Scrivere per Google o per i lettori?

Giornale-vecchio

Qualcuno accusa il motore di ricerca di pervertire i giornalisti spingendoli a preoccuparsi più del Seo (l’ ottimizzazione dei motori di ricerca) che dei lettori – Ma c’ è chi replica: i giornalisti non scrivono per Google, ma per i lettori e se i titoli web si standardizzano  è anche, molto, per mancanza di immaginazione e di inventiva da parte dei giornalisti – Tutti i media nella storia hanno avuto i loro standard e il fatto che il web sia più orientato verso la velocità e l’ efficacia dipende dall’ uso che di questo mezzo fa la maggioranza delle persone, ma si può essere brillanti e creativi lo stesso – Certo, per titoli più incisivi o creativi c’ è la carta – E quindi attenzione, togliere anche alla carta questo scarso vantaggio concorrenziale col web sarebbe davvero una cattiveria

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Ma i giornalisti scrivono per Google? Se lo chiede Owni in articolo interessante intitolato, appunto, Les journalistes, écrivent-ils pour Google? Il motore di ricerca è accusato dall’ autore dell’ articolo, Adam Westbrook, di pervertire i giornalisti, spingendoli a preoccuparsi più dell’ efficacia SEO del loro testo (la sua resa in termini di classifica nei risultati delle ricerche) che della soddisfazione dei lettori.

Ma questo è solo parzialmente vero, risponde Cyrill Frank ( Cyceron) su Mediaculture: la responsabilità è soprattutto dei giornalisti, non di Google.

Secondo Owni, le redazioni manipolano i loro contenuti per ottenere una migliore indicizzazione su Google. In parole povere: scrivono per Google e non per i lettori. Un esempio? Ammettiamo di avere un numero limitato di battute per fare un titolo online – il sito di BBC News, ad esempio, ha spazio per 55 battute -; entro questi limiti dovete fare un titolo che introduce l’ argomento ma che rispetta anche le regole del SEO.

E’ una scommessa supplementare per il redattore, al di là del semplice attirare il lettore. Ma qui si va ancora più lontano, fino al contenuto stesso dell’ articolo. Un post su Social Media Today – continua Owni – riassumeva il problema qualche mese fa:

Sul giornale di carta percorrete tutte le pagine e date un’ occhiata ai titoli. Su internet cercate delle storie che vi interessano. Il titolo che leggete sfogliando il giornale non ha niente a che vedere con quello che potrete incontrare cercando in Google News.

Il SEO ha cambiato i meccanismi di elaborazione giornalistica e soprattutto la scrittura su altri versanti, in particolare per quello che riguarda l’ utilizzazione dei ‘kickers’, quelle parole chiave che vengono sistemate prima del titolo vero e proprio. Quando delle vicende restano d’ attualità per giorni, come quella delle marea nera nel golfo del Messico, alcuni giornali hanno la tendenza a utilizzare dei ‘kickers’ in modo da indicizzare al meglio i loro articoli.

Owni fa due semplici esempi: “BP Oil Spill: US orders new emergency plan as seepage detected” dans le Telegraph del 19 luglio e “BP Oil Spill: seepage not a threat to capped well” nel Guardian del 20 luglio.

Ecco che si ritrovano le parole “BP oil spill” nel titolo e nelle parole chiave e poi il giornalista riassume il contenuto dell’ articolo.

Prima di tutto – replica Mediaculture – bisogna ricordare una evidenza economica: l’ obbiettivo di Google è fare profitti. E per farli l’azienda ha optato fin dall’ inizio per la soddisfazione del cliente, più che  altro.

Google non si è conquistato più del 65% del mercato mondiale forzando la mano agli utenti (al contrario di Microsoft che negli anni ’70-’80 si è affermato grazie a una (abusiva?) posizione dominante nella distribuzione di materiale informatico.

Google – di cui pure va registrato l’ inquietante sviluppo tentacolare – è molto forte sul suo core-business: ce l’ ha fatta perché è il più efficace, quello che dà globalmente agli internauti il servizio migliore.


La scrittura web significa servire l’ utente, non Google

La ‘scrittura web’ non è destinata a Google ma al destinatario finale – prosegue Frank – : il lettore internauta.

Scrivere per Google significa scrivere prima di tutto per il lettore: farlo in modo conciso e preciso (titoli e sommari efficace), ricco (link esterni, popolarità, regolarità) e accessibile nella forma grafica (grassetti, paragrafi, ecc.)

Sono tutti criteri ampiamente previsti nell’algoritmo di classificazione di Google e il motore non fa che applicare le buone pratiche giornalistiche classiche, adattate al supporto-schermo (la lettura è in media il 25% più lenta e difficile su un monitor rispetto alla carta, secondo l’ esperto di questo settore Jakob Nielsen). Scrivere per il web è nient’ altro che scrivere.

La standardizzazione viene dai giornalisti

Poiché la questione è la standardizzazione dei format sul web, ricordo che non si tratta di una novità. Esiste in tutti i media, in particolare in televisione, e da molto tempo. Ricordate la fragorosa musica che accompagnava il notiziario Pathé, in cui lo speaker inanellava frasi lunghe chilometri con un tono nasale e un vocabolario ampolloso? Era lo standard dell’ epoca.
Oggi in televisione va di moda utilizzare come colonna sonora una musica ternaria che alterna toni acuti e gravi per sostenere un presunto discorso. E non parliamo dei cliché giornalistici propri del mimetismo socio professionale classico, tipo vento in poppa o punta dell’ iceberg. (Rue69 ne ha fatto una divertente rassegna).

Tocca ai produttori di contenuti non abusare

D’ altra parte è anche vero che non bisogna essere dogmatici e applicare come dei pecoroni le ricette di SEO senza capirle. Così, i titoli con i cosiddetti « kickers » (parole chiave) non sono un obbligo, ma sono più efficaci in termini di lettura (e non solo di indicizzazione).

Esempio:

« Pensioni: I dettagli della riforma del governo » indica immediatamente al lettore l’ argomento, è un servizio che gli si fa nel diluvio di informazione (l’ infobesità, dicono i giornalisti più trendy).

Ma il titolo:

« La riforma governativa delle pensioni in dettaglio » va bene lo stesso. L’ informazione essenziale si trova sempre il prima possibile.

E’ anche vero che i titoli degli articoli costruiti con giochi di parole più o meno tirati per i capelli hanno sempre meno spazio su internet. Non è colpa di Google, è colpa del nostro modo di vivere isterico e della lotta per l’ attenzione legata alla pletora di stimoli (tv, radio, giochi, mobile, ecc.). Non abbiamo tempo da perdere, bombardati come siamo da messaggi. Attirare l’ attenzione dei lettori oggi è come cercare di parlare agli automobilisti sull’ autostrada: ci vuole veramente il massimo di chiarezza e di sintesi!

Bisogna quindi che i titoli siano informativi e concisi se vogliono attirare e trattenere l’ attenzione dei lettori, ed è proprio quello che vuole Google, d’ altronde. Ma ciò non impedisce di essere creativi e fantasiosi nei titoli della prima pagina, come fa molto bene, ad esempio, 20minutes. A condizione di stare attenti a scrivere un titolo informativo per permettere al lettore di capire immediatamente di cosa si parla quando ci arriva dopo una ricerca, oggi ma anche in futuro (pensare agli archivi!). E di adattarsi a tutti i nuovi modi di accesso all’ informazione, come flussi di RSS, mobile, ecc.

Infine, l’ algoritmo di Google evolve costantemente e le diverse tecniche utilizzate dai furbastri per dirottare traffico su cattivi siti sono sanzionate abbastanza regolarmente. Google non ha nessuna intenzione di perdere la gallina dalle uova d’ oro e assegna una enorme importanza all’ efficacia dei criteri di classificazione. Il giorno in cui smetterà di farlo, scomparirà. E’ l’ ex  direttore di AltaVista che vi parla…
Google è un buono strumento di ricerca che serve prima di tutto l’ utente. Se i titoli web si standardizzano  è per un verso nell’ interesse del lettore e per un altro verso per mancanza di immaginazione e di inventiva da parte dei giornalisti. Alla fine, il fatto che il web sia più orientato verso la velocità e l’ efficacia dipende dall’ uso che di questo mezzo fa la maggioranza delle persone. Per titoli più incisivi o più brillanti c’ è la carta. A ciascuno il suo meccanismo, come ha ben capito Libération – conclude Cyrille Frank -. Togliere alla carta questo scarso vantaggio concorrenziale col web sarebbe davvero una cattiveria.