quanto si riesce a ottenere? Perché non fare partnership con le comunità e usare le nostre competenze per aiutarle a raggiungere loro obiettivi (e impegnarsi a tutelarli)? Se facciamo così, poi il nostro successo sarà misurato dall’apporto concreto offerto alla comunità per raggiungere i suoi obiettivi, ripensando adeguatamente la definizione del nostro lavoro e i requisiti necessari.

 

Dobbiamo usare o creare piattaforme che permettano alle comunità di esplicitare e identificare i propri obiettivi. A un livello elementare, l’hashtag #occupywallstreet era solo una piattaforma senza grande significato fino a quando sono stati gli stessi membri della comunità nata attorno a quell’hashtag a riempirlo di significato. Grazie a piattaforme più complesse, i vari gruppi potrebbero raggiungere obiettivi di maggior portata.

 

C’è un altro ruolo da mettere in elenco: forse i giornalisti dovrebbero vedersi come degli educatori. Ovviamente questo non vuol dire che siano dei relatori intenti a trasmettere dal placo un flusso unidirezionale verso un pubblico passivo. Un vero educatore spinge gli studenti a sperimentare, a condividere e costruire in autonomia, in base a proprie abilità, desideri e bisogni. Dopo aver individuato le necessità individuali o collettive, i giornalisti e le annesse testate potrebbero così insegnare loro come soddisfarle. Concetto che, come per buona parte di quanto esposto finora, non è affatto nuovo. Da tempo il giornalismo come servizio va suggerendo ai lettori come raggiungere i loro obiettivi: trovare un nuovo lavoro o ottenere il mutuo sulla casa, usare una nuova tecnologia, capire meglio un problema. La novità è che oggi Internet offre chiari riscontri per vedere se siamo riusciti a far progredire la conoscenza e la comprensione. Come un buon insegnante, dobbiamo chiederci se il nostro lavoro fa sì che gli utenti e le comunità siano meglio informate, più sagge e capaci di raggiungere i loro obiettivi, di sviluppare il proprio potenziale.

 

Dopo aver ristretto la mia definizione di giornalismo, consentitemi di ampliarla nuovamente prima di delineare le nuove forme di giornalismo. Come detto sopra, il giornalismo aiuta le comunità a organizzare le loro conoscenze per potersi auto-gestire meglio. Scenario sempre valido. Se poi la cronaca di una partita di calcio possa considerarsi giornalismo, forse è meglio discuterne al bar.

 

(traduzione a cura di Valentina Barbieri)

 

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