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Il giornalismo tra ventate di ottimismo e incertezze continue

Le maggiori tendenze

Nel 2007 possiamo individuare sette maggiori tendenze che meritano di essere sottolineate:
Le testate d’informazione devono riflettere meglio sulle implicazioni di questa nuova epoca di ambizioni ridotte. Il passaggio verso la costruzione di audience intorno ad aree “esclusive” d’intervento è la risposta logica alla frammentazione e può, se gestita in maniera creativa, avere un certa validità a livello giornalistico. Fino a un certo punto, i problemi del giornalismo riguardano la sovrapproduzione, troppe testate che fanno la stessa cosa. Ma quel che si guadagna da una parte lo si perde dall’altra, soprattutto con la riduzione delle redazioni. Abbiamo già le prove che a soffrirne è il monitoraggio sostanziale dei governi locali. Le tematiche regionali, contrapposte a quelle locali, è probabile ottengano minore copertura. Questioni dall’impatto diffuso ma di scarso interesse per il pubblico, pur essendo comunque un problema, appaiono sempre più a rischio di venir trascurate.  Cosa significano in concreto concetti quali localismo e branding? Spetta soltanto ai quotidiani nazionali mantenere uffici esteri? Localismo vuol forse dire provincialismo? Onde non abbandonare temi di maggior livello, le testate dovrebbero mettere di sentinella i cittadini a monitorare l’informazione delle comunità? Fino a che punto i giornalisti svolgono ancora un ruolo nella creazione di un vasto bacino di conoscenza comune? Questioni queste che, discusse in precedenza a livello teorico, vanno facendosi concrete. E le risposte sbagliate potrebbero accelerare, non alleviare, il declino delle testate d’informazione.
Una serie di elementi concreti testimoniano del fatto che l’industria dell’informazione deve diventare più aggressiva nello sviluppo di un modello economico. È evidente come il mercato pubblicitario operi in maniera diversa nel mondo online rispetto ai media più tradizionali. Cercare merci e servizi sul Web è più un attività a se stante, come usare le pagine gialle, e meno un prodotto laterale derivante dall’informazione, come vedere l’inserzione di un’automobile durante il telegiornale. La conseguenza è che gli inserzionisti non hanno bisogno del giornalismo come una volta, particolarmente online. Le previsioni della crescita pubblicitaria sul Web sono state già ridimensionate. Ciò va producendo una serie di importanti conseguenze, tra cui il fatto che le testate d’informazione possono ampliare quel che considerano le funzioni giornalistiche fino ad includervi ricerche online e citizen media, e forse finanche qualche aggancio sul campo tra il giornalismo e i grandi negozi commerciali. Forse ancora più importante, la matematica suggerisce che quasi sicuramente devono trovare il modo per far pagare i contenuti digitali. Lo scenario sempre più logico sembra essere quello di non gravare direttamente i consumatori. Sarà, piuttosto, chi produce informazione a imporre delle quote sui fornitori d’accesso a Internet e sugli aggregatori per la licenza di distribuzione dei contenuti. E probabilmente queste tariffe verranno aggiunte a quelle pagate dai consumatori per l’accesso a Internet. Ma l’idea della gratuità della Rete è errata. È solo che oggi quanti producono informazione non intascano nulla.
La domanda centrale è se gli investitori considerano il mondo dell’informazione come un’industria in declino oppure un settore emergente in fase di transizione. Se dobbiamo credere che il mondo dell’informazione sarà la maggiore piazza pubblica dove la gente continuerà a radunarsi — con redazioni centrali in una comunità che diffonde le notizie tramite piattaforme diverse — allora appare ragionevole pensare che saranno le dinamiche economiche a risolvere la faccenda. In questo scenario, chi avrà qualcosa da vendere dovrà ancora raggiungere i consumatori, e l’informazione sarà il canale primario per trovarli. Se tuttavia dobbiamo credere che oggi la struttura economica dell’informazione sia a pezzi, con ulteriori cadute in futuro, allora appare inevitabile che gli investimenti nelle redazioni continueranno a ridursi e che la qualità del giornalismo americano andrà declinando. Una cosa sembra chiara, però: se le testate non imporranno la propria visione in quest’ambito, inclusa la volontà di correre dei rischi, il loro futuro verrà definito da coloro che sono meno interessati e appassionati nell’informazione.
Ci si chiede con forza se il modello di proprietà dominante dell’ultima generazione, la corporation pubblica, si adatto alla transizione che le redazioni devono avviare. Sembra che oggi le proprietà mediatiche siano più preziose per i mercati privati che per Wall Street. Anche parecchi dirigenti appaiono apertamente dubbiosi sul fatto che l’attenzione della proprietà pubblica, necessariamente concentrata sulle quote azionarie e sui ritorni trimestrali, possa offrire ai gruppi editoriali il tempo, la libertà e le scelte rischiose che sentono di dover abbracciare per effettuare la transizione verso la nuova era. È stata questa la motivazione che ha spinto Clear Channel, gigante del circuito radiofonico, a diventare una struttura privata. Lo stesso hanno fatto svariati enti privati che vanno emergendo nel settore dei quotidiani.  Quel che non è dato sapere è se questi potenziali editori privati siano motivati da interessi pubblici, dalla voglia di avere un hobby di alto profilo (tipo una squadra sportiva), oppure come investimento da trasformare in guadagnai dopo qualche aggressivo taglio di spese. Quando c’è la proprietà pubblica, le aziende tendono a seguire regole condivise. Quella privata comporta minori livellamenti. E la nuova ondata di potenziali gruppi privati è diversa dai baroni della stampa del passato, gente che voleva farsi un nome nel campo dell’informazione. La maggior parte sono persone che hanno fatto fortuna in altri settori imprenditoriali.
La cultura della contrapposizione sta cedendo il passo a qualcosa di nuovo, la cultura della risposta. I critici erano soliti dolersi di quel che lo scrittore Michael Crichton una volta definì la “sindrome del fuoco incrociato”, la tendenza dei giornalisti nel mettere in scena in Tv e sulla stampa dei dibattiti costruiti a tavolino. Dibattiti che, lamentavano gli stessi critici, tendevano a polarizzare, a semplificare in maniera eccessiva e appiattire i temi discussi, al punto che gli americani che non stavano né con una parte né con l’altra si sentivano tagliati fuori. Quell’epoca della contrapposizione — che R.W. Apple Jr., l’affermato reporter del New York Times scomparso nel 2006, definì “delle torte in faccia”— è in fase di trasformazione. Il programma “Crossfire” è stato cancellato. C’è il crescente ricorso da parte di testate d’informazione, programmi Tv e giornalisti ad offrire soluzioni, crociate e certezze, c’è l’impressione che si voglia esplicitare tutta confusione dell’informazione in modo ordinato. Si tratta di qualcosa che, una volta confinato alla “talk radio”, va diffondendosi altrove attirando nuovo pubblico e con modalità più sfumate. La trasmissione più popolare della Tv via cavo è passata dalle domande di Larry King alle risposte di Bill O’Reilly. Su CNN il suo rivale Anderson Cooper si coinvolge personalmente nei resoconti. Lou Dobbs, anch’egli su CNN, si agita contro l’esportazione di mano d’opera. “Dateline” va a caccia di chi molesta i bambini. Perfino figure meno controverse danno sostegno a qualche causa precisa: Sam Campion, metereologo di ABC, difende il consumo ambientalista. La cultura della risposta nel giornalismo, parte del nuovo “branding”, rappresenta un approccio più idiosincratico e meno ideologico del puro giornalismo di parte. 
L’uso dei blog sta per entrare in una fase di tipo nuovo, che probabilmente significherà scandali, profitti per qualcuno e la divisione in elite e non-elite in tema di standard e deontologia. Il ricorso ai blog nelle campagne politiche per le elezioni di metà legislatura del 2006 va già intensificandosi nella marcia verso le elezioni presidenziali del 2008. Anche le pubbliche relazioni a livello imprenditoriale stanno iniziando a usare i blog, spesso in maniera celata. Quel che fornisce al blog autenticità e valore  — l’accesso aperto — lo rende anche vulnerabile ad abusi e manipolazioni. Allo stesso tempo, qualche blogger più quotato è già avviato sulla strada del business o dell’assimilazione nei grandi conglomerati mediatici. È probabile che tutto ciò finisca per far perdere al blog un certo fascino come strumento di citizen media. Per auto-tutelarsi, alcuni dei blogger più noti vanno riunendosi in associazioni, con codici etici, standard di comportamento e altri strumenti. Il paradosso di rendere professionale il medium onde preservarne l’integrità come piattaforma per i cittadini indipendenti è l’inizio di una fase nuova e complicata nell’evoluzione della blogosfera.

Mentre i giornalisti considerano il web con maggior serietà, non ci sono ancora modelli precisi su come fare giornalismo online, e alcuni aspetti vengono esplorati solo in modo marginale. Quest’anno la nostra indagine ha esaminato da vicino oltre trenta siti Web d’informazione. L’obiettivo era quello di stabilire lo stato del giornalismo online all’inizio del 2007. Abbiamo notato che le radici di una testata non ne definiscono più il carattere del sito in senso stretto. I siti del Washington Post e del New York Times, ad esempio, differiscono parecchio dai corrispettivi cartacei. Secondo noi, il Post sta iniziando ad avere vari elementi in comune con altri siti. Il settore è tuttora in una fase altamente sperimentale, con un’ampia gamma di opzioni, ma può essere difficile distinguere quel che offre un certo sito rispetto a un altro. E alcune delle potenziali capacità del Web sembrano essere meno sviluppate di altre. I siti hanno fatto parecchio, ad esempio, per sfruttare al meglio l’immediatezza, esplorando però assai meno i possibili approfondimenti.

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