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Notre Dame brucia e io non ho niente da mettermi

Perdonate il titolo forse un tantino irriverente, ma in realtà è frutto di una serie di citazioni non ultima quella che ci segnala il nostro associato e amico Andrea Fama e che inserisce  fra gli altri anche Woody Allen fra gli ispiratori del nostro titolo :

 

 

“l’eterno nulla va perfettamente bene se sei disponibile ad affrontarlo con l’animo adatto”.

 

 

Quale sia il nulla o meglio l’ovvio che proviamo ad affrontare nel nostro ragionamento ce lo ha suggerito un post su facebook del data scientist Luca Corsato in cui si leggeva fra le altre cose questo specifico passaggio : ” c’è sempre e solo la ricerca frenetica dell’emozione e non dell’informazione. Non riesco più a reggere questo, e propendo sempre più per l’isolamento “.

 

 

A parte la chiusa personale, desolata e desolante di Corsato, l’attacco del post ci porta dritti dritti al tema di questa nostra riflessione che ci piacerebbe  essere riusciti a sintetizzare nel fantasioso titolo di cui sopra. Il tema è il giornalismo, tanto per cambiare, e la reazione più o meno scomposta dei media mainstream all’ennesimo grave fatto di cronaca. Nello specifico l’incendio alla cattedrale parigina di Notre Dame. Perchè definiamo “reazione scomposta” dei media, i racconti, che tutti, più o meno, i media mainstream hanno realizzato durante l’incendio della cattedrale francese. Beh non serve certo consultare gli esperti per comprendere la nostra critica. Basta provare a riascoltare, rivedere, rileggere sui siti, cosa veniva scritto, detto, filmato durante l’incendio. Trattasi di giornalismo dell’ovvio, come spiega bene nella sua frase Luca Corsato: ricerca frenetica dell’emozione e non dell’informazione. Ancora meno della sola emozione aggiungeremo, talvolta  il  sensazionalismo. Nessuna empatia, nessuna cronaca puntuale, che non significa ripetere a papera quello che le immagini che tutti abbiamo di fronte già ci raccontano,  ma aggiungere continuamente e con certosina pazienza tanti piccoli particolari in più, mentre si continuano a cercare febbrilmente le notizie.

 

 

Le notizie, sapete, quelle cose che nessuno ha, se non i giornalisti, quei professionisti che vanno a procurarsele, spesso mettendo a rischio anche la propria vita, dentro ai luoghi in cui accadono, oppure parlando con gli esperti, oppure sentendo le persone, – i testimoni – non gli ignari passanti. O meglio.  I passanti possono di certo aggiungere pathos e colore ad un pezzo, ma non quando siamo davanti ad una notizia e proviamo a raccontarla in diretta, mentre accade. In quel caso “buttarla in caciara” non impreziosisce la narrazione, anzi non può che peggiorarla.

 

 

Lo abbiamo provato a scrivere diverse volte su queste colonne, il passaggio epocale dentro alla rivoluzione digitale, è un grande salto.  Un immenso balzo verso l’ignoto, che va compreso e  a cui bisogna consapevolmente adeguarsi. Il giornalismo, soprattutto quello mainstream, non sembra aver compreso ancora nulla – o quasi – di questo passaggio epocale, e tutte le volte che ci si trova di fronte ad una narrazione live,  quando manca  una qualche rete di salvataggio, proprio i professionisti, quelli che dovrebbero fare la differenza, dimostrano invece  in modo inequivocabile i propri limiti.

 

 

Prendiamo a prestito un paio di passaggi di un illuminante breve saggio, uscito come articolo su Nova 100 del Sole 24 ore, a firma del sociologo Piero Dominici, nostro associato e relatore talvolta dentro a qualche nostro digit, per aggiungere informazioni e meglio argomentare la nostra posizione. Nel pezzo che si intitola “l’innovazione sofferta le derive dell’informazione” uscito nel 2016, ad un certo punto il sociologo romano dice:

 

 

“…  la solita ricerca incessante della spettacolarizzazione e di un’informazione “emotiva” che, non solo non approfondisce, ma si pone come obiettivo quello di intrattenere più che informare. Tutto va bene e funziona nel grande “circo mediatico” e nell’infosfera, purché faccia ascolti e raccolga pubblicità. Un circo mediatico – lo ribadisco – segnato da logiche di marketing  che hanno portato alla completa rimozione della centralità e della dignità delle Persone. Questioni di consapevolezza, questioni di libertà e responsabilità nell’informare e nel comunicare che non riguardano il livello delle competenze tecniche” .

 

 

Dominici sul giornalismo ha scritto molto, in particolare  per esaminare la reazione a dir poco “scomposta” dei media davanti ad una tragedia immensa come il terremoto dell’Aquila di dieci anni fa, ha pubblicato un libro: ” La società dell’irresponsabilità. L’Aquila, la carta stampata, i nuovi rischi, le scienze sociali “. Un volume che in epoca non sospetta invitava ad una riflessione sull’uso e sulla funzione dei media dentro, durante e dopo  un grave evento di cronaca come, ad esempio,  il devastante terremoto che ha colpito il capoluogo della Regione Abruzzo nell’Aprile del 2009.

 

 

Quello che vorremmo provare a dire è che nell’anno domini 2019 dopo oltre trent’anni di rivoluzione digitale il ruolo dei media è indubbiamente cambiato e in modo profondo.  La società liquida ipotizzata da Baumann si è certamente realizzata, i flussi informativi viaggiano liberi attraverso la rete e diventano sempre più facilmente “virali” passando di bocca in bocca o meglio di device in device, da un’utente all’altro, da una persona all’altra, senza che sulla diffusione di questi contenuti la stampa “ufficiale” svolga alcun ruolo – quando le cose vanno bene – o –  quando va peggio – si preoccupi di esercitare alcun controllo, prima di riprenderli e divulgarli essa stessa come “veritieri” o “veridici”, per non dire veri. Ma non vorremmo essere troppo esigenti.

 

 

Le notizie sono “commodities” come dicono da alcuni anni sociologi, specialisti di marketing – Pierluca Santoro per citarne uno proprio durante un nostro appuntamento digit ad esempio alcuni anni fa –  e anche giornalisti, proprio a #digit19, l’argomento è stato ampiamente approfondito da Nicola Zamperini durante il suo speech dedicato a “disobbedienza, technocorporation e algoritmi” 

 

 

Lo stesso giornalista e scrittore Nicola Zamperini in un pezzo scritto sul suo blog Disobbedienze sul caso Notre Dame ha espresso alcuni pareri assai illuminanti, a nostro avviso, sulla vicenda, vediamoli:

 

 

“Un primo argomento: mai nella storia dell’umanità, come in questa fase storica, l’umanità stessa è stata così travolta da una simile immensa polifonia di espressioni della propria emotività, un coro infinito che manifestava in contemporanea i propri sentimenti e le proprie emozioni. Centinaia di milioni di esseri umani hanno oggi la possibilità di esprimere quello che sentono e provano, nell’istante in cui lo sentono. E già questo è un fatto enorme per il quale occorre una nuova grammatica interpretativa”. 

 

 

“…non è facile subire un uragano emotivo che si scatena sotto i nostri occhi, indipendentemente dal grado di “autenticità” che sta dentro quell’uragano.
Le persone vogliono dire, condividere, presentarsi, auto-rappresentarsi, accusare, chiedere perdono o affetto, vogliono parlare al proprio pubblico tutti i giorni, 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno, figuriamoci quando una colonna di fumo e le fiamme avvolgono un simbolo millenario. Questa rappresentazione continua, e in tempo reale, serve in primo luogo agli autori della rappresentazione: costruisce e solidifica la loro identità e la loro personalità, li definisce per quello che sono”.

 

 

“I social network sono tutti fondati sull’istantaneità della reazione. La reazione deve essere immediata e viene pesata in quanto immediata. Un post pesa se in un breve lasso di tempo riceve molte reazioni; il peso comporta che gli utenti lo vedono subito, per primo, nella loro timeline. E perciò saranno chiamati a commentare, e spesso lo faranno”.

 

Di fronte ad una breaking new come quella dell’incendio di Notre Dame quale è stata la reazione dei media? La stessa di sempre ahimè. Nessuna empatia, nessun approfondimento, nessuna volontà di chiarificazione e spiegazione scientifica. E’ evidente che raccontare una notizia mentre sta avvenendo è uno dei compiti più improbi del giornalismo. Si va in diretta, senza sapere cosa accadrà l’attimo successivo e senza alcuna rete di protezione. Ma proprio per questo l’informazione professionale, quella che dovremmo pagare “per capirsi”, non può per nessun motivo diventare un circo, un posto dove ogni imbonitore prende la parola, un palcoscenico su cui tutti possono saltare per fare il proprio numero. Nella società iperconnessa in cui le notizie viaggiano in tempo reale senza controllo,  le immagini di Notre Dame che brucia sono disponibili online subito e dappertutto. Immagini anche migliori di quelle proposte live da una telecamera di un tg di una televisione il cui cameraman non riesce a inquadrare per bene l’incendio perchè deve stare dietro alle transenne messe dalla polizia. Le persone sono ovunque, davanti, dietro, sotto e sopra le transenne. Molti di noi si troveranno davanti al fatto. Dentro a quella stessa notizia. E le riprese che effettueremo con i nostri device saranno certamente più “giornalisticamente rilevanti”, di quelle di una camera lontana e posta dietro ad un cordone di agenti di polizia. Quello che manca alla società iperconnessa, alle migliaia di smartphone che inquadrano dalla strada, dalle finestre, dai droni, dalle barche sulla Senna, e da mille altre posizioni possibili:  la chiesa in fiamme,  sono le informazioni che aiutino a comprendere cosa stia realmente succedendo. Sono le informazioni di servizio per fare in modo che rimangano liberi i corridoi di accesso alla zona del disastro. Sono i dati che convincano le persone a non intralciare il lavoro delle forze dell’ordine o dei vigili del fuoco. Sono le notizie di pubblica utilità sulle possibili vittime della tragedia. Sono i pareri degli esperti sulla dinamica, lo sviluppo e la possibilità che l’incendio venga domato.

 

 

E poi, con un poi che dovrebbe poter essere grande come tutto questo articolo,  ci sono le posizioni espresse molto bene da Zamperini e che abbiamo sintetizzato qualche paragrafo fa. Polifonia, emotività, istantaneità, rapidità, confusione, cacofonia, ridondanza, eccesso di dati…etc.etc.etc.

 

 

Quella parte è tutto giornalismo a nostro avviso.  Indagare la nuova “grammatica interpretativa”, fare di questo studio  una parte del proprio lavoro,  e poi facendo tesoro  di tutte  queste nuove competenze,  inserirle nel proprio stile, nelle proprie dinamiche professionali, nel proprio metodo. Comprendere e saper affrontare la gestione di una community, un argomento che dovrebbe essere entrato da diversi anni nelle competenze dei giornalisti. E invece così non è. E tutte le volte che ci troviamo dentro a queste dinamiche si ripropone ai nostri occhi la pochezza, l’inadeguatezza, il totale disinteresse delle redazioni verso queste rinnovate e ineludibili esigenze professionali. Il non dover rincorrere la notizia. Non è più quel tempo. Le notizie sono commodities, ci scappano via, scorrono velocissime e frenetiche. Il compito di una redazione non è quello di dar loro la caccia, casomai di validarle, casomai di circostanziarle, casomai di arricchirle.

Nel flusso libero e precipitoso di milioni di diversi punti di vista, la capacità dei professionisti dell’informazione serve sempre di più per orientare la persone,  per  aiutarle a comprendere cosa stia realmente accadendo, per facilitare la formazione della pubblica opinione. Un’opinione che dovrebbe formarsi  in modo libero e il più possibile slegato da condizionamenti tecnologici e altri artifici censori e limitativi. In questo, anche in questo, il giornalismo può e deve fare la differenza. Non certo attribuendo alle OTT il controllo dei flussi o ancora peggio la selezione preventiva dei contenuti da far circolare in rete. Come invece sta sempre più accadendo. E come fra breve avverrà per legge, almeno in Europa, con l’applicazione delle nuova normativa sul copyright.

La differenza può ancora essere enorme, anzi sarà sempre  più marcata, ma dovrà partire da una rifondazione profonda della professione giornalistica, non da una diversa valutazione politica della funzione giornalistica, che è quello che sembra stia per accadere secondo quello che la politica dell’attuale Governo sta proponendo. E a quanto pare di questi argomenti gli Stati Generali dell’Informazione purtroppo non si occupano né si occuperanno. Almeno a giudicare dalla lista degli argomenti in programma.

 

La enorme differenza sta proprio nella mancanza di comprensione di quanto sia cambiata la nostra società in questi trent’anni e di contro  di quanto poco sia cambiata “au contraire” la professione giornalistica. Molte persone, anche dotti commentatori, hanno paragonato l’incendio di Notre Dame e le narrazioni giornalistiche che ne hanno fatto seguito,  all’attentato terroristico delle torri gemelle del 2001. L’impatto del fatto sull’immaginario collettivo. La narrazione dell’evento su tutti noi. Noi non crediamo che le cose stiano in questo modo. E per esprimere il nostro parere prendiamo a prestito un contributo trovato in rete. Un passo di un racconto breve dello scrittore e poeta Fabrizio Venerandi estrapolato da un suo post su facebook. Noi siamo di altro parere dal suo, secondo Fabrizio le due narrazioni sebbene distanti 18 anni nel tempo sono molto simili se non uguali, a nostro avviso sono invece assai diverse. Ma un passaggio del suo racconto testimonia in modo chiaro – a nostro avviso –  dove abbia fallito oggi come allora Il giornalismo nell’affrontare le due vicende:

 

“… sono stati i terroristi dice Cecilia e io casco dalle nuvole, dico che avevo letto male e ci mettiamo a guardare le immagini,  cazzo dico io, mica male, e anche Cecilia mi chiede se abbiamo qualcosa da sgranocchiare e io prendo delle patatine e restiamo a fissare questa eterna diretta con il niente, ripetono le immagini di questi aerei, il fumo, e ogni tanto diciamo cazzo sgranocchiando le patatine, si vede che non hanno niente da dire ma non vogliono interrompere intervistano di tutto, tutti dicono esprimono pareri su ogni cosa, una diretta con il nulla, un buco, una voragine che parte dal nostro cucinino, da quel foro luminescente sopra il frigorifero e chissà dove cazzo va a finire “.

 

 

In conclusione proviamo a indicare una forma di narrazione giornalistica davvero consona, davvero adatta al momento e al luogo. Il link se avrete la pazienza di aprirlo vi trasporterà dentro un mondo intero, non un semplice articolo di giornale.    Chiamarlo così è decisamente riduttivo. Si tratta di un’inchiesta  del New York Times. Bella forza, direte Voi, siamo nell’empireo del giornalismo mondiale! Ebbene sì, certamente è così, ma Vi potremmo portare numerosi esempi da siti e giornali molto meno famosi e ugualmente significativi. Espressioni del giornalismo del presente. Nello stesso identico modo consoni ai nuovi dettami di stile e di racconto dei contenuti. Molti di questi provenienti addirittura dal BelPaese. Ma non oggi e non adesso, per ora accontentiamoci dei cugini d’oltreoceano e se Vi avanza tempo data un’occhiata anche ai temi dell’inchiesta del Times non solo allo stile del racconto che ci sembrano ugualmente importanti. Grazie dell’attenzione e alla prossima.

 

 

 

 

 

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