LE MALATTIE DELL’ INFORMAZIONE A OVEST DI BERLUSCONI

‘’Ultime notizie’’ (ed. Nutrimenti) di Roberto Reale Cosa c’ è a ovest di Berlusconi? Come sta la democrazia dell’ informazione oltre i confini italiani?


Con ‘’Ultime notizie: indagine sulla crisi dell’ informazione in Occidente; i rischi per la democrazia’’ – questo il titolo del suo ultimo libro, pubblicato con le edizioni Nutrimenti e in libreria nei prossimi giorni – Roberto Reale* cerca di rispondere a queste domande, partendo dalla terra del conflitto d’ interessi e allargando poi l’ osservazione al mondo anglosassone.


Ne viene fuori una indagine impietosa sulla libertà di stampa nel mondo occidentale. Utilizzando anche documenti inediti, Roberto Reale compie un viaggio in cui si incontrano nomi noti – da Bush a Blair, da Murdoch a Bob Woodward – ma anche protagonisti sconosciuti in Europa.


Storie e vicende che fotografano e raccontano un mondo che sta cambiando. Dove l’ ideale del cittadino informato, protagonista consapevole della vita democratica, è ogni giorno messo in discussione. Come sottolinea anche con preoccupazione Aidan White, il segretario generale della Federazione internazionale dei giornalisti, nella prefazione a questo volume, che pubblichiamo qui di seguito.




*Roberto Reale, giornalista e docente di linguaggio radiotelevisivo, coordina fra l’ altro il progetto Media e democrazia di Informazione senza frontiere. Di Reale Nutrimenti ha già pubblicato ‘’Non sparate sui giornalisti’’.




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LA PREFAZIONE


di Aidan White**

Questo libro non potrebbe giungere in un momento più importante per il giornalismo – sia in Italia che in tutto il mondo occidentale democratico. In questi primi anni del ventunesimo secolo i media e il giornalismo sono coperti da una nuvola scura e pericolosa.


La fiducia pubblica nei media si è abbassata più che mai, e continua a diminuire. Il giornalismo non è mai stato molto amato né generalmente, per sua reputazione, ha mai voluto esserlo. Nonostante l’azione di controllo che svolge la stampa sia essenziale alla democrazia, i media continuano ad avere relazioni difficili con il potere. Non c’è da sorprendersi. Chi si trova al centro dell’attenzione del pubblico ama gli applausi, ma raramente è indulgente nel giudicare la stampa.


La maggior parte di noi, tuttavia, fino a poco tempo fa ha concesso ai media il beneficio del dubbio. I giornalisti a volte possono fare degli errori, ma il ruolo dei media nel difendere i diritti dei cittadini e nell’informare il pubblico è lo schiacciante vantaggio della democrazia, quindi abbiamo imparato ad accettare le debolezze dei giornalisti poiché essi sono stati capaci di fornirci un’informazione affidabile e veritiera.


Ma questo fondamento della fiducia pubblica viene oggi scosso come mai prima. Le persone sono sempre più scontente dell’operato dei media. Non amano l’informazione ridotta a spettacolo. Avvertono l’emergere di un’arrogante superiorità morale nel modo in cui i media perseguitano i personaggi pubblici per le loro anche minime trasgressioni. Non accettano che lo spirito editoriale dei tabloid si stia diffondendo in tutti i mezzi d’informazione e che le aziende editoriali interessate più ai profitti che al giornalismo.


Questo disappunto dell’opinione pubblica è capitato proprio mentre i media tradizionali combattono per ridefinire il loro ruolo nel mondo dei nuovi servizi di informazione elettronici. Prima di tutto ci sono le nuove minacce politiche che arrivano nel cuore della democrazia globale. I politici moderni sembrano determinati a identificare i giornalisti come coloro che li tormentano, che stanno loro alle calcagna.


Come rivelano i capitoli di questo libro, la crisi del giornalismo e della democrazia è profonda. Per non parlare del nervosismo e dell’incertezza presenti nelle redazioni occidentale che hanno provocato una crisi di fiducia tra i giornalisti che lavorano per i principali quotidiani – il New York Times, Le Monde, il Corriere della Sera e il Daily Mirror.


In nessun luogo la pressione politica e economica è maggiore che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, entrambi paesi con una tradizione democratica di libertà di stampa, e entrambi con comunità di giornalisti che combattono per difendere i principi di libertà di stampa e indipendenza che sono stati garantiti per cento anni.


Questo libro rivela intelligentemente e in modo convincente l’estensione degli attacchi ai valori giornalistici, esplorando nel dettaglio l’incessante e velenosa crescita dell’influenza politica ed economica che i media dei principali paesi dell’Occidente subiscono.


Ci sono dettagli cruenti su come i governi assetati di potere si sono impegnati con sempre maggiore successo a manipolare i giornalisti per perseguire i loro interessi politici. Tony Blair se l’è presa con la BBC riguardo alla guerra in Iraq. Gorge Bush è andato oltre, attaccando la stessa idea di giornalismo critico con la sua provocatoria filosofia “ o con noi o contro di noi” nella guerra al terrorismo.


Mentre i politici hanno fatto sfoggio della propria forza , i gruppi editoriali, più grandi, più spietati e con un vorace appetito per i nuovi mercati stanno dando una forma nuova all’orizzonte dei media, ridefinendo le loro priorità. Stipulano accordi con tiranni che d’abitudine imprigionano giornalisti e impongo la censura, e impongono una forma di giornalismo che venga incontro alle richieste dei finanziatori, degli sponsor e dei loro amici politici. In alcuni ambienti, la disonestà, la sete di potere e l’arrivismo hanno sostituito la verità, l’indipendenza e il rispetto degli esseri umani come parole chiave del giornalismo moderno.


Ma sono la guerra e il terrore il cuore di questo nuovo assalto politico ai media. Ciò che lo può dimostrare meglio è il silenzio stampa totale imposto dalla Casa Bianca dopo l’undici settembre per impedire ai media americani di cercare una spiegazione alle vere cause dell’attacco.


Gli opinionisti che hanno suggerito che le politiche americane in Medio Oriente potrebbero aver contribuito a questa deriva verso l’estremismo e il terrore sono stati isolati e fortemente criticati. Alcuni sono stati licenziati. Qualsiasi argomento che potesse portare ad una giustificazione razionale per quello che il governo identificava come un’incomprensibile e ingiustificabile atto di folle terrorismo è stato rapidamente messo a tacere.


Come risultato, all’opinione pubblica sono mancate delle importanti informazioni di base. Il quadro reale del Medio Oriente è stato oscurato dagli obbiettivi politici e strategici del potere politico. I cittadini non hanno avuto alcuna risposta perché i media non hanno posto le giuste domande.


Non sorprende che la maggior parte della popolazione, preoccupata e scioccata da questo terribile attacco, abbia seguito il suo presidente e i suoi consiglieri che hanno seminato intolleranza in un’atmosfera di paura e ignoranza.


Sia i media americani che quelli inglesi hanno giocato un ruolo importante nel preparare il terreno per la guerra in Iraq. Se questa guerra sia stata, come molti ora affermano, una macchinazione grottesca in risposta alla tragedia dell’undici settembre, basata su un accordo tra il presidente americano e il primo ministro britannico per entrare in guerra anche senza l’approvazione delle Nazioni Unite, non è ancora chiaro, ma è innegabile che da entrambi i lati dell’Atlantico una feroce campagna mediatica è stata portata avanti nei giorni precedenti l’invasione per distogliere l’opinione pubblica dalla verità sulle ragioni dell’attacco.


Nelle settimane e nei mesi precedenti la guerra, i media negli Stati Uniti sono stati incredibilmente docili. Le dichiarazioni e i suggerimenti dell’amministrazione Bush sul bisogno di confrontarsi con Saddam – la politica del “cambiamento di regime” – difficilmente sono state messe in dubbio.


Anche oggi, nonostante il film di Michael Moore Fahrenheit 9/11 , la brillante esposizione di Seymour Hersh delle torture inflitte dai soldati americani nel carcere di Abu Grahib a Baghdad e le quotidiane notizie che rivelano come le condizioni degli iracheni siano peggiorate considerevolmente in seguito all’invasione, molti americani continuano a credere ostinatamente all’idea che Saddam fosse in qualche modo legato agli avvenimenti dell’undici settembre e che il suo governo stesse producendo nuove e terribili armi nucleari e chimiche e che l’invasione fosse giustificata nel nome della pace e della democrazia.


Nel Regno Unito, i media sono stati più attenti alle conseguenze della guerra e alle opinioni riguardo ad essa. Non si sono fatti influenzare dal dolore della tragedia e della perdita che ha invece vincolato alcuni giornalisti americani. I media si sono schierati a favore o contro la missione con accesi dibattiti sulla questione. E il governo Blair, furioso nei confronti dei media dell’opposizione, ha concentrato i suoi attacchi contro una delle più grandi istituzioni mediatiche mondiali – la BBC- che ha rifiutato di fare da eco a Downing Street. La battaglia epica che è seguita ha quasi messo la BBC in ginocchio.


Questa battaglia, che ha portato al suicidio di David Kelly, una fonte riservata dei giornalisti che si occupano di questioni relative ai servizi segreti, è stato un dramma in cui il desiderio del governo di utilizzare le informazioni a proprio favore si è scontrato contro il giornalismo pronto a combattere le pressioni politiche.


Dopo settimane di conflitto tra la gli organi direttivi della BBC e Downing Street in cui le autorità governative hanno imputato alla mancanza di sostegno della BBC la colpa della rissa che è seguita alla trasmissione radiofonica mattutina che ha dichiarato che il governo aveva deliberatamente manipolato le informazioni riservate per sostenere le sue convinzioni riguardo all’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq.


Il governo ha perseguitato il giornalista, ha esposto all’umiliazione pubblica la sua fonte David Kelly, che si è ucciso, e ha poi nominato un giudice di fiducia per condurre un’inchiesta secondo la quale la BBC aveva commesso degli errori; tutto ciò ha portato alle dimissioni di Greg Dyke, direttore generale della BBC, e di Gavin Davies, Presidente del Consiglio dei Governatori della BBC.


Un’inchiesta successiva, condotta da Lord Butler sulle origini della decisione di entrare in guerra, ha reso noto che il governo ha invece interferito con le informazioni provenienti dai servizi di sicurezza. La versione originale della BBC riguardo al “dodge intelligence dossier” ha portato a una più ampia verità. La saga ha illustrato che nessuna reputazione mediatica, nemmeno una forte come quella della BBC, è al sicuro quando un governo è guidato da imperativi e interessi politici nei confronti delle notizie.


Queste campagne straordinarie sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna contro il giornalismo tradizionale e i media indipendenti dovrebbero mettere in allarme sul futuro del giornalismo in tutto il mondo.


Ma le persone ascolteranno? Avranno bisogno di qualcosa di più convincente. Internet e i suoi “blogger” mostrano come il giornalismo tradizionale è preda della disonestà delle elites politiche, delle istituzioni militari e giuridiche dello stato e della globalizzazione industriale. La società dell’informazione ha la capacità di mostrare la corruzione, compresa quella interna al giornalismo stesso, come mai prima l’ha avuta.


Se i media al servizio della democrazia vogliono sopravvivere dovranno ritornare a un giornalismo scrupoloso basato sull’esperienza e sulla professionalità, fatto da giornalisti e reporter che vengano trattati con correttezza, pagati decentemente, e capaci di resistere alle lusinghe dei bugiardi e dei ciarlatani, nelle relazioni pubbliche e politiche che al momento influenzano maggiormente la gerarchia delle notizie.


Ma anche i media devono cambiare. Prima di tutto, i giornalisti devono assumersi la responsabilità del proprio lavoro. Devono riconoscere e correggere i propri errori. Devono evitare le esagerazioni, l’intolleranza e gli stucchevoli sentimentalismi. Devono approfittare di Internet, avere accesso al più veloce, semplice mezzo di comunicazione in grado di assicurare che l’informazione che forniscono sia più affidabile e di qualità migliore.


Le corporazioni dei media devono ricordarsi di una semplice ma inconfutabile verità del giornalismo – l’informazione non è soltanto una comodità, ma è anche portatrice di valori culturali, sociali e democratici.


Questi non sono assolutamente degli obbiettivi irrealistici, anche se sono così facili da scrivere su queste pagine. Possono essere raggiunti. Ma ci vuole maggiore investimento, maggiore coraggio e un giornalismo più consapevole, e la politica dovrà riconoscere che un governo aperto è, nella maggior parte dei casi, il primo a dire la verità. Il bisogno urgente di manipolare e di aumentare il proprio potere è forte, e ci sarà sempre, ma raccontare la verità in politica dovrebbe essere il primo principio in ogni democrazia degna di questo nome.


Per la democrazia e per il giornalismo le sfide sono enormi ma faremmo bene a prestare attenzione agli avvertimenti. Sia i politici che i media devono fare attenzione. Non è soltanto un tipo di informazione vecchio stampo che rischiamo di perdere. Potrebbe essere la stessa democrazia.


**Aidan White, segretario generale dell’ International Federation of Journalists (IFJ). L’ IFJ rappresenta più di 500.000 giornalisti di 117 paesi.