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Il cuore del potere

Quale modo migliore di raccontare l‘ultima opera editoriale di Raffaele Fiengo, maestro di giornalismo, professore universitario e co-fondatore assieme a Pino Rea  di questo luogo della rete, da alcuni chiamato blog, dove proviamo a studiare il giornalismo e le sue molteplici forme, che affidare a lui stesso l’introduzione alla sua opera. Raffaele, non senza grandi difficoltà, è riuscito in un’impresa davvero preziosa per tutti noi, nessuno escluso, giornalisti e non, persone soprattutto, cittadini di un Paese, l’Italia, in cui la memoria fa difetto alla maggior parte di noi, e invece la generosità e la buona volontà ci contraddistingue. Ecco in questo luogo, in cui senza tema di retorica, viviamo tutti assai bene, in questo posto denso di contraddizioni  e luoghi, troppo spesso, “comuni”, sul potere e il controllo del medesimo, le parole di un testimone d’eccezione come Raffaele Fiengo servono a rimettere al centro la barra, riformulare i propri propositi e riprendere in mano le fila di matasse sin troppo complicate e dense di fatti e accadimenti, già dimenticati dai più sebbene ancora insoluti e grondanti sangue. I cosiddetti “misteri italiani” dalla P2, all’Italicus, dal Moby Prince all’ultimo, solo in ordine di tempo,  “omicidio Regeni” per quali tutti noi, nessuno escluso vorremmo tanto avere risposte. Le parole di Raffaele dall’introduzione in poi ci riportano dentro quell’agone, ci pongono saldamente dentro i fatti, ci accolgono ricostruendo con semplicità e rigore nel luogo e nel momento esatto dell’azione gli avvenimenti, e ci consentono di comprendere o provare a farlo “fatti e avvenimenti” quasi tutti rimasti senza soluzione alcuna e divenuti “tristemente” misteri all’italiana di cui tutti sanno ma di cui nessuno parla. Grazie professore, grazie davvero per aver avuto fede e coraggio nei fatti, per non esserti fatto scoraggiare e distogliere, per esserci sempre stato e aver provato a comprendere   e aver voluto provare a raccontare la verità, l’unica possibile, quella dei fatti, a tutti noi.

Giornalisti senza giornalismo

Ho scritto questo libro perché in Italia ci sono i giornalisti, ma non c’è il giornalismo, se non episodicamente. E non si forma l’opinione pubblica se non in momenti eccezionali e davanti a fatti gravissimi come il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta o gli attentati in cui rimasero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’ho scritto soltanto adesso perché ho sempre pensato che se ne potesse fare a meno, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino. Ora è quasi troppo tardi. Ma devo farlo. Solo la pratica diffusa di autentico giornalismo, che abbia come principale orizzonte la comunità, può mettere la democrazia sui propri binari e farla funzionare. Il mondo sta meglio. Milioni di uomini e donne sono collegati tra loro, ricevono notizie, si conoscono e si parlano. Già adesso si muore meno di fame e ogni individuo, piano piano, in futur avrà diritto di parola, sparirà l’infibulazione, le donne saranno meno schiave e i tagliagole fermati.

Non è, però, un processo lineare e senza ostacoli, bruschi arresti e sangue. La Primavera araba lo racconta bene. Si incomincia a capire che può compiersi, perfino nelle democrazie, soltanto se le persone, tantissime persone, dovunque «sapranno». Le grandi trasformazioni e la velocità fisica e virtuale delle comunicazioni rendono indispensabile l’informazione onesta e indipendente, a tutti i livelli. Gli Stati, gli organismi economici e i leader politici di fronte alle paure si piegano facilmente alle ondate demagogiche e agli interessi particolari dei poteri. Unico antidoto, la crescita culturale dei singoli. La facilitata propagazione delle informazioni (overload ) e degli stati d’animo più immediati (populismo) può avere, per le comunità, un senso compiuto solo se i fatti vengono interpretati correttamente da fonti credibili e in grado di farsi sentire. L’idea e l’efficacia di #journalismfirst hanno avuto più di una riprova internazionale. La fotografia del piccolo Aylan sulla spiaggia turca di Bodrum ha visto il prevalere della decisione di pubblicare su ogni altra ragione. Il 2 settembre 2015 Nilüfer Demir, fotografa dell’agenzia di stampa turca Dogan, si è trovat davanti il corpicino senza vita. «Mi si è gelato il sangue. L’unica cosa che potevo fare era far sentire l’urlo del suo corpo che giacev a terra, e così ho fatto.» Il resto è merito di Liz Sly, una giovane giornalista del «Washington Post» che, dall’ufficio di Beirut che guida, ha raccontato al mondo la storia. Questa immagine non è stata accolta subito dai media. La paura di essere cinici, di non rispettare e spettacolarizzare la morte inaccettabile di un bambino sulla battigia, per molte ore ha avuto la meglio. I giornali («El Mundo») hanno mostrato perfino in diretta ai lettori la propria riunione di redazione dove si discuteva se e come pubblicare la foto. Ma quel bambino era Somebody’s child, il bambino di qualcuno (come ha titolato l’«Independent» sotto la fotografia a piena pagina), aveva la maglietta rossa e le scarpe come uno dei figli di qualsiasi città d’Europa. Ed è prevalsa la necessità di raccontare, con questa immagine, l’inaccettabilità delle morti nel Mediterraneo. Leila Zoia, una giovane giornalista di Lsdi, ha realizzato uno storify in cui compare anche la nota di una lettrice che ha richiamato la pietas de I promessi sposi con l’immagine della «madre di Cecilia» che depone la figlia sul carretto dei monatti. 


È stato così che la fredda ritrosia dei governi sulla tragedia dei rifugiati, l’indifferenza e il cinismo sono stati travolti. Angela Merkel, poche ore dopo, ha annunciato che la Germania avrebbe aperto le sue porte. Forza del giornalismo più valori storici dell’Europa. In campo, insieme. «Sometimes singular images become iconic to the point that they spark governments to act» (Poynter Institute for Media Studies). Anche per Giulio Regeni, il ventottenne ricercatore italiano a Cambridge rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 nell’anniversario di piazza Tahrir, torturato, ucciso e fatto ritrovare nove giorni dopo in un fosso lungo l’autostrada per Alessandria, si è vista in atto la libertà dei media. La prudenza nei confronti del governo egiziano per la scoperta da parte di Eni dell’enorme giacimento di gas offshore Zhor nulla ha potuto contro la determinazione del giornalismo. Le parole di Paola Regeni, la madre, le inchieste de «la Repubblica», la denuncia del «Corriere» che il 3 aprile ha pubblicato i 533 nomi degli egiziani vittime di sparizioni forzate dall’agosto del 2015, hanno creato sui cartelli gialli sollevati in tutto il mondo la pretesa di «verità per Giulio Regeni». Il luogo del potere Questo stato di cose è sotto gli occhi di tutti. Ma in che modo proprio io posso essere di qualche utilità; perché possono essere importanti questi racconti di via Solferino per illuminare le vie da percorrere oggi, non solo lì?

Punto di partenza: quel palazzo storico, peraltro anche svenduto da non molto, è il luogo del potere dei media, terreno di sintesi del campo di forze che regolano l’informazione in Italia. Nei primi giorni caldi della sua direzione, quando doveva rimettere ordine tra le macerie, dopo che il giornale aveva subito la bufera della P2, Alberto Cavallari mi regalò un pacchetto di fogli, le dispense delle sue lezioni tenute dalla cattedra di Metodologia del giornalismo all’Università di Parigi 2, tra il 1958 e il 1970. Sarebbero diventate poi un libro, La fabbrica del presente. Lezioni d’informazione pubblica, uscito nel 1990 nei Saggi Feltrinelli. Cavallari basava le sue lezioni su una teoria delle informazioni che fornisce eccezionali chiavi di lettura lontane da ideologie e retoriche. Nel mio corso all’Università di Padova l’ho condivisa e la applico dall’anno accademico 2000-2001, seguendo i fatti e i temi del momento, sulla solida base di Professione giornalista di Alberto Papuzzi. Rifacendosi a Pierre Bourdieu, Cavallari parla dei giornali con una definizione felice. Dice che ogni quotidiano è «un campo di forze organizzate gerarchicamente in una struttura». Ovviamente, non solo il giornale propriamente detto, ma anche il settimanale, il mensile, il giornale radio, il telegiornale, il giornale online o su smartphone, tablet e così via. Il quotidiano, ogni volta che esce o si aggiorna, è un punto di equilibrio nel proprio campo di forze. I fattori che si presentano sono molti. Per semplificare, almeno sette o otto. Le forze principali si manifestano quotidianamente e trovano un raccordo in quel che si legge, si vede o si sente. Sono: la proprietà, l’amministrazione, la pubblicità, il marketing, la direzione commerciale (distribuzione/diffusione), la direzione tecnica, il direttore e i giornalisti. E da un po’ di tempo anche il social network con tutti i suoi strumenti. L’esempio più facile che mi viene sempre a lezione è il vistoso titolo in prima pagina de «Il Messaggero» il giorno che fu introdotto l’euro: È il momento di comprare casa. Il proprietario del giornale? L’immobiliarista Caltagirone. Il giorno in cui arrivarono invece Gelli e la P2 al «Corriere» non ce ne accorgemmo neanche noi giornalisti. Il pieno del coming out nella strategia di Gelli, padrone occulto del «Corriere» in maniera crescente dalla fine del 1976, rimanda alla famosa intervista di Maurizio Costanzo al Venerabile in prima persona in Terza pagina il 5 ottobre 1980. Ma i contenuti più subdoli, incanalati da fuori segretamente, sono stati messi sulla prima pagina del «Corriere» più di un anno prima, nel gennaio e febbraio del 1979. Quattro editoriali, uno ogni quattro giorni, più altri tre, uno al mese, oltrepassarono di parecchio la soglia della normalità di linguaggio di un giornale serio e autorevole come il quotidiano milanese. La scuola rotta, Le piaghe della sanità, La polizia liquefatta. Che ci voleva di più per capire? Eppure nessuno se n’è accorto. Né dentro, né fuori dal «Corriere». Nemmeno io, nel ruolo di «guardiano dell’onestà giornalistica». Questi editoriali, nella loro gravità, li abbiamo capiti solo a scandalo esploso. È per questo che diventa utile oggi la lettura degli episodi avvenuti ieri. Mettono in chiaro i meccanismi meno visibili dei poteri interni all’informazione. Non basta a risolvere, ma è un passo avanti. Gli snodi più drammatici del paese hanno visto anomalie nei mezzi di comunicazione. Piazza Fontana intanto, il terrorismo nero, le Br, l’offensiva Montedison sulla stampa, le pesanti interferenze di Bettino Craxi non solo con Piero Ottone. E, oltre alla stessa P2, le pressioni di Silvio Berlusconi sulla stampa fino alla prima uscita di Ferruccio de Bortoli, il 29 maggio 2003. La seconda, il 30 aprile 2015, più morbida, è pure una storia interessante da raccontare a proposito. Preferisco fermarmi alla materialità dei fatti, poche le opinioni dunque. Certamente ho potuto seguire tutte le vie tortuose del potere, quanto accadeva in redazione e fuori, gli avvicendamenti che ci sono stati, tutti segni non semplici da decifrare, anche in una sede come questa, perché spesso è difficile affermare con sicurezza se sono innocenti o meno. Mettere sul tavolo fatti certi. Solo quelli. Anche con candore, ingenuità. Leggere con chiarezza dentro l’incrocio dei condizionamenti, tra autocensure (la pratica più corrente), censure (non sempre necessarie), intrecci di favori, pure invenzioni, gonfiamenti, omissioni, ostracismi, ricadute di interessi paralleli, è per i lettori impossibile. Ed è assai difficile per gli stessi protagonisti, i redattori che il giornale lo fabbricano (se non altro per i ritmi delle running news divenuti con il nuovo millennio sempre più veloci e serrati). Però essere davvero un giornalista e stare vicino, dentro, ai luoghi in cui si fabbricano le notizie ti mette in mano una lampada di Aladino. Se poi sei anche uno spirito libero, separato dai centri di interesse piccoli o grandi che ogni giorno in modo naturale competono nel fare informazione, scopri molto, ma molto di più.

Per leggere meglio questo libro ho pensato di mettere in fila alcune «parole a parte», parole che in apparenza sono anche lontane dal testo e dal tema, ma in realtà sono utili, necessarie forse, per illuminare la scena:

rivoluzione liberal, eguaglianza dei punti di partenza, pari dignità

sociale, Costituzione della Repubblica, Enrico Berlinguer, memoria

dell’Olocausto, trasmissione dei saperi, cartoni animati, l’aquilone,

la forza delle donne, Erasmus (anche per i non studenti), le fami-

glie arcobaleno, l’acqua deve giungere fino all’ultimo campo di riso

(regola balinese) e, naturalmente, indipendenza del giornalismo.

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