Italiani di frontiera, tutti gli strumenti digitali per un buon giornalismo

idf Tre anni fa, un collega giornalista assunto presso una prestigiosa agenzia di stampa internazionale  ha pensato di mettersi nuovamente in gioco e da solo e utilizzando al meglio gli strumenti digitali ha dato vita ad Italiani di Frontiera, un sito-progetto che utilizza per il racconto tutti i possibili strumenti del nuovo giornalismo – Lo abbiamo intervistato.

———-

di Marco Renzi

Roberto Bonzio è un giornalista di “lungo corso”,  figlio a sua volta di un cronista di Mestre noto ed amato al punto da avere una piazzetta dedicata nel territorio del comune veneziano. Roberto ha accumulato un’ esperienza trentennale, ha lavorato sul campo per quotidiani locali e nazionali,   e negli ultimi 10 anni ha militato presso  un’altrettanto nota agenzia di stampa internazionale. Qualche anno fa, folgorato sulla via di “San Francisco”, ha deciso con l’approvazione e l’appoggio dei suoi famigliari e dei suoi capi ufficio, di prendersi un periodo sabbatico per mettersi alla ricerca di contenuti da raccontare attraverso  nuove forme di giornalismo. Qualche anno, innumerevoli chilometri, e svariate ore di riprese tv dopo,  ecco cosa è riuscito a combinare.

Si chiama Italiani di frontiera è un progetto composito che consta di un sito/blog on line, un canale video dedicato su You Tube, una newsletter con 1200 iscritti, 2 comunità sociali su Facebook e Linkdln con migliaia di iscritti, un libro/racconto dell’esperienza in fase di realizzazione e una serie di conferenze/lezioni/performance multimediali in giro fra l’Italia e gli Usa.

Ecco l’ intervista.


BonzioD
Roberto se ho ben capito Italiani di frontiera è un progetto in divenire, un vero e proprio work in progress aperto a tutti grazie al web?

R – Certamente l’idea di base era di fare del buon giornalismo raccontando storie e persone sconosciute ai più, partendo per e da Silicon Valley e i nostri connazionali che da lì hanno costruito attività e carriere di successo planetario. Niente piaggerie e inutili lamentazioni sulle cosiddette “fughe di cervelli” , ma un resoconto dettagliato delle esperienze di vita di alcuni nostri connazionali nell’ombelico tecnologico del mondo!

E poi?

E poi ho scoperto che le storie da raccontare attraverso le esperienze di vita degli italiani all’estero erano e sono molte di più e che i racconti raccolti spaziavano attraverso gli anni, talvolta i  secoli e allora ho coniato l’espressione: “dal web al west”, che, gioco di parole a parte, aggiunge elementi nuovi al progetto, lo amplia nel tempo e nello spazio, arricchendolo di sfumature e contenuti…e poi si vedrà!

Nel frattempo ho scoperto che hai definitivamente abbandonato il tuo posto di lavoro fisso, per dedicarti full time al progetto…

Sono ottimista! Battute a parte, credo fortemente in Italiani di frontiera, e ho ricevuto tali e tanti attestati di stima nel corso di questi ultimi tre anni… Inoltre le ultime vicende elettorali mi hanno fornito  nuovi stimoli  a fare di più e di meglio nel mio ambito professionale, e quindi vedendo un Paese che ha  bisogno di novità e innovazione credo, molto modestamente, che il mio progetto possa fare qualcosa in questo senso.

Italiani di frontiera racconta il paradosso di un Paese che continua a sfornare straordinari talenti capaci di primeggiare a livello mondiale,  ma si  ostina a tenere un atteggiamento fra le patrie sponde a dir poco penalizzante  nei riguardi di chi  si da da fare per uscire dagli schemi. Io dico sempre che Silicon Valley non ti regala niente,  ma è il sistema che appiana gli attriti e crea le condizioni perchè i talenti riescano ad esprimersi in piena libertà, da noi le cose vanno al contrario. Se  fai qualcosa fuori dai binari tradizionali il tuo diventa un percorso a ostacoli e  trovi spesso  persone che sembrano specializzate nell’arte dello sgambetto! Nelle mie performace live io riassumo questi comportamenti con alcune metafore.

Io parlo ironicamente della “torta finita” parafrasando un bellissimo discorso che mi ha fatto Federico Faggin, padre del microchip. Uno che ha successo in Italia viene sistematicamente ostacolato perchè quello accanto a lui è convinto che gli porterà via un pezzo di una torta  già finita. Senza capire che più grande sarà il successo del collega e maggiori saranno le possibilità che quella torta non solo non finisca ma anzi diventi sempre più grande e disponibile per un numero sempre maggiore di persone.  Un altra metafora ironica che spesso uso nelle mie conferenze è la sindrome del “palio di Siena” ovvero “realizzarsi nella sconfitta altrui”, senza nessun intento polemico, s’intende, con la storica manifestazione senese.  Oppure la sindrome della “pastasciutta”:  ritenere lecito  pensare, da parte di molti nostri connazionali, che siccome siamo in Italia e abbiamo tante cose belle   si possa credere di non aver bisogno di darsi da fare, andare all’estero, conoscere, nemmeno imparare altre lingue, tanto siamo al centro del mondo, se tutti vogliono venire da noi ci sarà bene un motivo! La bellezza, quello che abbiamo in più come cultura, storia e tradizione, che diventa, invece che un trampolino, come dovrebbe essere,  un impedimento per quelli che sono quà, un freno intelletuale e una giustificazione al non mettersi in gioco.

Se dovessi individuare il momento esatto in cui hai deciso di partire per davvero per l’America?

Non ho dubbi. Estate, sono al mare in Campania, sto passeggiando su un sentiero a Marina di Camerota con indosso una maglietta con il logo di Hollywood comprata in Usa nel 2005 e  messa per la prima volta proprio quella mattina. Squilla il cellulare, rispondo e mi trovo a parlare con un impiegato dell’ufficio di Los Angeles dell’Istituto Italiano per il Commercio con l’Estero cui avevo inviato una mail di richiesta dati sugli italiani di Silicon Valley. Mi dice: “ho trovato materiale che forse le può interessare le mando tre indirizzi di posta elettronica”, e da lì è iniziato tutto! Ho mandato le tre mail, ho ottenuto risposte sollecite e interessate,  e ho capito che i tempi erano maturi, che c’erano un sacco di storie da raccontare, che  gli italiani all’estero con cui avevo preso contatti avevano una gran voglia di raccontare le loro storie,  e anche che c’era da parte loro una gran voglia di tornare a confrontarsi con il proprio paese d’origine. Allora ho rotto gli indugi e sono partito.


Italiani di frontiera può essere definito un nuovo modo di fare giornalismo?

Non so bene come definirlo. All’inizio delle mie conferenze di presentazione io faccio vedere un breve estratto dal film di Kubrick “Barry Lindon”, e dico che a metà di questo film la voce narrante spiegando il proseguio dell’azione, racconta che il protagonista non solo non salirà più in alto nella sua scalata sociale ma perderà anche tutto quello che aveva conquistato perchè le caratteristiche che ti rendono in grado di conquistare sono anche le stesse che ti rendono incapace di conservare. A me nel giornalismo è successo, per fortuna, l’esatto contrario.

Ho costruito un progetto che mi ha cambiato la vita come Italiani di frontiera su caratteristiche che nell’ambito della mia carriera giornalistica tradizionale si erano sempre rivelate un handicap. La curiosità dispersiva patologica, la voglia di seguire storie di persone “controcorrente”, l’estrema libertà di pensiero che ti porta a fare la battuta sbagliata al momento sbagliato e che ti bolla come inaffidabile agli occhi dei capi. Queste ed altre caratteristiche, che hanno condizionato in negativo tutta la mia carriera professionale, sono improvvisamente diventate i miei punti di forza, le peculiarità  determinanti per la buona riuscita del progetto. E’ stato un percorso di autocoscienza,  una forte riflessione sul mestiere del giornalista, e nel contempo un meraviglioso esempio di serendipity: ho trovato cose preziosissime cercandone altre, ma solo ed esclusivamente perchè mi trovavo  nella giusta condizione del cercatore, di colui che è disposto ad apprendere senza preconcetti, senza barriere, senza condizionamenti.

Dunque da ricercatore, giornalista e conoscitore della cultura italiana all’estero, cos’è che ci rende così unici, ma solo ed esclusivamente fuori casa?

Il talento italiano, a mio avviso,  risiede nella profondità della preparazione culturale dei singoli. La maggior parte dei nostri talenti, vilipesi in patria e poi  affermatisi trionfalmente all’estero non pensavano in assoluta onestà, sebbene avessero avuto l’occasione all’estero di poter entrare dalla porta principale,  di riuscire a farlo, di  essere all’altezza. Ma una volta superato l’imbarazzo e la normale ritrosia iniziale,  hanno capito di possedere quello che ai loro colleghi d’oltreoceano mancava: la visione d’insieme, la capacità di ragionare a tutto tondo, fuori dagli schemi,  e quindi di essere determinanti per la riuscita di un progetto. Potrei citarti decine di esempi,  tutte le persone che ho incontrato e continuo ad incontrare mentre realizzo il mio progetto. Ma quello che spiega meglio di tutto “il talento” sono  le storie personali di questi nostri connazionali, le storie degli Italiani di frontiera di oggi e di sempre. Personaggi come  Carlo Camillo Di Rudio, Cesare Marino, Luca Prasso, Marcello Forconi, sono, con il loro esempio di vita,  la perfetta sintesi del talento italiano ma anche di quello che nel nostro Paese non funziona.