Open Government Partnership e media: perchè hanno bisogno gli uni dell’altra

Ogp

La settimana prossima mille delegati da tutti i paesi del mondo si incontreranno a Londra nell’ ambito del secondo anniversario della Open Government Patrnership (OGP) per discutere l’ impegno dei rispettivi Paesi nel rendere le proprie istituzioni più trasparenti e responsabili.

 

La discussione, e la sua inevitabile retorica, sarà infiammata dal tema caldissimo che vede contrapposti il principio stesso di Open Government a quello della libertà di parola.

 


 

di Andrea Fama

 

All’ OGP oggi aderiscono 60 Paesi, la cui società civile è impegnata al fianco dei governi per il raggiungimento di obiettivi ambiziosi (non vincolanti) quali il miglioramento dell’ accesso alle informazioni, la trasparenza dei bilanci, le misure anti-corruzione, le performance dei servizi pubblici.

 

Tuttavia, solo gli addetti ai lavori conoscono l’ esistenza di questa partnership internazionale.

 

Un sondaggio – anticipato dal Guardian – condotto su un campione globale di 227 giornalisti rileva che la maggior parte degli intervistati non è a conoscenza dell’OGP, nonostante il 70% di loro provenga da Paesi aderenti. Secondo il sondaggio – commissionato dall’Omidyar Network al fine di includere la prospettiva dei media nella discussione sull’Open Government – nonostante il grande sostegno verso gli obiettivi della partenership, gli intervistati sono scettici sulla capacità dei politici di perseguirli.

 

E in diversi casi il loro scetticismo è ben giustificato. Si pensi alle misure restrittive che il Sud Africa ha proposto di adottare nei confronti dei media, alle intimidazioni dei giornalisti in Turchia, alla recente legge ungherese sui media e, ovviamente, al caso Snowden-NSA.

 

A inizi ottobre un rapporto speciale del “Committee to Protect Journalists” criticava l’amministrazione Obama evidenziando le promesse mancate in materia di accessibilità delle informazioni e trasparenza dell’azione di governo.

 

Se questa è la situazione negli Stati Uniti, figurarsi in altri Paesi notoriamente meno democratici.

 

Come si coniuga, quindi, l’esigenza di una maggiore apertura dei governi con le restrizioni che questi vorrebbero applicare – o di fatto applicano – ai media?

 

In ambito OGP, questa contraddizione è figlia di un’ulteriore incoerenza che – come sottolineato anche dalla Sunlight Foundation – vizia l’intero sistema di adesione alla partnership: al fine di accogliere il più ampio numero di Paesi possibile, infatti, i criteri di ammissibilità sono molto – troppo! – flessibili e lasciano ai vari Paesi la facoltà di definire il proprio concetto di ‘trasparenza’  e di ‘svilupparlo’ attraverso piani di azione spesso vaghi e comunque non vincolanti.

 

Un esempio? Dotare il proprio corpus normativo di un dispositivo come il Freedom of Information Act è tra i criteri minimi di ammissibilità all’OGP. L’Italia non ne aveva uno al momento dell’ammissione, né tantomeno adesso a seguito della dibattuta riforma che ha portato al cosiddetto Decreto Trasparenza (33/2013), presentato dal Governo come FOIA e come tale diffuso dai media generalisti italiani.

 

Una caso che fa scuola, con i media impegnati a copiare e incollare comunicati stampa istituzionali menzogneri mentre la società civile denunciava invano incongruenze e falsità.

 

Ebbene, avvicinare e far interagire i media con i vari movimenti per la trasparenza, come sostiene il Guardian, è un modo semplice ma tardivo di limare tali squilibri, tenendo sotto controllo l’azione di governo in favore dell’interesse pubblico.

 

Dell’interesse reciproco, aggiungerei.

 

Un giornalismo più presente e attento inchioda le istituzioni alle proprie responsabilità favorendo l’adempimento degli impegni presi.

 

Istituzioni più aperte e trasparenti (anche in virtù di una normativa adeguata) sono fonte di informazioni preziose spesso alla base di grandi opere di giornalismo.

E i cittadini – più tutelati informati e consapevoli – ringraziano.