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Jarvis 4 / Stimolare coinvolgimento e partecipazione dei lettori

Questo il quarto dei cinque articoli di Jeff Jarvis (qui il primo, il secondo e il terzo) che fanno parte di un ampio saggio (in uscita a ottobre) che indaga in profondità, come spiega lui stesso, su “nuovi tipi di relazione, nuove forme e nuovi modelli imprenditoriali per il giornalismo di domani”.

 

Questo articolo è dedicato alla centralità del coinvolgimento e della collaborazione dirette del pubblico, dell’ex-lettore, nel processo di produzione dell’informazione in senso lato, sottolinenando strumenti e modalità alla portata delle redazioni online  per creare legami più profondi e utili (anche rispetto ai nuovi business model  possibili) tra le comunità di riferimento e i giornalisti stessi.
 

 

Engagement, collaboration, and membership

di Jeff Jarvis
 
(da Medium)
 
 
Una delle principali crisi che devono affrontare le redazioni — beh, oltre a business model bloccati, estrema competizione e fiducia in calo  — è il coinvolgimento dei lettori. I dati sono drammatici: secondo l’associazione di categoria WAN/IFRA, nella navigazione online solo il 6,7% riguarda visite a siti d’informazione, coprendo appena il 1,3% del tempo impiegato sul web e solo lo 0.9% delle pagine visitate. Nel 2012, prosegue l’associazione, il coinvolgimento dei lettori digitali era il 5% rispetto a quelli della carta stampata (è quindi una coincidenza il fatto che i ricavi del mondo digitale siano il 5% di quelli del cartaceo?). Durante un’indagine sui nuovi business model per il giornalismo in corso alla CUNY, abbiamo scoperto che in genere i siti di notizie ricevevano una dozzina di visite per pagina al mese per utente. Facebook raggiunge lo stesso livello ogni giorno. Consideriamo inoltre che, con l’introduzione dei contenuti a pagamento, il New York Times consentiva la consultazione gratuita di 20 pagine per mese, soglia poi ridotta a 10 per aumentare il numero di utenti che arrivavano quantomeno a visualizzare la richiesta di pagamento. Questi lettori – circa il 5% del totale – sono considerati “fedeli”. Per cui oltre il 95% degli utenti del Times visitavano meno di 10 pagine al mese – e questo rispetto al meglio di quanto può offrire il giornalismo. Meglio perciò non farsi illusioni sul reale coinvolgimento del pubblico con l’informazione.
 
Badate bene, queste non sono altro che le unità di misura più superficiali, relative alla semplice visualizzazione e al tempo trascorso su una pagina con contenuti creati da noi giornalisti. Andrew Kohut del Pew Research Center si è detto dispiaciuto (lo sono anch’io) per il tempo minimo che soprattutto i giovani dedicano alle news. Ma per come la vedo io, non sono affatto sicuro che sia poi così negativo che i giovani dedicano poco tempo all’attualità. Potrebbe semplicemente voler dire che sono più abili a trovare le notizie che cercano.
 
In ogni caso, le vecchie definizioni di coinvolgimento sono ormai insufficienti. Oggi esistono tanti strumenti migliori e più completi per coinvolgere coloro a cui forniamo dei servizi. Vediamo alcune delle possibilità disponibili:
 
Conoscenza: proviamo semplicemente a sapere qualcosa di più sul lettore. È questo il dato di partenza per ogni relazione umana: il riconoscimento. Torniamo alla raccolta dei piccoli dati menzionati nel secondo articolo: c’è forse un sufficiente livello di fiducia?, ci sono abbastanza buone ragioni perché il lettore si identifichi con i contenuti proposti (chi è, dove vive e lavora, cosa ama fare, i suoi interessi, se ha figli, e così via..)?
 
Non conta quanti “visitatori unici” ci sono, ma piuttosto quante persone conosciamo? Quanti motivi abbiamo offerto loro per manifestarsi? È possibile migliorare i nostri servizi a seguito di questo conoscenza? È sicuramente questa la base di partenza per stimolare il coinvolgimento.
 
Discussione: dopo gli utenti unici e le visualizzazioni, sono i commenti l’unità di misura più imperfetta per il coinvolgimento. Il problema del vantarsi di quanti commenti ha un forum o un articolo è che troppo sono poche persone a firmare la grande maggioranza dei commenti, togliendo spazio degli altri e determinano il clima della discussione (spesso tra l’incivile e lo spaventoso). Damo un’occhiata a un articolo dell’Huffington Post su un tema particolarmente caldo o alla sezione del sito del Guardian chiamata Comment is Free: centinaia, se non migliaia di commenti, che impossibili da leggere, e quindi cosa se ne ricava? Qualcuno potrebbe dire che se non altro centinaia di persone si sono interessate a un argomento al punto da avere un’opinione al riguardo e che la redazione ha dato loro quest’opportunità. Ma chi commenta può essere poco indicativo del pubblico più generale. E inoltre, nel misurare il merito sia del dialogo che del coinvolgimento reale, dobbiamo cercarne il valore – l’intelligenza, il dibattito ragionato, il contributo in termini d’informazione e competenza – e non il mero volume, nelle varie accezioni di questo termine.
 
Quando il Guardian ha creato la pagina di opinioni Comment is Free, è stato sconvolto (come molte altre redazioni) dalla cattiveria di buona parte del confronto. I redattori hanno imparato in fretta che bisognava dedicare più risorse a controllare i troll, a stroncare commenti fuori tema o rudi e a disattivarli per alcuni argomenti inevitabilmente infuocati (come la questione mediorientale), per fare piazza pulita nel vicinato. Ho notato anche un’aspettativa sbagliata rispetto al senso dei commenti. Per i giornalisti un articolo online aveva gli stessi standard di uno cartaceo, rispetto al valore delle parole, alla verifica dei fatti, all’inaccettabilità della maleducazione (senza neppure la foglia di fico dello humour britannico). Ma il nostro primo errore è stato quello di considerare Internet come uno strumento e quanto veicolava come il contenuto. No, la Rete è l’angolo di strada o il bar in cui la gente si ritrova a chiacchierare. Cosa che ha un suo valore: ascoltare le opinioni del pubblico, capire cosa pensa la gente, essere aperti, creare dei legami. E quindi i commenti sono utili, pur se il coinvolgimento non si limita certo a quelli. A dirla tutta, i commenti sono imperfetti come concetto, implicando che non vogliamo sentire la tua opinione fin quando noi non abbiamo finito il nostro lavoro e poi noi ci degneremo di permetterti di dire qualcosa  –  ma solo quando avremo lasciato la redazione e probabilmente non staremo ascoltando. I commenti sono una forma più bassa di coinvolgimento. Esiste una forma più alta, ovvero:
 
Collaborazione: lavorare insieme ai lettori per raggiungere un obiettivo importante ha ovviamente maggior valore rispetto alla mera chiacchierata e incrementa la stima della comunità come collaboratrice.
Una forma di solito assunta dalla collaborazione è il crowdsourcing, che può portare a buoni risultati ma rivelarsi altresì una forma intrinsecamente condiscendente, che coinvolge solo tardivamente il pubblico nella filiera per affermare qualcosa già decisa dai giornalisti, negando l’opportunità di ascoltare bisogni, desideri e idee dei nostri collaboratori.
 
L’obiettivo – per una redazione giornalistica o il produttore di una merce – dovrebbe essere quello di spostare il pubblico dall’acquisto e dal consumo verso l’ideazione e la concettualizzazione. È quanto fanno le aziende hi-tech quando rilasciano un prodotto “beta”, confessandone le imperfezioni e chiedendo l’aiuto degli utenti. Il sito Quirky.com, che produce e vende gadget stupendi, non solo chiede le invenzioni del pubblico ma conta sul fatto che questo lo aiuti a decidere quali prodotti creare e anche come migliorarne non solo il design ma anche il branding e marketing. La casa automobilistica Local Motors progetta veicoli in modo collaborativo, coinvolgendo i clienti in ogni passaggio, usando un sistema astuto per ricompensare quelli più attivi, pur se spetta comunque al CEO assicurarsi che il prodotto finale sia sicuro ed economico.
 
Collaborare con un’azienda delle dimensioni di Google o nella produzione di prodotti tangibili è più complesso che ritrovarsi per esaminare documenti o condividere i risultati di una scuola media – non vi sembra?
 
Partecipazione diretta: redazioni, blog e aziende hi-tech fanno parte dell’ecosistema dell’informazione ma lo sono anche membri delle rispettive comunità. Questi soggetti hanno specifici interessi nella comunità e vogliono essere al corrente di quanto vi accade. Non dovrebbero quindi partecipare alle decisioni su come utilizzare le risorse a disposizione e discutere le priorità che regolano il lavoro delle redazioni giornalistiche?
 
In Usa di solito questo tipo di partecipazione diretta (o appartenenza) riguarda l’obolo che si versa alla radio o alla TV pubblica. Si tratta di un concetto accattivante perché consente ai singoli di prendere posizione e sostenere un mezzo di comunicazione senza scopo di lucro – una mission sostenuta anche dagli sponsor che comprano spazi pubblicitari. Ma in questo caso cosa ne ricavano questi spettatori e lettori fedeli, oltre a una borsa per fare la spesa?
 
Alan Rusbridger, redattore capo del Guardian, è affascinato dall’idea di appartenenza applicata al mondo delle notizie e aspira al modello della squadra di calcio del Barcellona, i cui fan sono membri dell’azienda quindi co-proprietari che hanno voce in capitolo nelle decisioni chiave della squadra. Siamo forse disposti noi giornalisti a rinunciare a parte del potere e delle controllo sulle nostre scarse risorse: «Ciao, sono Sally e sono la vostra giornalista, di cosa volete che mi occupi oggi?».
 
In tal senso sono stati fatti dei passi da formica: un giornale manda in streaming la riunione della redazione, elenca tre articoli e chiede quale dovrebbe apparire in prima pagina. Un piccolo sito di news permette al pubblico di modificare il titolo dell’articolo in una delle tre versioni approvate dal redattore-capo. Il fondatore di Gawker Media, Nick Denton, è quello che va più lontano (come da sua abitudine), sfumando i confini tra chi scrive e chi legge e consentendo agli ex-lettori di riscrivere i titoli e paragrafi introduttivi sulla piattaforma di dibattito Kinja. C’è però ancora molto che puzza di collaborazione per com’è definita da un museo della scienza per bambini: «Venite qui, ragazzi, potete premere questi pulsanti che sembrano farvi fare qualcosa, ma non è niente di pericoloso e niente che abbia un impatto duraturo».
 
Come fare per attivare davvero la partecipazione diretta dei membri di una comunità nella produzione delle notizie? Al livello più alto di collaborazione, la redazione potrebbe essere pronta a eseguire i compiti suggeriti dalla comunità: «Abbiamo bisogno di sapere questo», dice la comunità, «e vogliamo che usiate la vostra forza d’aggregazione per mettere insieme queste informazioni». È in parte vero che la comunità potrebbe arrivarci grazie strumenti come Facebook o Twitter. Ma la redazione può creare valore aggiunto nel processo di raccolta del materiale, istruendo le persone su come raggiungere certi obiettivi, verificando i fatti, aggiungendo contesto e spiegazioni, offrendo capacità organizzative.
 
Come fa una persona a coinvolgersi in maniera attiva? Cinicamente, per qualcuno ciò equivale soltanto al contributo economico: dacci i soldi e ti daremo accesso alle nostre cose. È facile che un cittadino versi l’obolo per sostenere l’impegno giornalistico ma chi vorrà coinvolgermi attivamente è probabile che in cambio vorrà avere voce in capitolo  –  e i giornalisti vorranno assicurarsi che questa voce non sia cooptata dagli sponsor (argomenti che approfondirò in un altro articolo sui nuovi business model). Qualcuno potrebbe portare valore aggiunto in vari modi, cioè proponendo idee, suggerimenti, contenuti, promozione, impegno. Questo tipo di partecipazione diretta richiede uno scambio di valore, dove entrambi i soggetti della transazione danno qualcosa per ricevere in cambio qualcos’altro.
 
C’è un altro modo per considerare il punto, che non pone la redazione in un’egocentrica posizione centrale del diagramma di Venn bensì alla sua estremità: la comunità esiste già e la redazione ne è semplicemente un altro membro, che offre valore per ricevere valore. Quando bazzicavo redattori e dirigenti del Telegraph di Londra, notai che costoro capivano chiaramente di essere al servizio di diverse tribù (parole testuali) di persone con interessi condivisi: conservatori, sì, ma anche viaggiatori e giardinieri e gente interessata all’arte o all’istruzione o alla storia. Giustamente si chiedevano come avrebbero potuto aiutare queste comunità pre-esistenti a sviluppare i loro interessi (vedasi Mark Zuckerberg), fornendo loro non solo notizie e contenuti ma anche delle piattaforme per condividere le proprie conoscenze, per incontrarsi o fare acquisti. La partecipazione diretta non è un mero casello autostradale, bensì una strada a due direzioni.

 

(traduzione a caura di Valentina Barbieri)

 

 

 

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