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La società dell’irresponsabilità

Per provare a comprendere il preoccupante fenomeno della postverità, vera immagine perfetta del disgregamento sociale, della forte crisi del comparto dell’informazione, e forse in parte anche  della realizzazione della rivoluzione digitale, proviamo ad aggiungere alcuni  tasselli  alla breve disamina iniziata la scorsa settimana proprio su queste colonne. Le aggiunte ce le fornisce un breve ma efficace saggio di sociologia applicata realizzato dal professor Piero Dominici all’indomani del disastroso terremoto dell’Aquila del 6 aprile del 2009. Si tratta di uno studio empirico e la successiva valutazione complessiva realizzata da Dominici sul comportamento della stampa italiana nel racconto giornalistico dell’evento catastrofico. Dedicando il volume alle vittime del terremoto del 6 aprile, Dominci auspica che: ” la memoria delle vittime della catastrofe resti ben salda nelle persone, nelle istituzioni e, soprattutto nella politica, che è chiamata a decidere con competenza, senso di responsabilità e nell’interesse del Bene comune. Affinchè possa realizzarsi anche la ricostruzione del paesaggio sociale e culturale di chi è stato duramente colpito da questi eventi disastrosi. Affinchè la cosiddetta società della conoscenza non si configuri come società dell’ignoranza e della mancanza di competenze“.

 

 

Condividendo in maniera completa e totale le parole di Dominici vi lasciamo alla lettura di una serie di passaggi estratti dal libro del sociologo romano che insegna comunicazione pubblica e sociologia della comunicazione presso l’Università degli studi di Perugia, edito nel 2010 per Franco Angeli.

 

 

Gli effetti a lungo termine dei mezzi di comunicazione in particolare l’agenda setting  hanno evidenziato in maniera inequivocabile l’influenza dei media sui processi cognitivi e sulla costruzione sociale di immagini della realtà. Studi empirici hanno dimostrato scientificamente quanto il racconto dei media condizioni non soltanto la percezione che le persone hanno della realtà ma anche e soprattutto le rappresentazioni che vengono prodotte sulla stessa nel tentativo di ridurne la complessità magari cercando in qualche modo di sentirsi rassicurati. Ciò significa che l’azione dei giornali e degli altri mezzi di informazione determina la gerarchia delle tematiche su cui le audience possono farsi un’idea, discutere e, magari, intervenire pubblicamente; andando così a configurare una sorta d agenda dei temi principali riconosciuti dall’opinione pubblica come i temi di cui discutere.

 

 

Quando si racconta un evento catastrofico: terremoti, inondazioni, trombe d’aria; l’impatto emotivo è sempre fisiologico in questo tipo di eventi, quello che stupisce è la quasi totale assenza di un’analisi critica dell’accaduto e la presenza sui media di un unico tipo di approfondimento, quello “tecnico”.

 

1) narrazione evento 2) responsabilità e prevenzione 3) vissuto e storie di vita 4) previsione eventi catastrofici 5) politica e gestione dell’emergenza 6) ricostruzione e servizi 7) disagio della popolazione 8) libertà di informazione 9) abitabilità/agibilità 10) solidarietà 11) patrimonio artistico/beni culturali 12) criminalità 13) università e istruzione.  Questi sono i temi dominanti nel racconto delle catastrofi naturali. Assolutamente impercettibile , anche in termini di visibilità nei racconti del dopo catastrofe, la presenza e l’azione rappresentata di figure istituzionali da sempre invece molto impegnate nelle situazioni di emergenza come i militari, le forze dell’ordine, i vigili del fuoco. Un’altra assenza importante nella narrazione/rappresentazione dei disastri è quella del “lavoro”, un tema che dovrebbe/potrebbe invece essere dominante e allo stesso tempo una dimensione cruciale che i disastri tendono quasi a spazzare via con tutto quello che questo implica.

 

 

Altra questione cruciale riguarda il racconto e il tentativo, peraltro estramamente complicato, di spiegare il dramma delle persone e delle popolazioni coinvolte, la presa di coscienza e/o la rielaborazione del lutto, le ripercussioni sociali, politiche, economiche vengono descritte, narrate e “approfondite” esclusivamente da giornalisti – in molti casi dalla redazione e non sul campo – e, soltanto in percentuali trascurabili, da esperti, autorità e scienziati.

 

 

Un evento catastrofico non distrugge o rende inagibili soltanto case, palazzi, fabbriche e provoca il ferimento o la morte delle persone coinvolte ma provoca ripercussioni e danni gravi alle persone, agli affetti, alle identità, alle reti di relazione sociale, alle memorie e i luoghi in cui le persone coinvolte nell’evento avevano costruito e strutturato socialmente la loro esistenza.

 

 

Sulla base delle analisi è possibile definire un elenco delle criticità riscontrate nel racconto dei media riferito agli eventi catastrofici per una presa di consapevolezza che consenta ulteriori inferenze e deduzioni sul tema:

1) eccessiva emotività e sensazionalismo 2) quasi totale assenza degli esperti nel racconto della catastrofe 3) mancanza quasi assoluta di una lettura complessiva dei fenomeni e dei processi nelle questioni riguardanti la responsabilità e la prevenzione 4) approfondimenti tecnici a una sola dimensione e mancanza totale di altre voci tecnico/scientifiche nella narrazione a caldo ma anche successivamente 5) l’assenza totale delle università nei racconti nonostante gli atenei siano spesso al centro dell’attività economica dei territori colpiti dalle calamità 6) la mancanza di relazione fra il tema, ben approfondito e trattato dei beni artistici e culturali e l’università quale centro nodale delle attività di recupero e ripristino di tali beni.

 

 

L’informazione e un’opinione pubblica formata e criticamente informata rappresentano i prerequisiti fondamentali funzionali all’esercizio delle libertà individuali e dei diritti di cittadinanza: globale. E’ questa prospettiva che ci consente di affermare che oggi, come mai in passato, i giornalisti –  e con loro, i “professionisti” della comunicazione –  si trovanno di fronte a nuove sfide professionali sempre più strettamente correlate alla dimensione non più di un’etica dell’intenzione bensì di un’etica della responsabilità – basata sulla consapevolezza della nuova complessità della prassi e sul valore della formazione e delle competenze –  che ha il suo punto di forza nella attenta valutazione delle conseguenze del proprio agire informativo e/o comunicativo.

 

 

E’ necessario riportare l’attenzione sulla questione della deontologia dell’informazione ( il discorso vale anche per la comunicazione ),  sottolineando l’urgenza di una prassi informativa e comunicativa che, non soltanto a livello teorico, bensì nella concretezza delle situazioni dei differenti contesti storico-culturali, riconosca la centralità della “persona” e, fatto ancora più impegnativo, la verità sostanziale dei fatti, come peraltro recita la deontologia giornalistica.

 

 

Informazione e formazione possono/devono rappresentare sempre più, nel prossimo futuro, – o forse sarebbe meglio dire, ci permettiamo di aggiungere,  per una migliore comprensione del presente post rivoluzione digitale –  le risorse e “i beni intangibili” che consentono ai sistemi sociali ed alle organizzazioni complesse sia di fronteggiare le emergenze, a livello locale e globale, sia di gestire processi e dinamiche che presentano, già al loro interno, il germe del rischio e dell’insicurezza.

 

 

Senza alcun intento di fornire “ricette o soluzioni” proviamo a proporre alcuni punti sotto forma di linee-guida: 1)eccessivo protagonismo dei giornalisti e dei comunicatori 2) troppa spettacolarizzazione e sensazionalismo 3) poca attenzione alla riservatezza ed alla tutela delle persone (è fondamentale operare in maniera che la raccolta delle informazioni e immagini – diritto/dovere di cronaca – non si concretizzi mai in una forma di violenza fisica e psicologica) 4) poca attenzione e visibilità alle istanze della popolazione colpite dalla catastrofe 5) informazione eccessivamente ripetitiva 6) tendenza a drammatizzare 7) eccessiva distanza fra la rappresentazione del dramma e il dramma stesso, tra il vissuto e il raccontato dalle vittime 8) scarso o nessuno spazio per l’approfondimento e l’analisi 9) eccessiva ridondanza dell’informazione 10) eccessivo presenzialismo e protagonismo dei politici, cui viene forse dato troppo spazio dai media 11) stimolare una conoscienza più approfondita dei fenomeni, anche da parte delle audience 12) promuovere l’accesso dei cittadini ai mezzi di informazione 13) uso monotono e ripetitivo di forme cristallizzate della solita terminologia 14) abuso di figure  retoriche e di perifrasi 15) uso di termini a cui è attribuito un significato diverso da quello originario 16) eccesiva emotività nella scelta dei termini, nella titolazione e nei commenti, oltre che nell’uso delle immagini (foto e video)

 

 

La mancanza, sempre più evidente, di giornalisti sul campo, pronti a raccontare gli eventi in diretta crea degli spazi vuoti nella narrazione. In questi spazi hanno trovato il loro margine di azione ed il loro successo i forum, i blog, i citizen journalist che utilizzano gli stumenti digitali per raccontare e  il web come strumento di distribuzione dei propri contributi. Il giornalismo nel suo complesso deve necessariamente adattarsi a questa nuova era del pubblico attivo, ma è di vitale importanza che sappia mantenere una rotta e che ci sia una progettualità di fondo. Altrimenti, l’informazione è, inevitabilmente destinata ad essere sempre più ancella del potere ed in balia completa del mercato.

 

 

Evidentemente, non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma i nuovi giornalisti multimediali ( mi si passi la definizione ) tendono sempre più spesso a stare lontani dai fatti e dagli accadimenti che diventeranno –  o comunque potrebbero diventare – notizie. Allo stesso modo, sempre più frequentemente, si ricostruiscono notizie sulla base di ciò che è stato riferito da altri colleghi o, peggio ancora da chissà chi (attendibilità delle fonti), su ciò che è stato trovato sul web (social nettwork compresi), in cui esiste anche tanta disinformazione e si può produrre, perfino, allarme sociale.

 

 

Il vecchio giornalismo d’inchiesta, così importante per la vita dei regimi democratici e per la questione della cittadinanza, sembra – tranne poche eccezioni – andato ormai in pensione. Per trovare delle inchieste nell’informazione televisiva, in particolare, nelle fasce orarie di massimo ascolto, spesso siamo costretti a ricorrere a trasmissioni che, in realtà, sono di intrattenimento ( striscia la notizie, le iene), a conferma ancora una volta di un processo generale in atto di ibridazione (contaminazione) dei generi narrativi e mediali che, in maniera evidente, non risparmia neanche l’informazione, si parla infatti di infotainment.

 

In nome del fondamentale diritto/dovere di cronaca, una certa maniera di “fare informazione” ha prodotto, in molti casi, un genere informativo quanto mai “ibrido”, ai limiti della fiction o del reality. Tutti alla ricerca quasi ossessiva di scatti, immagini, commenti, lacrime, grida di disperazione, momenti di dolore che da “privati” sono diventati “pubblici”, discorsi personali e riservati che, improvvisamente, diventano appunto un “grande spettacolo mediatico” (anche, evidentemente, sui quotidiani che, non da oggi, soffrono la concorrenza di televisione e nuovi media, nonostante la convergenza)  cui far appassionare le opinioni pubbliche, andando ben oltre il sacrosanto diritto di informare e di essere informati e alimentando quella curiosità morbosa di assistere “con i propri occhi” alla sofferenza e al dolore degli Altri, di conoscere “tutto” nei minimi dettagli, anche particolari che nulla aggiungono alla completezza dell’informazione.

 

 

Quella curiosità morbosa che, negli ultimi anni, ha anche decretato lo straordinario successo dei reality show come format televisivo e che trova un elemento di congiunzione con il passato – in termini di consumi culturali – nell’altrettanto considerevole fortuna delle riviste settimanali scandalistiche e nel cosiddetto gossip, sempre più presente anche nelle prime pagine dei quotidiani di informazione e nei titoli d’apertura dei telegiornali, oltre che su tutti gli altri media.

 

 

Il racconto mediatico delle catastrofi, per avere successo, deve pertanto essere coinvolgente al massimo livello possibile, creando una corrispondenza di sentimenti tra lo spettatore e la persona interessata e arrivando a formulare, più o meno esplicitamente, una “proposta di impegno” alla spettatore (e al lettore), le cui caratteristiche sono ben chiarite da Luc Boltanski ( Lo spettacolo del dolore. )Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina, Milano 2000 ) che, non a caso, parla di topiche della sofferenza: “lo spettatore, rispetto ai media, si trova nella posizione di colui al quale viene fatta una proposta di impegno. Un altro spettatore, che gli riporta una storia e può presentarsi come un reporter –  vale a dire come un testimone oculare – o che può aver raccolto un’informazione che si considera avere come origine un testimone oculare ( come nel caso dei dispacci di agenzia ), trasmette alcuni enunciati e alcune immagini a uno spettatore che può riprenderli e, con le sue parole, trasmettere a sua volta quello che ne ha tratto e le emozioni che hanno suscitato in lui”.

 

 

Non è più possibile ignorare il ruolo strategico rivestito dalla comunicazione intesa, in questa sede, come processo sociale di condivisione della conoscenza, che si traduce operativamente in possibilità conoscitive e di azione consapevolmente orientate che vanno al di là delle logiche e degli eventi mediali. Un approccio e un modo di intendere l’organizzazione e i sistemi che comporta, tra le altre cose, necessariamente l’urgenza (strategica) di formare e addestrare gli operatori, informare e addestrare costantemente gli stessi cittadini che possono o si ritrovano direttamente coinvolti nelle situazioni di crisi e/o emergenza senza avere gli strumenti cognitivi e operativi per gestirle.

 

 

Il principio della responsabilità, che riguarda da vicino la libertà di ogni cittadino, il suo essere portatore di diritti ma anche – e soprattutto – di doveri, non può e non potrà mai essere imposto per legge, così come le competenze e la professionalità spesso non possono essere garantite da titoli o certificazioni (questo aspetto chiama direttamente in causa scuola e università): non esiste sistema di controllo e/o certificazione che possa garantirci fino in fondo rispetto alla qualità, all’efficienza, e all’efficacia di qualsiasi genere di impresa umana.

 

 

La comunicazione, la cattiva comunicazione, così come l’informazione irresponsabile e finalizzata più alla spettacolarizzazione che all’approfondimento possono generare paure e allarme sociale, scatenare conflitti, alimentare pregiudizi  e stereotipi, mettere in crisi interi sistemi produttivi, accrescere la percezione di insicurezza e precarietà (si potrebbero fare molti esempi in merito); ma sono anche in grado di incidere, in maniera assolutamente invasiva e capillare, sui processi conoscitivi e percettivi delle tradizionali reti di interazione sociale e dei nuovi social networks (reti), che innervano la sfera pubblica e vanno a costituire quell’opinione pubblica di fatto legittimata a definire e condizionare l’agenda della politica.

 

 

L’ipercomplessità dei sistemi sociali e la nuova rischiosità del rischio richiedono una rinnovata consapevolezza della centralità strategica della comunicazione, che non consiste soltanto nell’attenzione rispetto all’utilizzo (più o meno consapevole) ed al comportamento dei mezzi di comunicazione presenti in un dato contesto. Numerose sono le variabili ed i momenti di mediazione e di filtro all’interno della complessità dei flussi comunicativi. Ad essere chiamata in gioco non è soltanto la dimensione tecnologica dei mezzi e il loro utilizzo tecnicamente corretto ed efficace, ma una visione più globale, impegnativa e sofisticata del comunicare che implica una progettualità forte alle spalle, senza la quale perde di significato per arrivare successivamente ad una perfetta coincidenza con la neutralità – appunto – tecnica del mezzo; il comunicare è, pertanto, da intendersi come la capacità (individuale e collettiva) di gestire una molteplicità significativa e sfuggente d processi di varia natura legati in maniera sistemica l’uno all’altro, proprio mediante l’interazione (comunicativa) di competenze e abilità che, razionalmente, devono essere orientate alla condivisione delle informazioni e, ad un livello più complicato, dei saperi.

Si tratta di questioni così decisive che vanno poi ad incrociare da vicino la democrazia e l’essere cittadini fino in fondo.

 

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