Blogger o giornalisti? Gli esperti di tecnologia fra etiche troppo ingombranti e pubbliche relazioni

Ogni tanto il dibattito sui rapporti fra giornalismo e blogosfera, che sembrava superato, si rinfocola e  riesplode qualche polemica – Questa volta l’ occasione viene da un aspro attacco rivolto da Dan Lyons, di Newsweek, a due  blogger molto noti, accusati di reinventarsi come uomini di pr, spacciando  le pubbliche relazioni per giornalismo – In un articolo di qualche  giorno fa sul Guardian, Charles Arthur ricostruisce i pesanti attacchi di Lyons a Michael Arrington (nella foto) e MG Siegler sorpresi a scrivere di aziende in cui hanno investito con un loro Fondo di venture capitalism

Una situazione che segnala un divario crescente tra i media tradizionali, con le loro etiche ingombranti, e la fiorente blogosfera tecnologica, dove va bene un po’  tutto

 

 

A blogger or a journalist?
Debate over the power and influence of tech writers

 

di Charles Arthur

(Guardian.co.uk)

(traduzione a cura di Elena Baù)

 

 

Il dibattito sulla questione “ i blogger sono giornalisti?” si era esaurito più o meno nel 2005, con un “sì” come risposta. Ma ora nella  Silicon Valley, il quesito è stato riproposto, e in modo diverso, ossia: ‘’ci sono occasioni e momenti in cui i blogger non dovrebbero essere giornalisti’’?

 

Il tema è stato sollevato in una lunga e titanica invettiva da Dan Lyons, redattore esperto di tecnologia per Newsweek e ora anche per il Daily Beast di Tina Brown. Il giornalista ha accusato l’ ultima generazione di blogger – che si sono evoluti in giornalisti e, a loro volta, si sono trasformati in venture capitalist – di reinventarsi come uomini di PR e di propinare le pubbliche relazioni come giornalismo.

 

“Sicari, puttane e apologeti mercenari: benvenuti nella fogna di Silicon Valley”, ha scritto sul suo blog personale. Il tutto illustrato con le foto di Michael Arrington, fondatore del blog TechCrunch, e MG Siegler, amico di vecchia data di Arrington e anche lui collaboratore di TechCrunch, che mostrano entrambi davanti all’ obbiettivo del fotografo, il classico dito medio del ‘’fottetevi’’. Il post ironizzava sul contributo che i due stavano dando all’ idea di un giornalismo indipendente, attendibile e aperto, indicandoli invece come giornalisti frustrati di scrivere di gente diventata ricca e desiderosi piuttosto di arricchirsi loro stessi.  Attraverso una semplice soluzione: servirsi della propria notorietà ed influenza per racimolare un po’ di finanziamenti dai venture capitalist della Valley e creare così un loro Fondo di investimento.

 

Fatto questo, uno può poi andare in giro per aziende offrendo pezzetti di finanziamento -100.000 dollari qua, 100.000 là – apparentemente inconsistenti, ma utili per esercitare una certa  “influenza” sul mondo della stampa. Le aziende prendono l’ investimento, loro scrivono pezzi influenti su di esse e  se le aziende prosperano, lo stesso farà il denaro impegnato. E se queste non accettassero il finanziamento? Guai all’orizzonte.

 

Allora, perché puntare il dito contro Arrington e Siegler? Perché Arrington è il fondatore di CrunchFund, un piccolo fondo di capitale di rischio a cui Siegler ha aderito a ottobre.

 

Ora, se Arrington o Siegler (nella foto accanto) avessero lavorato per il New York Times (o per qualsiasi altra testata tradizionale), l’ assunzione del loro nuovo ruolo avrebbe comportato qualche complimento a cui sarebbero seguiti un contenitore dell’immondizia per raccogliere i loro effetti personali, un viaggetto verso la porta e auguri di addio e buona fortuna. Ma Arrington ha invece voluto continuare lo stesso a scrivere per TechCrunch: perché ne è il fondatore e colui il quale ne ha gestito l’ acquisizione da parte di AOL, per una cifra – secondo le voci che corrono – di 25 milioni di dollari.

 

Tutto ciò ha provocato a una lotta di potere con Arianna Huffington, fondatrice dell’ Huffington Post e caporedattrice di AOL, dopo che nel febbraio 2011, il gruppo aveva rilevato il sito. Arrington non poteva investire in società e poi scrivere di esse – o dei loro concorrenti. Il conflitto di interessi era evidente. O meglio, lo era per tutti gli osservatori esterni.

 

Non che questo lo avesse turbato in precedenza; come la Columbia School of Journalism ha osservato,   Arrington “ha scritto su aziende che lo stavano pagando come consulente, e in alcune delle quali ha poi effettuato degli investimenti”. (…).

 

Giornalisti come Kara Swisher, l’ape regina del blog All Things Digital, che fa capo al Wall street Journal, hanno duramente attaccato sia Arrington, definito come “irrimediabilmente corrotto”, che AOL, apostrofata come “un avido branco di maiali della Silicon Valley”.

 

Ma succede che Swisher sia sposata con Megan Smith, vicepresidente di Google (il dato è  rintracciabile nel suo profilo ATD, a cui ci si può collegare partendo da qualsiasi suo articolo pubblicato), fatto questo che ha consentito ad Arrington di replicare: “ penso che qualcuno dovrebbe pensarci due volte prima di stroncare una società e poi andare a letto con un suo dipendente”.

 

Alla fine, Arrington ha perso la battaglia con Arianna Huffington, mentre Siegler, nonostante sia uno degli investitori nel Fondo di Arrington, scrive ancora occasionalmente per TechCrunch.

 

In questo scenario la Silicon Valley è scivolata in uno dei suoi periodici attacchi di isterismo. Arrignton ha davvero le carte in regola per tenere il suo blog? Certo. Si può chiamare questo giornalismo? Beh…Lyons in effetti l’ ha accusato di comportarsi come un agente  di pubbliche relazioni quando Path, un social network per iPhone, è stato beccato a scaricare i dati personali dei utenti sui propri server. E dopo che Nick Bilton del New York Times ha biasimato tale condotta, Arrington ha protestato sostenendo che allora tutte le applicazioni doverebbero essere criticate, non solo Path.

 

Oh, sì, il CrunchFund è un investitore in Path. Il che riporta al post di Lyons, che ha spinto Arrington a liquidarlo sdegnosamente scrivendo: “Ho passato mezz’ ora al telefono con lui [Lyons] un paio di settimane fa, su sua richiesta, spiegandogli come funzionano i fondi di rischio, perché non ci aveva davvero capito nulla”. (Sembra più probabile che Lyons, vecchia volpe da decenni nel settore, stesse in realtà cercando di spingere Arrington a rivelare  inconsapevolmente qualche dettaglio nascosto).

 

Il quadro che ne emerge è quello di un divario crescente tra ciò che si possono definire i media tradizionali – con le loro etiche ingombranti – (forse anche più corpose negli Stati Uniti che nel Regno Unito), e la fiorente blogosfera tecnologica, dove va bene un po’  tutto.

 

I “giornalisti” non possono essere parziali. O finanziariamente compromessi. Se lo sono, tutto crolla, perché diventerebbe necessario ogni volta fare l’analisi delle loro proprietà azionarie per scoprire dove realmente si trovano i loro interessi. (Per completezza: io non posseggo o controllo nessun titolo).

 

Ma i blogger? Alcuni hanno abboccato accettando portatili o cellulari offerti da società per indurli a scrivere cose favorevoli sul loro conto, senza che ciò venga rivelato. Altri accolgono “post ospiti” a pagamento, ma il passaggio di denaro non viene svelato, che invece dovrebbero essere presentati come “messaggi pubblicitari”- da parte di compagnie il cui unico scopo è quello di aumentare la visibilità del loro profilo di ricerca. (Google disapprova  questi ultimi, quando li scova, ma in realtà è nell’interesse di entrambe le parti far finta di nulla).

 

La velocità di espansione in questo settore comporta anche il fatto che i siti d’ informazione registrano una spinta costante a incamerare sempre più contenuti – che Siegler, come novello investitore in capitali di rischio poteva voltarsi a guardare languidamente, proclamando che c’ erano “contenuti dappertutto, ma neanche una goccia da bere”. E così è andato avanti, radendo al suolo la città che lo aveva fatto salire: “Il metro del numero di visualizzazioni delle pagine usato per produrre ricavi pubblicitari significa che la maggior parte degli articoli sono scritti avendo fatto poca o nessuna ricerca”. Cosa c’è di meglio, come investitore, sollevato dall’ impegno di – parole sue – “fare il blogger tecnologico di professione, giorno dopo giorno”, nel poter osservare come giornalisti e startup facessero riferimento a insiemi di dati completamente differenti?

 

Il giornalismo sul web – diceva – era essenzialmente spazzatura, e destinata a peggiorare: “Io non offro soluzioni, perché è mia onesta opinione che nulla cambierà, nella destinazione verso cui siamo diretti… I migliori autori se ne andranno, perché il sistema non approverà ancora a lungo ciò che fanno”. Il suo consiglio era quello di “prendere con le pinze tutto quello che si legge dell’informazione in rete. La probabilità che almeno una parte di essa sia una sciocchezza è molto forte. E aumenta di giorno in giorno”.

 

Ma poi,  dove è andato a finire questo ragionamento, quando (…)  Siegler ha scritto per TechCrunch che Apple aveva acquisito Chomp, una startup di San Francisco che punta a migliorare la ricerca nel campo dell’ App Store? In mancanza di citazioni di eventuali fonti – inclusa Apple –  come si deve considerare questa anticipazione: una bufala giornalistica, o una soffiata da un finanziatore interno, o che altro? Il Wall Street Journal ha chiamato Apple, che ha confermato. Non è una bufala quindi.

 

A quel punto gli ho chiesto io: ‘’ma questa notizia l’ ha saputa attraverso un investimento in Chomp?’’.  “Ha – me l’ aspettavo, questa”, ha  replicato  lui su Twitter. “Certo che no, altrimenti lo avrei segnalato”. Ma, non sarebbe stata la cosa più ovvia a cui pensare? Via e-mail, Siegler ha insistito: “Se utilizzassi informazioni apprese come investitore, per farne degli scoop, non rimarrei un investitore a lungo. Proprio come nel giornalismo, vi è un rapporto che si basa sulla fiducia. Scrivendo, lo si ha con i lettori. Investendo, con gli imprenditori. In primo luogo, io sono un investitore ora. E questo sovrasta qualsiasi notizia”.

 

A questo punto ho dovuto chiedergli se lui o i suoi colleghi avessero degli interessi in Chomp: “Se avessi avuto qualcosa da rivelare in questa storia, l’ avrei fatto”, ha sostenuto. “Di nuovo, è una questione di fiducia – ma in questo caso con i miei lettori”. (E annuncia che fornirà delle spiegazioni in merito sul suo sito personale).

 

Eppure, il suo disprezzo per i media tradizionali non era tanto profondo quando il Wall Street Journal, raccontando di Apple e Chomp, non ha menzionato il suo articolo come fonte. Siegel era furioso per questa mancanza di riconoscimento. Per che motivo? “Se si apprendono le informazioni da qualche parte, bisognerebbe dirlo. Io non ho nessun problema a darne conferma, in separata sede, ovviamente. Solo, si dovrebbe essere onesti nel riconoscere che non si è arrivati alla notizia in modo indipendente”, ha risposto via e-mail.

 

Felix Salmon, blogger che si occupa di finanza per Reuters, suggerisce  che Siegel potrebbe essere un tantino su di giri. “Ha importanza se qualcun altro ha avuto la notizia due ore prima? Assolutamente no. MG Siegler sta esagerando in modo massiccio? Sì. Fare uno scoop su un accordo per una fusione o una acquisizione societaria è quanto di più aleatorio ci sia al mondo”.

 

Forse in Siegler non si è del tutto sopito quell’ impulso che tiene molti giornalisti legati profondamente alla professione – arrivare per primi alla notizia. E’ questo che definisce un giornalista? Ma Lyons, citando un articolo del Los Angeles Times che contiene i punti di vista di alcuni blogger della Silicon Valley – tra cui Arrington – che hanno utilizzato il metodo del ‘’venture funding’’, ne ha estrapolato una risposta molto semplice. L’ articolo del LAT , ha detto, era “un ottimo servizio, ma contiene un errore, quello di pensare che questi ragazzi siano dei giornalisti, e che si preoccupino di argomenti che ai giornalisti interessano. Non lo sono, e non lo fanno”.