Due euro al pezzo: passioni, vita e dolori del giornalista da precario

‘’Due euro al pezzo: inchiesta sul nuovo precariato giornalistico’’, è il titolo di una tesi con cui una studentessa in giornalismo, Chiara Baldi, si è laureata alla Sapienza di Roma con la supervisione di Pietro Veronese (La Repubblica) e Stefano Lepri (La Stampa).

 

Lsdi la pubblica in occasione della sesta edizione del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, che si apre domani proprio all’ insegna della lotta al precariato, con un  Meeting dei Movimenti dei giornalisti precari.

 

 

 

Il giornalista precario?  E’  colui che fa di tutto pur di vivere di giornalismo ma che non sempre ci riesce. Il giornalista precario scrive di cronaca nera, rosa, giudiziaria, scrive di economia, di cultura, fa interviste, inchieste, reportage, scoop, scrive notizie brevi, lanci di agenzia quando necessario e realizza approfondimenti. (…)Il giornalista precario ha un telefono che non è aziendale e si sposta con mezzi propri, quando non deve usare quelli cittadini. È precario perché a fine mese la sua busta paga, sprezzante delle ore effettivamente lavorate, è più misera di quella di un commesso part-time e molto spesso deve ricorrere all’ammortizzatore sociale d’eccellenza: la famiglia.

 

Ma ad essere precaria è anche, e soprattutto, la sua professionalità: se un precario guadagna, come attestano alcuni dati, 2,50 euro lorde a notizia, allora come potrà arrivare ad una cifra ragionevole in fondo alla giornata? Semplice, producendo una quantità enorme di notizie di dubbia efficacia.

Essere precari vuol dire anche dover trascurare, per poter mangiare, la propria professionalità. Perché non si potrà sempre cercare lo  scoop né sperare di fare sempre l’ “inchiesta della vita”, poiché per questo servono energie e molto tempo. Tempo che un precario del giornalismo non ha e che deve occupare per una missione ben più importante: guadagnarsi da vivere.

 

E’ un brano di  ‘’Due euro al pezzo: inchiesta sul nuovo precariato giornalistico’’, è il titolo della tesi, che pubblichiamo alla vigilia dell’ apertura del Festival dekl giornalismo.

 

Il testo completo della tesi è scaricabile qui.

 

Qui sotto la presentazione che ne ha fatto l’ autrice.

 

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“Due euro al pezzo: inchiesta sul nuovo precariato giornalistico”

 di Chiara Baldi*

 

Quando ho deciso di scrivere la mia tesi di laurea sul precariato giornalistico sapevo bene che sarei andata incontro a molte ostilità e silenzi, quasi omertà in alcuni casi. Sono davvero pochi i giornali che parlano di questa realtà, pochissimi quelli che vogliono sentirne parlare e questo perché è un’abitudine talmente tanto consolidata da non lasciar spazio nemmeno ad un po’ di indignazione. Il fatto è che i precari convengono anche ai grandi quotidiani, poiché il loro lavoro costa molto meno di quello dei contrattualizzati.

 

È stato uno studio molto lungo, che ho fatto partendo dalla mia esperienza personale nel mondo dell’informazione, un’esperienza che purtroppo è comune a molti altri giovani che vogliono diventare giornalisti e che si basa su lunghissimi mesi di stage e di articoli mai retribuiti. Ho inserito il precariato giornalistico in un contesto più ampio (la cosiddetta flexicurity), tracciando un excursus storico, politico e giuridico del mondo del lavoro italiano, caratterizzato da una massa informe e incalcolabile di precari giovani (e meno giovani). Quella che costituisce, insomma, il modello di flex-insecurity italiano. La drammatica condizione che vivono i precari porta a gesti estremi: ricordiamo tutti Pierpaolo Faggiano, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, che nel giugno scorso si è tolto la vita poiché non poteva più, a quarantuno anni, vivere da precario.

 

Fondamentale è stata la ricerca curata da Pino Rea e Vittorio Pasteris per Lsdi, che ho usato per capire quanti fossero i giornalisti in Italia (e in che proporzione fossero suddivisi tra pubblicisti e professionisti). Tra questi vi sono anche i freelance, categoria che sulla carta ha piena libertà ma che poi, all’atto pratico, non può comportarsi così liberamente proprio a causa dei miseri contratti che gli vengono proposti. È in particolare la condizione delle donne freelance ad avermi incurisito e mi è stato possibile indagarla grazie allo studio di Nuova Informazione. Un altro aspetto che ho considerato interessante è quello dei giornalisti pubblicisti, spesso considerati di Serie B: intervistandone alcuni, ho notato che quella di rimanere pubblicisti è spesso una scelta dettata proprio dall’impossibilità di “vivere di solo giornalismo”, soprattutto in tempi di crisi.

 

A questa precarietà contribuisce decisamente lo stage, strumento di un circolo vizioso che si fa fatica ad interrompere. Ho raccontato storie di colleghi molto diverse tra loro, ma tutte accomunate da un’unica caratteristica: la gavetta gratuita senza garanzie future. Molto importante è stato, in questo senso, il testo di Eleonora Voltolina, al momento la miglior fonte per chi si occupa di stage. Di questo testo ho condiviso la Carta dei diritti dello stagista, che penso possa essere applicata senza problemi anche ai giornalisti.

 

Ed ecco che, in questo quadro, i giornalisti sono “i più precari tra i precari”, perché lo stipendio da fame li costringe anche a rinunciare ai principi deontologici a cui invece dovrebbero attenersi. Una buona informazione è possibile solo quando chi la fornisce non deve sottostare al ricatto di uno stipendio misero. Più è basso il guadagno del giornalista e più sarà alta la sua “voglia” di produrre senza professionalità, non tanto per un desiderio malato di non essere professionale, quanto per una necessità: quella di guadagnare.

Per fortuna ci sono delle importanti novità, come ad esempio la Carta di Firenze, discussa ai primi di ottobre nel capoluogo toscano ed approvata a dicembre. Anche il Governo Monti ha approntato alcuni provvedimenti, discutibili, che ho analizzato (almeno quelli fino a gennaio) e ho considerato due proposte per la riforma del mercato del lavoro: quella di Tito Boeri e quella del Senatore Pd Pietro Ichino. Ho dedicato ampio spazio alle nuove realtà dei Coordinamenti dei Giornalisti Precari, che hanno dato un grandissimo contributo a questo lavoro.

 

Infine, ho dedicato un intero capitolo alle scuole di giornalismo, dimostrandone l’assoluta inutilità ai fini del “trovare lavoro”, visto che oggi un’azienda è più propensa a prendere un collaboratore piuttosto che un professionista. E poi, esse ampliano il divario sociale, e di certo in Italia non ne abbiamo bisogno: l’accesso alla professione non dovrebbe essere possibile secondo una logica di discriminazione economica. Piuttosto, l’Odg dovrebbe riconoscere quei corsi di laurea che hanno nel giornalismo il centro del loro programma. Questo non vuol dire che chiunque possa diventare giornalista: basterebbe stabilire che chi vuol fare il giornalista deve essere laureato. Così avremmo indubbiamente un servizio d’informazione migliore e con lavoratori qualificati e professionalizzati. Studiando i criteri con cui vengono stipulate le convenzioni tra Odg e scuole, inoltre, ho notato che c’è una grande incoerenza: non vengono mai presi in considerazione i “dati di occupabilità”. Le scuole dovrebbero essere obbligate a pubblicare delle statistiche reali con le percentuali relative alla carriera dei propri alunni: se hanno trovato lavoro, dopo quanto tempo dall’esame, con che tipo di contratto sono stati assunti, e via dicendo. Tutto questo, ad oggi, non c’è e io credo che sia molto grave.

 

Per concludere vorrei dire che, anzitutto, è necessaria una riforma dei contratti di lavoro a livello nazionale, poiché è importante ricordare che anche il Contratto di Lavoro Giornalistico rientra in una legislazione nazionale più ampia. In secondo luogo, auspico una riforma dell’accesso alla professione: accorciare i tempi per il conseguimento del tesserino da pubblicista; possibilità di sostenere l’esame da professionista liberamente (ma con laurea) e, infine, abolizione delle scuole di giornalismo, strumento rivelatosi inutile e quantomeno dannoso (troppi soldi, troppi anni e pochissime possibilità di assunzione a tempo indeterminato). A tutto ciò dovrebbe aggiungersi un maggiore sviluppo delle nuove tecnologie e dei nuovi media, a discapito di quello che ormai è considerato “un mezzo tramontato”: la carta stampata.

 

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*Chiara Baldi, 26 anni, di San Sepolcro (Arezzo) ma residente a Roma, aspirante giornalista. Si è laureata alla Sapienza (110 e lode) con una tesi sui giornalisti precari dal titolo “Due euro al pezzo: inchiesta sul nuovo precariato giornalistico”, sotto la supervisione di Pietro Veronese (La Repubblica) e Stefano Lepri (La Stampa). Collabora con Mediapolitika.com e Ghigliottina.it, occupandosi principalmente di economia e politica. In particolare, scrive di precariato, argomento a cui ha praticamente dedicato tutta la sua formazione giornalistica. Ha lavorato nella redazione economica dell’ AdnKronos e all’ ufficio stampa dell’ Ambasciata d’Italia in Canada.

Ma come stagista, precaria insomma.