Giornalismo online, verso la ‘pace’ nella guerra culturale fra velocità e credibilità?

Cjr-copPer quasi due decenni il giornalismo è stato spaccato da una ‘guerra culturale’ ma oggi vanno emergendo nuovi scenari: con l’integrazione continua tra vecchio e nuovo, avremo forse un ibrido delle due scuole fondamentali del giornalismo? Nella perenne battaglia per conquistare pubblico e pubblicità, il concetto tradizionale di credibilità si rivela essenziale tanto quanto la velocità. E nonostante la retorica utopica del Web come meccanismo in grado di auto-correggersi, fare le cose bene fin dall’inizio si afferma come valore portante per tutti.

Sulla Columbia Journalism Review, Marc Fisher propone un interessante viaggio fra alcune testate online Usa, mettendo a confronto pratiche e opinioni di qualificati redattori della ‘vecchia scuola’ con quelle dei new media.

 

 

 

Who cares if it’s true?
Modern-day newsrooms reconsider their values

 

di Marc Fisher, senior editor al Washington Post 
 
[Traduzione integrale – e autorizzata – a cura di Bernardo Parrella e Pino Rea]
 
Forse più di ogni altra redazione odierna, quella di BuzzFeed è l’ antitesi della tradizione. All’ ingresso campeggia una lavagna al neon con la Hot List, la tipica ‘firma’ della testata. I nuovi impiegati ricevono una felpa e una borsa di tela decorate con un classico titolo alla BuzzFeed : “84 Things That Aren’t on an Everything Bagel” [84 cose che non trovate sui bagel tutti-gusti] . Le sale per le riunioni portano i nomi di famosi gattini virali: Shironeko, Principessa Monster Truck, Winston Bananas.

 
I vecchi modi di fare le cose dei giornali qui non hanno spazio. A una riunione del mattino, la discussione su come informare sul discorso di Obama sullo Stato dell’Unione si concentra su due aspetti: riprendere un video su Vine del tipo ‘quando succedono delle sciocchezze’ e mettere insieme un pezzo su come a nessuno importa nulla dello Stato dell’Unione.

 

Il direttore, Ben Smith, l’unico con la giacca tra i 29 presenti alla riunione, esorta i suoi luogotenenti a proporre gli articoli sotto forma di semplici domande. «La gente ci prende in giro perché siamo il sito che propone solo dei quiz», dice. «Ma abbiamo appena iniziato a capire come usare al meglio il formato dei quiz».
 

La redazione di BuzzFeed (Sean Hemmerle)
La redazione di BuzzFeed (Sean Hemmerle)

 
Oggi BuzzFeed non è più una piccola e sconnessa start-up, bensì una testata giornalistica importante, redditizia e influente. I video virali che pubblica – generalmente senza alcuna verifica – a volte si rivelano delle bufale, quel tipo di errore che piace ai vecchi musoni della carta stampata perché non vedono l’ora di ribadire la propria superiorità etica. Eppure BuzzFeed continua a crescere: nei dieci minuti che ho passato in attesa all’ingresso della redazione, si sono presentati quattro nuovi dipendenti – non semplici titolisti brillanti o produttori capaci di attirare gli amanti dei gattini. Qui hanno deciso che non basta più correggere gli errori dopo la pubblicazione, almeno non nei post più popolari. Si è deciso che buon giornalismo e senso degli affari vuol dire assicurare ai lettori la veridicità degli articoli, e così abbracciano l’ultimo simbolo delle vecchie, affollate redazioni del passato pre-digitale: anche BuzzFeed assume dei comuni copy editor.

 

Per quasi due decenni, il giornalismo è stato spaccato da una guerra culturale. Il divario sembrava per lo più generazionale, per ridursi però al confronto sul senso stesso della nostra attività. L’antagonismo esplicito e lo sprezzante tiro al bersaglio in atto tra i difensori della vecchia scuola del cartaceo e i giovani cervelli digitali che trainavano le nuove start-up, alla fine si riduceva a un dibattito sui valori.
 
La vecchia guardia sosteneva di essere guidata dalla ricerca della verità e dalla loro percezione su quel che i cittadini devono sapere per partecipare alla democrazia in maniera informata. Fare informazione significava principalmente individuare i fatti e presentarli ai lettori, i quali avrebbero poi approfittato al meglio del quadro così fornito. Per i giornalisti digitali, erano invece le loro modalità a rivelarsi più oneste e democratiche, oltre che più rapide. Se ciò comportava pubblicare dei servizi prima di un’accurata verificata, andava bene così, perché ci avrebbe pensato Internet alle auto-correzioni. La verità sarebbe emersa grazie a un processo trasparente di tentativi ed errori.

 

Con il crollo dei vecchi modelli imprenditoriali, il dibattito sui valori si è trasformato in uno scontro mortale. Gli sciovinisti della stampa si sbellicano ancora dalle risate per la bufala pubblicata da alcuni siti Web, sulla base di  rapporti assolutamente non confermati, secondo cui lo zio del leader nordcoreano Kim Jong Un, da tempo caduto in disgrazia, sarebbe stato denudato, chiuso in una gabbia e divorato vivo da 120 cani famelici. D’altra parte, più di qualche evangelista digitale è orgoglioso di tenersi a debita distanza dalle strutture editoriali stratificate, superflue e noiose che caratterizzano ancor’oggi molti quotidiani e riviste.
 
Vanno però emergendo nuovi scenari: e se fosse possibile una riconciliazione? Con l’integrazione continua tra vecchio e nuovo, avremo forse un ibrido delle due scuole fondamentali del giornalismo? Sempre più spesso, nelle redazioni centrate sul cartaceo come anche in quelle solo digitali, l’imperativo della velocità, con il giornalismo dei tweet e dei mini-video su Vine, sta trionfando sui criteri tradizionali.

 

Cjr2La notizia è qualsiasi cosa esista là fuori, che sia stata controllata e verificata o meno. È raro che una testata non rilanci su Twitter una notizia non verificata a dovere, e ancora più raro è che una redazione si  rifiuti di spremere qualcosa di buono dai temi caldi del giorno (trending topic).
 
Come ho scoperto visitando redazioni con storie e ruoli diversi, ci sono comunque delle cose che hanno sempre funzionato. Nella perenne battaglia per conquistare pubblico e pubblicità, il concetto tradizionale di credibilità si rivela essenziale tanto quanto la velocità . Nonostante la retorica utopica del Web come meccanismo in grado di auto-correggersi, fare le cose bene fin dall’inizio si afferma come valore portante.
 
«Il crescente timore di fare qualcosa di sbagliato è aumentato a dismisura a causa della velocità e della portata dei nuovi media, e ciò spinge tante di queste nuove testate a puntare sui valori tradizionali», spiega Eric Newton, consigliere della Knight Foundation ed ex direttore generale del Newseum.

 
Si tratta di trovare il giusto equilibrio. Un certo grado di accuratezza è utile per la professione, mentre il perfezionismo eccessivo può perfino bloccare il buon giornalismo. I giornalisti non hanno trovato la formula magica: la Knight Foundation ha appena stanziato 320.000 dollari per lo sviluppo di applicazioni in grado di verificare e autenticare i video virali ripresi e diffusi con apparecchi mobili. E il pubblico rimane incerto sugli standard da seguire: i Twitter-dipendenti, per esempio, tendono facilmente a perdonare gli errori rispetto agli abbonati dei giornali cartacei e ai lettori del New Yorker .

 

In tutte le redazioni che ho visitato, veniva citato proprio il sistema di fact-checking di questo settimanale, non tanto come un ideale astratto, bensì in quanto standard impossibile da raggiungere per chicchessia. Nonostante il difficile momento del settore pubblicitario, il New Yorker impiega ancora dei redattori a tempo pieno incaricati di verificare ogni asserzione contenuta in tutti i pezzi da pubblicare. Per un mio articolo dell’anno scorso, la rivista ha assegnato il compito a due redattori, che hanno dedicato molto del loro tempo a quel servizio per più di cinque mesi. Ogni verifica apriva nuovi percorsi narrativi, rafforzando enormemente la storia. Per uno che lavora ai quotidiani come me, quella è stata l’esperienza di un pianeta diverso.

 

Queste differenze vanno bene, sostiene Newton, perché un certo pubblico è attirato verso quei media che rispondono al suo ritmo ed interessi. «Ognuno di noi segue testata che preferisce», dice. Ma col passare del tempo «sappiamo tutti bene che la gente vuole leggere cose corrette».
 
Nelle redazioni odierne, con il crescente consenso sull’esigenza di fornire notizie reali, i giornalisti tornano a interrogarsi sulle  domande chiave: quand’è che l’informazione può definirsi sufficientemente accurata? A chi spetta deciderlo? Ci sono regole da seguire o soltanto degli ideali? Basta, in fondo, cercare di essere corretti?
cjr4Una sera, dopo aver guidato sotto la neve della Pennsylvania per andare a visitare lo York Daily Record, i redattori mi hanno suggerito di dare un’occhiata al liveblog che avevano creato per parlare di quella prima grossa tempesta dell’anno. Il blog conteneva brevi video girati dallo staff che mostravano le strade ghiacciate cui andava bloccandosi il traffico. C’erano i feed del servizio meteorologico, i tweet dei reporter e anche quelli di testate concorrenti. I redattori erano orgogliosi per il fatto che il blog offriva pari visibilità ai contenuti prodotti dai lettori – immagini e tweet sotto l’hashtag  #pawx .
Un lettore, Dan Sokil, scriveva che le strade erano «poco scorrevoli e con uno strato di fanghiglia, ma comunque passabili», mentre Jhofford20 confessava: «Non c’è modo migliore per trascorrere una giornata di neve che farsi un paio di birre». Erin Kissling aggiungeva: «Avviso delle autorità: i negozi di liquori sono chiusi per la neve: tutto falso.»
 
Di notte non rimane nessun redattore a curare quel blog sul maltempo, mi spiegava Jim McClure, il direttore del Record, ma non c’era nulla da cancellare. La battuta sulla birre «esprime bene i sentimenti della comunità», e un po’ di irriverenza è accettabile perché «online siamo più sciolti».
 
Oggi al Record – il cui organico include 19 cronisti su un totale di 55 giornalisti, in calo dagli 80 al suo apice, un decennio fa – tutti sono impegnati a curare blog, fare video e postare sui social media, oltre a produrre e scrivere articoli normali. Cronisti e fotoreporter pubblicano direttamente sul sito, «spingendo così l’autore a farlo nel migliore dei modi», aggiunge la redattrice-capo Susan Martin. «Si finisce per sistemare le cose dopo che sono già online, il più velocemente possibile».

 

Ho deciso di visitare il Record perché l’azienda madre, Digital First Media, una catena editoriale con 75 testate, ha trasformato le sue redazioni in un vortice in cui i giornalisti fanno un po’ di tutto, senza più nessuna divisione fra cartaceo e digitale. Cronisti e giornalisti sono tutti presi dai social media, lavorando al contempo sui siti personali e sull’edizione cartacea. Ma non è che questa nuova saturazione multi-piattaforma finisce per rendere il Record più uno specchio della comunità, a scapito della sua funzione di controllo? Il ritmo e l’approccio del giornalismo digitale tende forse a ridurne il ruolo di arbitro della verità per conto dei cittadini locali?
 
La ristrutturazione del Record prevedeva di «mantenere lo stesso numero di persone al lavoro sul campo», dice McClure, che è al giornale da 25 anni. Un nuovo team, sostanzialmente un desk redazionale, progetta e produce quattro quotidiani regionali dall’interno della stessa redazione, consentendo così ai reporter stazionati a Chambersburg, Hanover e Lebanon di concentrarsi esclusivamente sulla produzione di contenuti locali .

 

Il direttore esecutivo del RecordRandy Parker, vuole che i giornalisti dividano in tre parti il loro impegno: aggregazione del materiale dei rivali, cura dei contenuti prodotti dagli utenti, interventi originali. «Quando gli aspiranti mi dicono che la loro passione è scrivere, rispondo che qui non c’è posto per loro», racconta Parker. «Cerchiamo di uscire dalle limitazioni imposte da ruoli quali reporter e redattore».
Un giorno alla settimana (i Mojo Wednesdays, i mercoledì del giornalismo mobile), anziché recarsi in redazione i giornalisti del Record stazionano in strada, fra la gente di cui si occupano. Lauren Boyer,  25 anni, va in un McDonald’s diverso ogni settimana e lo preannuncia sui social media per far sapere ai lettori che è disponibile a incontrarli. A volte non si presenta nessuno, altre però ne esce fuori un articolo originale o una nuova fonte di notizie.
 
Non era quello che immaginava una volta finito il college. «Volevo solo raccontare delle storie e vedere il mio nome sul giornale», ricorda. Adesso però è affascinata dalla sfida di mescolare il giornalismo tradizionale con quella dose di personalizzazione che emerge quando racconta con i tweet dal vivo un dibattito pubblico dai toni accesi.

 

Lauren cerca di mantenere livelli professionali su tutte le piattaforme, e se qualcuno lancia commenti diffamatori nel corso di un dibattito, non li segnala su Twitter, proprio come non li citerebbe in un articolo per il cartaceo. Ma il tono sui social media è più scanzonato di quello che usa sul Record , è più se stessa, e questa cosa le piace. Non si tratta di abbassare gli standard professionali, bensì di trovare una voce diversa, spiega: «Lavorando come facciamo noi, dobbiamo essere molto più attenti perché è assai più facile fare un errore su Internet».
 
Nella redazione del Record, veterani e nuovi arrivati prestano molta attenzione alla verità e ai criteri professionali. Ma l’ambizione generale si è un po’ allentata, la copertura giornaliera meno completa. I redattori mi hanno mostrato con orgoglio gli importanti progetti portati avanti negli ultimi tempi – una serie di servizi sul diabete, un’ammirevole ricerca a lungo termine sui problemi che affliggono i veterani di guerra – ma a risentirne è quell’informazione completa e continuata sulle cittadine della regione che una vota rappresentava la funzione centrale del Record.

 

Quando i giornalisti devono correre per pubblicare su diverse piattaforme più articoli al giorno,  diventa impossibile mirare in alto. Queste crescenti richieste danneggiano inevitabilmente la qualità, insiste Paul Kuehnel, fotografo al Record dal 1984. Solo oggi ha pubblicato un video su un delitto-suicidio, uno sul maltempo e uno su una slitta tirata dai cani. E ne tirerà fuori anche delle fotografie. «Diciamo che la nostra priorità assoluta dev’essere l’accuratezza, ma siamo esseri umani e adesso ognuno di noi fa 20 cose diverse», insiste.

 

Orgoglioso del suo lavoro, Kuehnel sa esattamente quante persone hanno guardato il suo video sull’omicidio: 1.684 nelle prime sei ore, più 793 visualizzazioni di quello di un testa-coda nella neve, e 106 del filmato della slitta in appena 25 minuti. «Belle cifre – dice – e questo mi soddisfa, soprattutto per dei video tutt’altro che eccezionali».

 

cjr6Una ragione per cui il Record può dedicarsi interamente alle notizie locali è dovuto al fatto che l’azienda madre gestisce Thunderdome, una redazione aperta nel 2012 al 25mo piano di un edificio nell’area di Wall Street, dove circa 50 giornalisti producono la maggior parte dei contenuti non locali per le varie testate della catena. Curano l’attualità nazionale ed estera, preparano i video che andranno sui siti di ciascun giornale, scrivono di cibo, salute, tecnologie, e all’occorrenza seguono eventi importanti dell’ultim’ora.

 

Diversamente dalla redazione nazionale di una catena editoriale tradizionale, Thunderdome non manda dei reporter a coprire la cronaca, incarnando piuttosto l’anima digitale del giornalismo. Si occupa soprattutto di aggregare e riconfezionare materiali provenienti da agenzie-stampa, testate partner e pubblicazioni locali. «Se riprendiamo uno spunto dal Washington Post non ci mettiamo a riscrivere l’articolo», spiega Mike Topel, responsabile della sezione news. «Cerchiamo piuttosto di migliorarlo con riferimenti dall’ambito digitale». I produttori di Thunderdome passano inoltre alla grande dalle notizia d’attualità ai meme online, in modo che tutti i siti di Digital First siano in grado di riportare quanto sta accadendo in un determinato momento.

 

Il direttore responsabile di Digital First, Jim Brady, spiega di aver messo insieme Thunderdome in parte per rendere irrilevante nelle varie redazioni del circuito la contrapposizione tra cartaceo e digitale. Nell’ufficio lavorano soprattutto veterani della carta e il progetto di Brady prevede il matrimonio fra la tradizione di completezza, verifica e autorevolezza della stampa e gli imperativi digitali della velocità e del legame diretto con gli interessi del pubblico.

 

«La battaglia riguarda ancora questi ambiti – dice – ma va facendosi più sfuocata, man mano che i colleghi digitali assumono ruoli di leadership e che veniamo tutti a patti con gli evidenti limiti dell’aggregazione, mentre chi proviene da entrambe le culture impara che è meglio arrivare secondi piuttosto che sbagliare».

 

Quando Twitter si infiamma con le immagini di proteste, rivolte o scontri a fuoco, Thunderdome si rimette a Storyful, una start-up che verifica i contenuti dei social media, di YouTube o di altre fonti video. Lo staff di 18 persone opera come una sorta di agenzia stampa social, individuando le immagini e le vicende che tirano di più per poi cercare di verificarne fonti e accuratezza, passando infine i risultati ai propri clienti nelle redazioni. «Se non ci arriva niente dalle agenzie e vediamo che Storyful sta verificando certe immagini, e se notiamo che queste vengono rilanciate da un nome noto su Twitter, ci buttiamo anche noi», spiega Karen Workman, vice caporedattore per l’attualità.

 

Ma pur se Thunderdome riesce a creare un facsimile del processo di verifica e di altre operazioni editoriali che le redazioni non possono più permettersi, rimane un fatto nudo e crudo: la maggior parte della loro produzione proviene dai rilanci a quanto ha scritto inizialmente qualcun altro. Thunderdome può contare su un’unica reporter di vecchio stampo, Bianca Prieto, già all’Orlando Sentinel, contenta di avere una formazione tradizionale, che è una cosa buona, perché ha imparato dover essere spesso il revisore di sé stessa. Così improvvisa: «Quando finisco un servizio, me lo stampo e ci lavoro sopra con la penna rossa. Poi vado su Skype e chiedo: ‘Ehi, c’è mica qualcuno che può dargli un’occhiata?’».

 

Mentre trascorrevo quel venerdì a Thunderdome, un mio articolo era in revisione per l’edizione domenicale del Washington Post. Dopo aver parlato con la Prieto, ho controllato la posta per scoprire che cinque diversi livelli redazionali avevano problemi o domande sul pezzo: dal caporedattore che me lo aveva assegnato fino al direttore. Quest’approccio multilivello, insolitamente denso perché il pezzo andava sulla prima pagina dell’edizione domenicale, può essere consolante per l’autore ma di per sé non è garanzia di perfezione. Quattro ore dopo la pubblicazione sul Web, uno dei personaggi centrali della vicenda si lamentava perché ne avevo messo in pericolo la famiglia, fornendo troppi dettagli sulla sua residenza –aspetto che invece non avevamo neppure sfiorato nella discussione tra me e i cinque redattori prima della pubblicazione.
Eppure ci sono giorni in cui non mi dispiacerebbe seguire la filosofia di Topel: «Una bella rilettura e poi via, si pubblica».

 

La velocità ha sempre fatto parte del giornalismo. La corsa per arrivare allo scoop prima di tutti gli altri a volte porta a pubblicare servizi poco accurati. Ma c’è forse qualcosa di diverso in questa nuova miscela di standard redazionali? Ciò riguarda soprattutto gli intenti di fondo: nei primi anni del giornalismo digitale, il mestiere evitava di imporre ai lettori scelte e valori interni, cercando invece di andare incontro ai loro interessi. Ultimamente, però, le testate digitali vanno riabbracciando i precetti della vecchia scuola: i lettori sono affamati di contesto e credibilità. Vogliono sapere ciò che è reale, i fatti veri – e ai giornalisti, anche in strutture con bilanci magri e staff allo stremo, spetta il ruolo dei cani da guardia e dei verificatori.

 

Secondo il direttore di Thunderdome, Robyn Tomlin, le vecchie procedure sono svanite ma restano ancora al loro posto i valori tradizionali. «Qui abbiamo tutti il DNA della carta stampata, quindi certi standard oramai sono interiorizzati». E mentre Tomlin mi dice questo, proprio dietro di noi, Workman e altri due produttori – qui non ci sono redattori – si lanciano in un acceso dibattito su quando sia corretto scrivere ‘Terra’ con la maiuscola.

 

cjr7NowThis News è una piccola start- up, una ventina di persone sedute spalla a spalla lungo dei tavoli in laminato bianco in una redazione di Manhattan. Sfornano 40-50 video al giorno: clip di sei secondi per Vine, di 10 per Snapchat o di 15 per Instagram, oltre a filmati più lunghi (da 30 secondi a un minuto ) per Facebook e per il Web. Quando il governatore del New Jersey, Chris Christie, ha tenuto una conferenza stampa di due ore per dire di non essere un bullo, NowThis ne fa una clip di pochi secondi, ci aggiunge tre o quattro frammenti che mostrano invece quanto sia  prepotente e pubblica su Instagram un filmato di 15 secondi – il tutto nel giro di un’oretta.

 

«Tutto quello che facciamo è irriverente, ma non superficiale», spiega il redattore capo, Ed O’Keefe, 36 anni, un veterano di ABC News. «Togliamo tutti gli orpelli, tutto ciò che potrebbe sviare. La generazione di YouTube è consapevole che le storie si evolvono in continuazione. È un lavoro un po’ sporco e non sempre corretto, ma immediato».

 

Sta tutto qui il nucleo della differenza tra la vecchia scuola e la nuova. Non ho mai sentito un direttore della carta stampata dire qualcosa di simile ad alta voce. Ho però visto tante volte i direttori impegnati a capire come competere in ambito digitale, abbracciando l’idea che pubblicare una notizia ha la precedenza sulla sua effettiva verifica. Non si tratta di immoralità da tabloid: O’Keefe è un giornalista serio, impegnato a trovare standard capaci di funzionare nel nuovo mondo. Non vuole fornire al pubblico notizie imprecise. Vuole piuttosto dargli la versione più vicina possibile alla verità, proprio lì dove si trovano in quel momento, che spesso è sullo smartphone. Se si aspetta ancora qualche minuto, saranno andati via, per scorrere l’articolo successivo.

 

Sono poche le notizie originali di NowThis, praticamente tutti i video provengono da social network, agenzie e contenuti virali. Perciò il suo valore sta nello specifico brand di operatore della narrazione visiva, aggiungendo grafica accattivante e battute sciolte per creare un misto tra opinioni e reportage con un giornalismo infuso in uno stile intrigante – tanto da indurre la NBC ad acquistarne una quota del 10% e utilizzarne i video .

 

«La velocità è una caratteristica del nostro brand», osserva Ashish Patel, vice-presidente responsabile per i social media . «È questo il nostro prodotto. Le nostre verifiche sono superveloci, usiamo dei verificatori esterni». Ciò significa che «se il New York Times pubblica qualcosa, vuol dire che è stata già verificata».

 

Una dichiarazione simile avrebbe provocato furore al Washington Post, dove Katharine Zaleski era produttore esecutivo prima di entrare a NowThis come caporedattore. Zaleski è stata un caposaldo  delle battaglie culturali al Post, un’evangelista tesa a trasformare una redazione centrata sul cartaceo in una struttura capace invece di muoversi alla velocità del Web.

 
Secondo qualche reporter locale ciò avrebbe comportato standard inferiori, e oggi Zaleski non riesce a biasimarli: «Quando stai perdendo copie, soldi e amici ti concentri sull’intangibile: reputazione e qualità. Erano quelle le cose a cui potevano aggrapparsi». D’altronde, aggiunge, «Le strutture vecchio stile dovevano mostrare più cautela. Ho imparato al Post quanta pazienza ci vuole per arrivare davvero al grande giornalismo. Nelle nuove redazioni manca il budget per farlo. La pazienza richiede denaro».

 

NowThis prevede di incrementare la produzione originale e il lavoro di verifica e accuratezza dei video prodotti. Intanto vanno avanti così, e la domanda rimane: ponderando la pubblicazione di un video virale su un orso che fa irruzione in un alimentari e afferra uno yogurt, i produttori decisero che fosse troppo ben fatto per essere stato ripreso da qualcuno in modo casuale. Anziché metterlo online, NowThis ha chiesto agli utenti di pronunciarsi: verità o bufala? (Il filmato si è rivelato alla fine una clip pubblicitaria di Chobani, azienda che tira forte con lo yogurt greco in Usa).

 

cjr8A settembre, NowThis ha diffuso il video di una ragazza che cade mentre fa ginnastica e viene avvolta dalle fiamme di una candela – filmato troppo assurdo per essere vero e subito diventato virale, ma poi rivelatosi una messa in scena del noto comico Jimmy Kimmel. «Ci era sembrata una cosa vera», racconta la produttrice Sarah Frank. Quando è emersa la verità, «abbiamo fatto un pezzo chiarendo che avevamo preso un abbaglio». Secondo i dirigenti della testata, gli utenti sono soddisfatti di questo tipo di trasparenza, pur aggiungendo che sarebbe meglio trovare il modo per evitare errori di questo tipo.

 

Frank, 31 anni, un veterano di Newsweek e New York Magazine, trova gradevole lavorare in un posto dove si esplorano i confini fra rendere divertente e personale l’informazione senza incorrere negli strali dei colleghi dei settimanali tradizionali che sparano: «Così stai rovinando il nostro brand!». Frank cura l’evolversi del rapporto con la NBC e spiega che tutti sanno che, se NowThis vuole conservare la sua creatività, deve evitare quelle regole rigide e la gestione complessa che potrebbero rallentarne la produzione.

 

Il nuovo presidente di NowThis, Sean Mills, viene da The Onion, dove ha imparato che il pubblico giovane ha mandato in soffitta le tradizionali convenzioni del racconto giornalistico: gli anchorman, la scrittura piramidale delle notizie e la cauta neutralità sembrano ora, appunto, una parodia nello stile di The Onion. Mills sostiene però che la credibilità legata alle testate tradizionali offre un importante insegnamento: tutto gira ancora intorno alla verità. Non esiste un meccanismo diretto per cui un video fasullo porta a una perdita di audience, però ritiene che fare le cose per bene sia essenziale per costruire il proprio brand. Quello che non si è ancora trovato è il giusto mix di opinione e buona cronaca, lavoro originale e aggregazione, verifica e interventi del pubblico.

 

Si tratta di costruire un rapporto di fiducia, spiega. Non ci sono le risorse per controllare tutto, ma la risposta sta nella trasparenza: «Se non sei sicuro di qualcosa, l’importante è mettere l’avvertenza di non essere riusciti a verificare tutto», dice Mills. «Al nuovo consumatore d’informazione piace essere coinvolto in questo processo».

 

In tante redazioni poco nutrite, trasparenza è la parola di moda: basta annunciare quel che non ci si può permettere di fare (come ad esempio verificare tutti i video ). Man mano che crescono, però  le start-up possono scoprire che il successo aiuta a risolvere qualche problema.

 

Shani Hilton, 28 anni, è arrivata a BuzzFeed dalla NBC e dal Washington City Paper con una missione: «Mi sono prefissa di portare qui più DNA della vecchia scuola», afferma. Come vice caporedattore, Hilton ha ampliato la sezione dei copy editor da 1 a 3 redattori, con altri in arrivo. Si dice scettica sul fatto che i contenuti possano essere controllati e tirati a lucido senza rallentare eccessivamente la macchina. «Non devono sentirsi troppo sotto pressione, altrimenti non ce la faremo», chiarisce.

 

I copy editor ora rivedono tutto quello che compare sulla top list di BuzzFeed – segno tangibile del fatto che il grande pubblico impone maggior responsabilità e cautela. «Se qualcosa diventa virale, vogliamo che sia anche corretto», incalza Hilton. «Ma qui c’è gente che non si considera un giornalista e perciò deve imparare il mestiere».

 

Hilton spinge i redattori a contattare i creatori del materiale virale: «Chiamateli. Provate a manovrare la conversazione più che solo a ottenere traffico».

 

«Finora la gente andava su BuzzFeed per trovare roba davvero divertente – aggiunge Ben Smith, il capo di Hilton – non certo perché si fidava della veridicità. Ora vanno accorgendosi che è un posto dove puoi trovare la tua notizia», e ciò richiede un cambiamento culturale.

 

Non che Smith, che viene da Politico, voglia rallentare il metabolismo di BuzzFeed. «Se i lettori navigano in questa roba, aspettare significa abdicare ogni responsabilità», spiega. Fa riflettere, per esempio, il fatto che, dopo l’attentato alla maratona di Boston dell’anno scorso, gli utenti del sito, nella fretta, avessero indicato come responsabile qualcuno che non c’entrava niente. La sua conclusione: «Un brutto errore, ma l’attualità importante è sempre caratterizzata da gran confusione. La soluzione è avere più cronisti in gamba in loco, in modo da non dover affidarsi alla CNN».

 

BuzzFeed continuerà a seguire quel che gli utenti guardano su Internet, ma non ciecamente. Per raggiungere un pubblico che accetta l’anonimato ma è più guardingo su fonti e motivazioni, Smith ritiene che ci sia bisogno di un approccio più sfumato sulla produzione. Verrà ancora diffusa al volo roba di routine, materiali non controversi. Se un articolo lancia gravi accuse, «vogliamo che queste siano al di sopra di ogni sospetto»; verrà sottoposto a strette verifiche da parte di altri redattori. E le inchieste saranno controllate, messe a punto e verificate da addetti specializzati e assunti a contratto.

 

Smith rifiuta però quelle «regole formali come ‘bisogna avere almeno due fonti per procedere’. Può capitare che ci siano nove fonti diverse che dicono la stessa cosa e si sbaglia comunque. Preferisco basarmi su reporter intelligenti e su Twitter», per seguire vicende d’attualità man mano che prendo corpo.

 

Pur catturando lo spirito del Web, l’approccio iterativo dà ancora fastidio a tanti giornalisti più stagionati. In una critica della politica della credibilità di BuzzFeed, Andrew Sullivan scrive che l’etica del ‘pubblicare prima di tutto’ mina il patto tra giornalisti e lettori. È stato irresponsabile per BuzzFeed pubblicare la falsa litigata, alla vigilia di Thanksgiving, fra un produttore televisivo di Hollywood e una donna perché il suo volo era in ritardo, aggiunge Sullivan, osservando che intrattenimento e giornalismo appartengono ad «ambiti ben distinti».

 

Quando si è capito che era una bufala, BuzzFeed aveva aggiunto una nota dicendo che il produttore di Hollywood «avrebbe potuto prendersela allo stesso modo con ciascuno di noi» – portando qualche critico a parlare di ritirata strategica. Lisa Tozzi, ex redattrice del New York Times che gestisce lo staff sulle notizie (15 persone), concede che il post originale avrebbe dovuto essere un po’ più cauto, aggiungendo però che l’accuratezza è importante qui tanto quanto lo era nella sua ex redazione. Ciò è sicuramente vitale per gente come Smith, Hilton e Tozzi, ma, come hanno avuto modi di notare quanti sono arrivati a BuzzFeed da redazioni più tradizionali, non tutti si basano sui vecchi modi di fare le cose .

 

Summer Anne Burton  è arrivata a BuzzFeed come altri produttori: senza molta esperienza o ambizione di fare del giornalismo. Da cameriera e blogger ad Austin, per lei tutto consisteva nel trovare cose interessanti su Internet e condividerle con gli amici. L’idea che qualcuno potesse pagarla per questo era semplicemente favolosa. Ora, come direttore editoriale, coordina le 35 persone che «fanno le cose per cui è diventata famosa la vecchia scuola di BuzzFeed: elenchi e quiz di cose strane, storie di animali…». E inizia a considerarsi una giornalista .

 

«Molti di noi pensavano che questa fosse un’azienda high tech», spiega ricordando gli inizi di due anni fa. «Da quando è arrivato Ben, stiamo imparando a fare cose di qualità mantenendo un atteggiamento sperimentale». Il gruppo di Burton è abituato a operare in base a un semplice standard: «Se qualcosa è andato alla grande su Internet, allora lo pubblichiamo».

 

Poi è arrivato Smith, portandosi dietro da redattore di Politico la passione per le notizie del momento, l’amore di un ragazzo di New York per i tabloid e una forte considerazione di sé come giornalista serio ma anche grande intrattenitore.

 

Con la crescita del pubblico, del personale e delle entrate, l’obiettivo di BuzzFeed è passato dal tentativo di portare quanti più occhi possibile su roba piacevole, all’impegno vecchia maniera di cambiare la percezione delle cose. Mark Schoofs, giornalista investigativo di lungo corso per il Wall Street Journal e poi per ProPublica, è salito a bordo per lanciare un’unità investigativa. Le inchieste e gli esteri restano delle piccole boutique all’interno di un grande salone pieno di gente che stila elenca e quiz, ma avere intorno giornalisti come Schoofs aiuta individui come Burton a pensare a sé stessi non solo ad aggregatori umani bensì anche come degli investigatori alla ricerca della verità.

 

Questa mentalità di tipo nuovo ha portato ad altri cambiamenti: «Abbiamo iniziato a fare delle correzioni di rotta un paio di mesi fa», dice Burton. A cominciare dai titoli-trappola. «Prima qualsiasi giochetto andava bene per conquistare i primi posti nelle ricerche di Google. Ma era controproducente fare dei titoli truccati che poi deludevano la gente».

 

cjr10Burton considera ancora il suo lavoro come intrattenimento, «ma i confini vanno confondendosi», aggiunge Rega Jha, 22  anni, sei mesi di Columbia University, diventata una star con i suoi post leggendari tipo “29 Struggles That Only People With Big Butts Will Understand” [Le 29 battaglie che può capire solo chi ha il culo grosso], che ha incredibilmente raggiunto 4,8 milioni di visite nella prima settimana di pubblicazione. Anche a lei piace creare degli elenchi, ma il suo articolo preferito è stato un pezzo di 4.000 parole sugli abusi sessuali in India, pezzo uscito dopo due mesi avendo affrontato 20 giri di revisioni e tante modifiche da parte dei redattori interni. Ha ottenuto 200.000 visite, «ben più di quelle che avrebbe ottenuto su un giornale o una rivista che non capisce nulla di Internet», dice Jha .

 

Idealmente, conclude, le piacerebbe scrivere sia pezzi come “28 Things That People With Big Boobs Can Simply Never Do” [Le 28 cose che donne con le tette grandi non dovrebbero mai fare], un altro dei suoi grandi successi, sia dei servizi sull’ingiustizia sociale, ma sempre in stile BuzzFeed: «L’obiettivo è lo stesso, che si parli di grandi sederi o di Bill Gates. Devi scrivere quello che alla gente piace leggere».