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Giornalismo e votazioni

Quando si parla di ruolo odierno e moderno della professione giornalistica, quando – come sosteniamo qui a bottega da tempo – si chiede che venga rilanciata e nello stesso tempo tutelata la “funzione d’uso del giornalismo”, spesso non si riesce ad intendersi, ad essere compresi. Proviamo a produrre un  esempio,  in modo da riuscire a chiarire il concetto. Il nuovo farmaco  contro il Corona Virus da poco presentato al mondo intero e già largamente pubblicizzato ovunque e dovunque, non è ancora stato certificato ufficialmente dagli organi di controllo istituzionali che supervisionano la diffusione dei farmaci nel mondo e nei singoli stati. In particolare essendo prodotto negli Stati Uniti, l’antivirale è, ancora, in attesa di approvazione per la distribuzione e la vendita da parte della Food and Drug Administration, la, oramai, nota a tutti, – dopo questi 20 mesi di pandemia – FDA. Ebbene, nonostante questa limitazione, non certo di poco conto. Andate a vedere in giro “cosa e quanto” si dice di questo farmaco. Raccogliete brevemente le notizie che circolano sulla stampa, sugli organi di informazione in generale e più alla rinfusa ovunque sul web. Tutte le notizie che riuscirete a trovare – e sono davvero molte –  hanno una sola e unica fonte: l’ufficio stampa dell’azienda farmaceutica che produce e commercializza  l’antivirale. Migliore esempio, crediamo, non ci sia, per spiegare quanto – oggi più di sempre – il ruolo del giornalismo sia, davvero,  fondamentale, per contribuire in modo determinante al “corretto” assetto della società. Ovvero alla libera diffusione delle notizie. Tutte le notizie. Ovunque, dovunque e a chiunque. In un tempo, nemmeno troppo lontano, per far uscire le “loro” informazioni, sugli organi di informazione,  gli uffici stampa dovevano inventarsi strategie a supporto e mille altre “diavolerie”. E sovente, non riuscivano ugualmente a centrare il bersaglio, per intero. Ora, nell’epoca della disintermediazione,  – un giorno proveremo a definire meglio questo concetto – queste problematiche sono state ampiamente superate e soppiantate da altri eventi – qualcuno le definisce fake news, altri parlano di polarizzazione, camere dell’eco, e tanto altro ancora – in ogni caso, a nostro avviso, per poter affrontare questi diversi e nuovi frangenti in cui si spezza, suddivide e ricompone, il chiacchiericcio diffuso “che compone il mondo moderno”, serve  giornalismo. E di quello buono. Scherzi a parte,  abbiamo bisogno, a nostro avviso, di rimettere assieme, in forma nuova, dinamica e aggiornata, il comparto dell’informazione professionale in ogni sua forma. Giornalismo fatto da professionisti. Persone competenti, preparate, e in linea con i tempi che stiamo vivendo. Ecco perché, la tornata elettorale,  che fra qualche giorno porterà tutti i giornalisti italiani a eleggere i propri organi dirigenti, in sede nazionale e nelle varie sedi regionali,  è “dannatamente” importante, forse la più importante di sempre.

Arriviamo a questa convocazione elettorale dopo tonnellate di polemiche di vario tipo e titolo, e dopo forzature, strozzature e pronunciamenti vari e ad ogni livello, anche quello Ministeriale. Molto,  moltissimo fumo e chiacchiere inutili, a nostro personalissimo avviso, e poca, davvero scarsa sostanza, sono passate sotto i ponti, in questi ultimi contrastati mesi. Così come poco senso e sostanza hanno, purtroppo,  i – a dire il vero – pochi, programmi che abbiamo visto circolare online, a firma  dei vari gruppi e formazioni che si presentano a queste votazioni. Il giornalismo del presente o meglio la funzione d’uso della nostra professione, – che vorremmo tanto fosse preservata e tutelata sopra ogni cosa – rimane l’unico modo, a nostro avviso,  per salvare la professione – da una parte –   e garantire la corretta e completa diffusione delle informazioni fra le persone, dall’altra. Solo partendo da questo presupposto si potrà davvero fare qualcosa di concreto per il comparto dell’informazione e i suoi oltre centomila addetti in Italia.

 

 

 

 

 

Era il 2013, e su Lsdi, il nostro fondatore e mentore Pino Rea, a proposito di giornalismo e di “funzione d’uso del giornalismo”,  scriveva cose davvero importanti e utili,  riportando notizie, spunti e pareri che alimentavano il dibattito in quei giorni negli Stati Uniti  e che riguardavano proprio la definizione e il ruolo del giornalismo nella civiltà odierna:

 

 

 

Con l’ esplosione degli strumenti di comunicazione in rete, scriviamo continuamente su GigaOM, chiunque è in grado di diventare un giornalista in qualsiasi momento – e in teoria questo significa che chiunque dovrebbe avere la protezione del Primo Emendamento quando sta facendo giornalismo. Come la Corte di Appello degli Stati Uniti ha stabilito nel 2011:

 

“I cambiamenti nella tecnologia e nella società hanno reso i confini tra privato cittadino e giornalista estremamente difficili da segnare [e] le notizie hanno ormai le stesse probabilità di essere diffuse da un blogger attraverso il suo computer e da un cronista in un grande quotidiano. Tali sviluppi rendono chiaro perché la protezione del lavoro di raccolta delle informazioni giornalistiche assicurata dal Primo Emendamento non possono basarsi su credenziali o status professionali “.

 

E non è proprio questo ciò che gli artefici della Costituzione volevano? Nel momento in cui quel documento è stato scritto, la “stampa” consisteva più di pamphlettisti come I. F. Stone (e quindi di blogger) che di testate come il New York Times. Questo può rendere difficile – se non impossibile – definire in via definitiva chi è giornalista e chi non lo è, ma alla fine penso che finiremo con una sfera mediatica molto più aperta (e sì, anche molto più caotica) e che, nel lungo periodo, questa sia una buona cosa.

Dan Gillmor giornalista statunitense studioso ed esperto di nuovi media e nuovo giornalismo tecnologico

 

 

Sono circa 110 mila i giornalisti italiani iscritti all’Ordine,  e solo una piccola e oramai trascurabile parte, poco più del dieci per cento, sono i giornalisti dipendenti, quelli contrattualizzati e dunque tutelati,  mentre il resto, la stragrande maggioranza dei giornalisti italiani,  –  quelli che alimentano con il proprio lavoro quotidiano gli organi di informazione ad ogni livello – sono senza contratto, free lance, autonomi, o peggio, “fintamente” sotto contratto. Persone che lavorano tantissimo,  per molteplici datori di lavoro – nella maggior parte dei casi –  e riescono a stento a mettere insieme una cifra dignitosa per sostenersi e arrivare a fine mese. Di queste persone, oggi,  è fatto il nostro lavoro. Ed è a queste persone e con queste persone che bisogna parlare per mettere a punto un piano di salvataggio per il comparto dell’editoria giornalistica di questo Paese. Smettiamo di pensare ai contrattualizzati, loro si salvano da soli, lo hanno sempre fatto a dire la verità, ma – adesso più che mai – quel settore del lavoro,  è residuale e in via di estinzione, senza alcuna possibilità di ripensamento o rovesciamento di prospettiva. Nel frattempo e nel mezzo di questa crisi epocale e diffusa in tutto il mondo dove, – mascherandole da fake news etc.etc. – l’accesso alle informazioni in modo corretto, libero e diffuso, viene via via impedito non per colpa o a causa della crisi dell’editoria ma dall’ignoranza sempre più diffusa sul come funziona la nostra civiltà del presente –  oramai del tutto digitale – e la sempre maggiore tracotanza e invadenza delle OTT che con piccoli e grandi trappole, oltre ai fantomatici 30 denari scambiati sotto banco con politici e imprenditori,  stanno avocando a sé il controllo di tutto il comparto dell’editoria di informazione mondiale.

 

 

C’è una differenza enorme, soprattutto nei paesi anglosassoni, su come sono organizzate le strutture imprenditoriali del giornalismo e su come queste strutture sono protette/tutelate dalle leggi e dagli Stati. Ma non ci sono differenze anzi non ce ne possono essere sulla “funzione del giornalismo”, ora più che mai. E gli estratti dall’articolo del 2013, pubblicato su questa piattaforma, oggi come allora, ci aiutano a far chiarezza su temi importanti, fondamentali, di cui ancora adesso si sente l’esigenza di parlare.

 

 

 

 

 

 

Il giornalismo non è i contenuti. Non è un sostantivo. Non ha bisogno di essere una professione o un’attività industriale. Non è un bene raro che va controllato. Non capita più nelle redazioni. E non si limita più alla forma narrativa.

 

Allora che diavolo è il giornalismo?

Il giornalismo è un servizio. Un servizio il cui fine, ancora una volta, è formare un pubblico informato. Ai miei studenti di giornalismo imprenditoriale fornisco una ampia definizione-ombrello: il giornalismo aiuta le comunità a organizzare le loro conoscenze in modo che possano meglio organizzare loro stesse.

 

Così tutto ciò che serve in modo concreto a una comunità informata alla fine è giornalismo. Chiunque può aiutare a farlo. Il vero giornalista dovrebbe desiderare che chiunque possa partecipare a questo compito. E, alla fine, è per questo che ho scritto Public Parts: perché io celebro il valore che emerge dalla dimensione pubblica, dalla capacità di chiunque di condividere con tutti quello che lui o lei sa e l’etica che dice che la condivisione è un atto generoso e sociale e la trasparenza dovrebbe essere una caratteristica del tutto normale per le nostre istituzioni.

 

C’ è un ruolo che i cittadini possono svolgere per contribuire a questo processo? Assolutamente sì. Io dico che le redazioni possono aiutare favorendo il flusso e la raccolta delle informazioni, che ora può avvenire senza di loro, offrendo piattaforme su cui le comunità possono condividere ciò che sanno. Poi, certo, penso che spesso c’ è bisogno di qualcuno per aggiungere valore a questo processo con queste pratiche:

 
* Porre le domande che non trovano risposta nel flusso dell’ informazione,
* Verificare i fatti,
* Smascherare le voci,
* Aggiungere contesto, spiegazione e sfondo,
* Fornire funzionalità che consentano la condivisione,
* Organizzare iniziative per la collaborazione da parte delle comunità, di testimoni ed esperti.

 
Allora, non sto facendo altro che ricostruire la descrizione del giornalista? Sto cercando di dire che forse non dovremmo chiamarlo così, perché è chiaro che la parola “giornalista” si porta dietro un bagaglio di qualche secolo e il conflitto su chi lo controlla. Queste funzioni – e varie altre – non hanno bisogno di essere cristallizzate in un tipo specifico di persone o di organizzazioni.

 

Beh, e per quanto riguarda la questione giuridica? Non sarebbe meglio alla fine avere una definizione di giornalista in modo da poter sapere chi è protetto da una legge scudo? No. Perché in questo modo si definirebbe anche quelli che non sono protetti, esponendoli quindi a dei rischi. Quelli che chiamiamo a volte ”whistleblowers ” (informatori) e contro cui il nostro governo, invece di proteggerli, è in guerra: ma che cosa diffondono? Informazioni, informazioni sul nostro governo, informazioni su di noi, le informazioni che ci aiuteranno a organizzare meglio noi stessi come una società libera.

Jeff Jarvis giornalista americano, professore associato, oratore pubblico ed ex critico televisivo scrive di media e informazione

 

 

 

 

 

La tanto invocata e più volte evocata riforma dell’ordine dei giornalisti in Italia,  non può essere che quella che parte dagli autonomi. Che si avvia dal giornalismo praticato, non dai codici e dalle aziende. Ripartire da quei centomila. E a loro garantire per “legge” quelle “necessarie aggiunte” che potranno fare la differenza e fornire garanzie di dignità e sicurezza a ciascuno di coloro che esercita la professione giornalistica nel nostro Paese. Ogni autonomo, ogni free lance, ogni libero professionista da oggi in poi dovrà sentirsi garantito attraverso le proprie istituzioni per quello che riguarda:  i compensi, i rischi professionali, la situazione contributiva e pensionistica, per l’assistenza sanitaria. Bisogna agire, adesso, non domani, e non attraverso fumose e mai portate a termine proposte di legge. Qui e ora e attraverso l’attività dei propri organi istituzionali è necessario garantire questi interventi primari. Solo dopo avere avuto la certezza e la conferma della realizzazione di questi passaggi, si potrà ripensare al futuro del giornalismo italiano in modo concreto.

 

 

 

  1. Compensi trasparenti e dignitosi. Serve un tariffario professionale della categoria, ragionato e plausibile. Da poter applicare in ogni sua singola parte,  e ovunque sul territorio nazionale.
  2. Una legge dello Stato a difesa e a tutela dell’attività professionale dei giornalisti.  Solo dopo l’approvazione di una legge di settore sarà poi possibile mettere a punto una assicurazione professionale per  la categoria che le Istituzioni e lo Stato dovranno concordare con le maggiori compagnie nazionali e internazionali.
  3. Una revisione generale e profonda dell’Istituto pensionistico del comparto – Inpgi –  a favore dei non contrattualizzati. Ricalibrare il tutto perché sia adeguato alle reali esigenze del settore e in particolare dei lavoratori autonomi.
  4. Una revisione della mutua dei giornalisti in funzione dei veri protagonisti del settore, gli autonomi.

 

 

 

Solo ridando dignità e sicurezza ad ognuno dei 100 mila giornalisti italiani, non sotto contratto, potremmo risalire la china e riportare l’informazione al centro del dibattito pubblico e soprattutto al servizio del Paese, in un momento così delicato,  per la stampa e per l’informazione “libera”, in ogni luogo e posto del mondo, e soprattutto sul web.

Grazie dell’attenzione e alla prossima ;)

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