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Protocollo Australia

La notizia è nota. Per chiarezza la riepiloghiamo brevemente qui di seguito. Per dovizia di cronaca, il resoconto che segue risale a quasi un anno fa e va aggiornato con i fatti degli ultimi giorni:

Google non paga gli editori francesi Facebook quelli australiani. L’idea di condividere contenuti e quindi aver diritto ad una remunerazione non funziona con le Ott. Eppure sembrano tutti convinti del contrario e invece di aprire una trattativa paritaria in tal senso che vedesse ai due lati del tavolo aziende editoriali e governi da una parte e techno corporation dall’altra: negli ultimi dieci anni si è agito in modo individuale e scomposto, convinti di fare il “meglio” per sé e il proprio minuscolo consesso, trattando in modo diretto caso per caso e non ponendo la questione in modo “istituzionale”. Al limite, si è arrivati alle minacce,  più o meno velate, oppure si sono aperti tavoli di trattativa su “presunte” violazioni di “fantomatici” diritti. Mentre dalla “Valley” ci sfilavano via via tutte le seggiole da sotto il  sedere, facendo venire meno ogni posizione di privilegio, vera o presunta che fosse a favore degli editori. Ogni possibile vantaggio si è perso per strada. Il punto di rottura venne raggiunto, più o meno cinque anni fa,  con l’annuncio e poi la realizzazione del “presunto” accordo fra editori e Google e fra editori e Facebook, – due accordi diversi ma simili e complementari –  che “permetteva” agli editori di produrre e distribuire i propri contenuti direttamente dentro il motore di ricerca e il social. 
Ottenere quel pugno di dollari,  “pochi maledetti e subito”,  avevano  convinto gli editori che fosse sufficiente ad arginare la crisi. 
Invece quella è stata la  condanna definitiva del settore a vantaggio dei padroni delle piattaforme. Cedere di comune accordo la titolarità nella produzione dei contenuti informativi, aprire una trattativa economica – subito conclusa –  in tal senso, senza partire dal punto primo di tutta la vicenda: il punto dei diritti inalienabili all’informazione, meglio alla libera circolazione delle notizie. Insomma dagli articoli delle Costituzioni degli Stati e dalle Carte dei diritti dell’Uomo e dell’Umanità. Dalla salvaguardia dei diritti e non dalla monetizzazione dei contenuti.
Poi sono arrivate le leggi. A “presunta” tutela di questo e di quello. E che  invece hanno distrutto gli ultimi pezzettini della “nostra” supremazia.
Divide et impera dicevano i romani.
E adesso, oramai da qualche anno, le singole categorie e i singoli stati raccolgono quello che hanno seminato. 
L’Adagio popolare direbbe: “chi semina vento raccoglie tempesta”.
Il primo segnale è arrivato dalla Spagna. Google non paga? Chiudiamo google news. Oddio che abbiamo fatto? Senza google news sono scomparsi anche tutti gli altri clienti pubblicitari. Allora riapriamo. Però alle nostre condizioni. (ma certo come no,  e intanto ad Alphabet ancora ridono). 
Poi è successo in Francia con la legge sul copyright europeo. Approvata dai transalpini due anni prima che entrasse in vigore in Europa per far entrare i soldi di Google nelle esauste casse degli editori e del Paese (con le tasse). 
Ma Google meglio di un qualsiasi italiano che si arrangia, ha messo immediatamente in atto un altro adagio popolare: “fatta la legge gabbato lu santo”. E ha provveduto a negare – per legge, la propria – ogni possibile remunerazione a editori e stati.
Adesso arriva Facebook e il contenzioso sui contenuti e i soldi  con gli editori e lo stato dei canguri. 
In questo caso Zuck e compagni  hanno sostenuto che piuttosto di condividere i guadagni pubblicitari con gli editori,  chiuderanno la sezione “notizie” dell’app, dove si svolgono solo una piccola parte delle attività svolte dai loro utenti. 
Vi suona forse familiare?
 Una recente legge australiana imporrebbe ai “non editori” della Silicon Valley di firmare un “codice di condotta” che, tra le altre cose, prevederebbe  la condivisione dei guadagni provenienti dalle notizie pubblicate sulle piattaforme.
Il resto è cronaca di questi giorni. Con l’epilogo finale ben chiarito da Michele Mezza in un suo pezzo in cui citando il giornalista francese Jean Jacques Servan –Schreiber, e la sua espressione “Noi li paghiamo perché loro ci comprino”, il nostro illustre collega, sintetizza perfettamente il compromesso raggiunto fra editori, Facebook e Stato australiano:

Raggiunta nella notte l’intesa con il governo di Canberra per la normativa che prevede il pagamento delle news e dei link prodotti dalle testate editoriali. Un accordo che in qualche modo riprende e si adatta all’intesa che Google aveva già stipulato con il magnate editoriale Murdoch qualche giorno fa, con la quale il gruppo di Mountain View ha voluto rimarcare che spetterà esclusivamente alle piattaforme decidere chi e come retribuire.

 

…le piattaforme, in conseguenza di quest’ambizione del governo australiano, potranno legalmente e ufficialmente, decidere quali gruppi e testate sostenere e in che forma, senza alcun automatismo e soprattutto, come aveva precisato Google, senza nessuna intesa complessiva di categoria, ma procedendo, nella massima discrezionalità, con accordi separati, testata per testata.

 

…si accorda ai grandi monopoli digitali il ruolo di promotore e tutore del sistema editoriale, con il potere di selezionare i buoni rispetto ai cattivi

 

Inseriamo a questo punto della trattazione un paio di altre notizie, diffuse su alcuni dei nostri canali di comunicazione e in particolare sul gruppo whatsapp e sul canale telegram di LSDI poco meno di un anno fa. La prima arriva da Mountain View e attiene in modo specifico proprio alla materia di cui stiamo ragionando oggi: i contenuti terzi, meglio se editoriali, meglio ancora se prodotti da professionisti dell’informazione.
1 miliardo di dollari per assicurarsi contenuti di qualità. Questa la cifretta messa a bilancio dagli amministratori di  google per realizzare “Google News Showcase”: una sorta di aggregatore di notizie di alto livello. L’app espressamente dedicata al giornalismo e agli editori nascerà quest’anno  in Germania e in Brasile prima per i devices di Android e poi per  Apple. L’operazione riguarderà prima  Google News, e poi a stretto giro anche Search e Discover. La techno corporation che come le altre consorelle nega da sempre di essere o voler diventare un editore, entra a piedi uniti nel settore editoriale per – questo almeno è quello che hanno dichiarato i vertici di Alphabet – creare un luogo della rete totalmente scevro dal cancro delle fake news. A noi sembra più l’ennesima manovra per “comprare” gli editori per 30 denari. Come dire, meglio “pochi, maledetti e subito”, che litigare che loro  e rischiare cause milionarie. Ma soprattutto meglio pagare  per avere contenuti, ancorché di qualità, che rischiare la desertificazione del web. Come si ricorderà la compagnia americana è in causa con numerosi editori in varie parti del mondo, in particolare in Australia, dove non solo gli editori ma  anche il governo ha messo nel proprio mirino i signori di Mountain view. In Europa i più attivi contro Google, dopo l’approvazione della sciagurata normativa  europea sul diritto d’autore,  sono gli editori francesi. Al momento dentro a questo nuovo progetto di Google sono entrati più di 200  editori. News showcase per il momento non interesserà l’Italia. Intanto  nel prossimo futuro il servizio  partirà in molti altri stati fra cui India, Belgio e Olanda.
E a proposito di bufale, anche Twitter starebbe realizzando un nuovo sistema per arginare il fenomeno. Una sorta di delazione di servizio, o forse un servizio per delatori. Insomma sfruttando il voyeurismo o meglio incentivando  la “voglia di farsi giustizia da soli”, molto presente online , il social dell’uccellino avrebbe messo a punto un metodo di sorveglianza per le fake news circolanti dentro Twitter basato unicamente sulle segnalazioni degli stessi  utenti. Saranno gli iscritti a definire i tweet buoni o fasulli.
Non sappiamo come la vedete Voi, ma ci sembrano davvero pessime notizie, in particolare per il giornalismo e più ancora per la funzione d’uso del giornalismo. Non è in questo modo –  addomesticando il sistema – che si forniscono agli utenti gli strumenti  per  formarsi un’opinione liberamente.

La seconda notizia sulla quale Vi chiediamo di riflettere arriva ancora dai nostri canali in chat e da epoche relativamente recenti –  un anno fa circa – e racconta un’altra iniziativa intrapresa dalla cosiddetta “società civile” nei confronti delle Ott e in particolare di alcuni comportamenti delle Ott, comportamenti che in un nostro articolo del 2017 venivano sintetizzati perfettamente da Robin Good in questo passaggio:  è necessario creare un’alternativa che ci renda autonomi e non ci faccia dipendere da una risorsa come quella di Google. Il rischio è di incamminarsi sempre di più nella direzione in cui sarà l’establishment, di cui Google fa parte, ad arrogarsi il potere di decidere quale sia la verità”.

Un nutrito gruppo di startup digitali specializzate in viaggi si sono unite in Germania in una causa legale contro Google. Le accuse mosse contro il motore di ricerca sono numerose, ma coinvolgono principalmente la posizione dominante di Google nel campo della ricerca on-line. In particolare, Google si approprierebbe dei dati dei suoi clienti per sviluppare alternative più economiche, senza permessi né risarcimenti. Se lasciato fare, dicono gli accusanti, Google creerebbe una situazione dove il motore di ricerca diverrebbe l’unico posto dove gli utenti effettuano le proprie attività, senza entrare all’interno di siti o piattaforme di terze parti. Negli Stati Uniti il portale di testi di canzoni Genius ha smascherato Google grazie a uno speciale watermark, che ha svelato come il motore di ricerca prelevasse senza autorizzazione i testi dal sito, per mostrarli nelle proprie schede informative.
Tutti questi elementi dovrebbero servire per formarci un’opinione in merito. Speriamo sia così. Noi abbiamo una posizione estremamente chiara sulle questioni trattate, chi ci segue la conosce a menadito, e che non andremo a riproporre per non annoiarVi ulteriormente. Ci affidiamo per le conclusioni ad alcuni passaggi di un post sul tema “australiano” pubblicato qualche giorno fa sul canale telegram Disobbedienze dal giornalista e scrittore Nicola Zamperini, grande esperto di questioni digitali e comunicazione, intanto grazie dell’attenzione e alla prossima ;)
Il web non è Facebook e nemmeno Google. Pure se le piattaforme rappresentano per miliardi di persone il web, perché vi trascorrono buona parte della loro esistenza digitale, il web è molto altro. E’ molto di più: esistono altri social network e altri motori di ricerca, altri sistemi di messaggistica fuori da queste due aziende.
Il web ha introdotto, fin dalla sua nascita, la possibilità di condividere contenuti. E questo è magnifico, ha aperto il mondo, ha spalancato possibilità inedite. Adesso due monopoli mondiali hanno fatto razzia di questo principio meraviglioso. Colpire i monopoli non significa colpire il principio. Tantomeno colpire il web. 
Il giornalismo produce contenuti, le piattaforme no; semmai le piattaforme ordinano i contenuti. Ordinare è essenziale nella vita degli esseri umani. Quando non c’era Google, e nemmeno Facebook, esisteva già. Omero elencava le navi e i condottieri nell’Iliade per stabilire chi fossero i potenti del tempo, chi meritava di essere ricordato, celebrato.
Chi costruisce elenchi esercita sempre un potere rispetto ad altri poteri.
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