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Scienze della Comunicazione: solo il 10% dei laureati lavora nel giornalismo

Ma non è solo per un’ oggettiva difficoltà a trovare un’ occupazione nel settore: anche al momento dell’ iscrizione, infatti, solo il 13 % dichiara di voler lavorare in questo ambito. Ma allora chi sono i laureati in Scienze della Comunicazione? A oltre 20 anni dalla creazione di questo corso di laurea, una risposta arriva dal saggio ‘’Il progetto comunicazione alla sfida del mercato. Itinerari e prospettive dei laureati nel sud Europa’’, a cura di Mario Morcellini, Franca Faccioli, Barbara Mazza, edito da FrancoAngeli e da poco in libreria. Luci e ombre di una facoltà che per qualcuno è una ‘’fabbrica di illusioni’’, ma che nella realtà consente a più della metà dei laureati di trovare lavoro entro un anno dalla laurea.   

 

 

di Fabio Dalmasso

 

Inutile. Sopravvalutata. Dispersiva. Questi sono solo tre degli aggettivi che si possono leggere cercando sulla rete informazioni sul corso di laurea in Scienze della Comunicazione. Un giudizio che trovò una sostenitrice anche nel Ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini la quale, durante una puntata di Ballarò, si espresse così: «Riteniamo che piuttosto di tanti corsi di laurea inutili in scienze delle comunicazioni o in altre amenità servano profili tecnici competenti che incontrino l’interesse del mercato del lavoro». Non da meno fu Bruno Vespa il quale invitò alcuni studenti a non iscriversi a questo corso di laurea: «Non fate questo tragico errore, che paghereste per il resto della vita», mentre l’allora (2009) ministro del Lavoro Sacconi qualificò i laureati in Science della Comunicazione come dotati di scarso appeal. Insomma, una laurea di scarso interesse per il mondo del lavoro, ad essere diplomatici, e assolutamente inutile, per essere più diretti.

 

Lo studio

 

Ma davvero le cose stanno così? Per cercare di fare chiarezza sul caso è utilissimo leggere Il progetto comunicazione alla sfida del mercato. Itinerari e prospettive dei laureati nel sud Europa, a cura di Mario Morcellini, Franca Faccioli, Barbara Mazza. Nei dieci capitoli del libro, gli autori tratteggiano la storia del corso di laurea in Scienze della Comunicazione definendone le caratteristiche principali e analizzando gli effettivi sbocchi lavorativi per i laureati. Un lavoro che, a oltre vent’anni dalla creazione dei primi corsi di laurea, cerca di tirare le somme, fornendo riflessioni e valutazioni utili anche per capire la direzione su cui potrebbe, o meglio, dovrebbe muoversi Scienze della Comunicazione.

 

“In risposta al mercato”

 

Una direzione che sembrava abbastanza chiara quando questa laurea venne creata dal Ministero per l’Università e Ricerca Scientifica e Tecnologica nel 1991 (con avvio nel 1992), in risposta al mercato che richiedeva “elevate qualificazioni e competenze specializzate acquisite mediante corsi di studio lunghi e orientati allo scopo”. Seguendo i suggerimenti forniti da un’apposita commissione, di cui facevano parte anche due giornalisti dell’ Ordine nazionale, e in base a studi realizzati per comprendere le esigenze di mercato e la sua capacità di assorbimento, vennero create due aree di riferimento all’ interno del corso di studi: quella dedicata alla comunicazione d’impresa e istituzionale e quella inerente la comunicazione di massa.

 
Boom di iscrizioni

 

Un’offerta che trovò un’ampia risposta da parte degli studenti, con un crescendo di iscrizioni: nel periodo 1992 – 2001 le iscrizioni passarono da 2.761 a 17.857 per superare le 20.000 nel biennio 2000 – 2002. Dati che dopo le varie riforme vanno stabilizzandosi sulle 8.000 immatricolazioni annue posizionando “i corsi in comunicazione al primo posto nelle preferenze delle matricole”. Un grande entusiasmo che non sembra diminuire, dunque, ma che poi, a leggere i commenti sui forum o ascoltando le esperienze dai diretti interessati, non sembra trovare pieno appagamento nel corso degli studi e soprattutto nel dopo laurea, quando alla formazione universitaria dovrebbe subentrare la situazione lavorativa.

 

Quasi piena occupabilità

 

E invece, stando a quanto riportato, sembra che le dicerie non siano fondate, anzi, sembrano completamente fuori luogo: “ a discapito di quanti definiscono Scienze della Comunicazione una fabbrica di illusioni [corsivo nel testo, ndr], il primo impatto sul mercato ha garantito ai primi laureati la quasi piena occupabilità” con l’80% dei neo-dottori che avevano trovato un impiego entro 12 – 18 mesi dalla laurea. Nel tempo le cose sembrano un po’ cambiate e un’indagine Almalaurea del 2011 certifica che “oltre la metà (il 52,6% dei laureati) svolge un’ occupazione a un anno dal conseguimento del titolo. Quota che sale all’84,2% a cinque anni”. La stessa Almalaurea fornisce poi dati più specifici nella sua indagine del 2012: anche in questo caso è un proliferare di occupazioni, contratti a tempo indeterminato, stipendi medi che si aggirano intorno ai 1.300 euro e pochissimi disoccupati.

 

Policompetenza

 

Insomma, sembra quasi che Scienze della Comunicazione sia una vera e propria isola felice nel grande mare agitato dell’ università italiana. Ma non solo: a quanto dicono i dati sembrerebbe anche che i laureati di questo corso non avrebbero alcuna difficoltà a trovare lavoro in poco tempo. Come è possibile? Forse sono le caratteristiche stesse del corso che favoriscono un ottimo inserimento nel campo lavorativo. Forse è quella policompetenza che evidentemente attrae le aziende, ma che può apparire un insieme confuso e disomogeneo non solo ai non universitari, ma agli stessi studenti visto che, come riportato nel libro, “gli studenti di Scienze della Comunicazione spesso hanno difficoltà a spiegare il ruolo che avranno all’ interno del mondo del lavoro e della società”. Un’ identità multipla, come la definisce Sergio Scamuzzi nel terzo capitolo, che può però generare problemi agli stessi studenti.

 
I rischi dell’identità multipla

 

Ma anche nel campo lavorativo questa identità multipla rischia di diventare un’ identità non delineata, fatta di mille aspetti, senza approfondirne nessuno in particolare con il rischio che “la molteplicità degradi in figure de-differenziate costrette ad essere il factotum di prodotti comunicativi di modesto livello”. A questo si aggiungerebbe, sempre secondo Scamuzzi, il rischio che “la professionalizzazione dei comunicatori resti debole e di conseguenza la soglie d’ingresso nel settore troppo bassa”.

 

Ma quale sarà il futuro degli studenti di Scienze della Comunicazione? Difficile dirlo: la nascita del corso risale a oltre 20 anni fa, in un conteso socio–economico del tutto differente da quello attuale. In tutto questo tempo sono mutati molti aspetti, prima fra tutti la proprio la comunicazione: le conoscenza e la formazione hanno dovuto (o forse avrebbero dovuto) adeguarsi ai mutamenti, stando al passo coi tempi creando quelli che vengono definiti knowledge worker, “in una condizione tra precariato e flessibilità” in grado di adattarsi ad ambiti e ruoli diversi.

 
Nomea ingiusta?

 
Il saggio sembra dunque ritrarre un corso di laurea apparentemente in buona salute, in grado di fornire un’ampia e vasta gamma di possibilità lavorative entro pochi anni dalla conclusione grazie all’ acquisizione di una policompetenza che però rischia, e spesso lo fa, di generare una confusione di ruoli. Ma allora la nomea che gravita intorno a quella che molti definiscono “scienze delle merendine”, ritenuta poco seria da molti, con esami facili e un titolo di studio finale ormai svalutato? Dall’analisi degli studiosi la situazione non sembrerebbe così tragica: come tutta l’università ha forse bisogno di un aggiornamento e di una definizione più chiara, ma nonostante tutto non sembra navigare in acque così cattive.

 

 

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