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Riflessioni e aggiornamenti sul “futuro delle news”

 A che punto siamo con gli esperimenti sull’informazione nel contesto digitale? Quali le risposte di successo alla crisi della carta stampata (non del giornalismo) e quali business model vanno privilegiati sul web? In pratica, si tratta dell’ annosa questione del “futuro delle news” nell’ ambito sempre più fluido di Internet e dei social media.

Temi comunque bollenti, su cui torna Dean Starkman in un articolato intervento sul sito della Columbia Journalism Review, rivedendo le supposizioni di due anni or sono e alla luce dei risultati delle iniziative ad hoc di svariate testate statunitensi.

 

A superamento della contrapposizione che vedeva le nuove leve del giornalismo puntare tutto sulla tecnologia e su un approccio informale, decentrato e gratuito, e la “vecchia guardia” che insisteva su professionalità e forme di accesso a pagamento.


Un quadro che, superando l’erronea riduzione a “paywall si o no”, negli ultimi tempi si è ricomposto portando a una sorta di consenso diffuso, suddiviso in vari punti (descritti sotto in dettaglio). Pur se le soluzioni sono tutt’altro che generalizzate e confermando l’assenza di un modello univoco che vada bene per tutti.
Consenso n. 1: L’accesso gratuito online è negativo per le grandi organizzazioni tradizionali. In pratica la vittoria della la “vecchia guardia”. L’elevato volume degli abbonamenti digitali al New York Times nel 2011, liquidato come un caso raro al pari degli analoghi successi del Wall Street Journal e del Financial Times, ha confermato il trend in crescita un po’ ovunque nel mondo.  Incluse le varianti adottate da siti ‘nativi digitali’, come quello di Andrew Sullivan, Politico, e perfino Capital New York. Esperienze che dimostrano come sia possibile avere contemporaneamente lettori paganti e un elevato livello di traffico.
Consenso n.2: Il paywall è soltanto uno strumento non la panacea generale.  Pur con i successi di cui sopra, nel complesso queste nuove entrate non sono sufficienti da sole a supplire al calo delle vendite e delle inserzioni. Al contempo, s’impone un ulteriore salto di qualità nei contenuti a pagamento.  Fatto ovvio ma spesso ignorato da testate che hanno avuto un certo successo iniziale con il paywall – contrariamente al caso del Minneapolis Star Tribune, per esempio, che ha ottenuto una crescita del 33 per cento degli abbonamenti online pur se a tariffe più alte.
Consenso n.3: Le testate  ‘native digitali’ possono fare come vogliono. Mentre quanto sopra è cruciale per i quotidiani cartacei nel passaggio al digitale, quelle nate sul web sembrano meno soggette a tali vincoli, il cui volume di traffico si basa soprattutto sui rilanci dei lettori nei social media per poi attirare gli inserzionisti. Qui la competizione è con mega-portali quali Google e Facebook, e il punto è vedere se e quale livello di qualità la testate web sapranno produrre con continuità, soprattutto rispetto al “longform journalism” in calo anche nelle fonti tradizionali.
Consenso n.4: Nel giornalismo americano, è l’articolo tradizionale a mantenere il primato, non il tweet né il post del blog o i tag della cloud. Posizione ribadita fra l’altro da un importante studio già nel 2011 (“Post-Industrial Journalism”): queste nuove forme di giornalismo, in particolare le ‘video-news’ continueranno a proliferare rimanendo però a supplemento e ampliamento dei formati già affermati.

 

Consenso n.5: L’utilità del giornalismo in ‘crowdsourcing’ è concreta ma limitata. I cittadini-reporter volontari si sono rivelati importanti nell’attualità immediata come proteste o disastri (dalla primavera Araba all’incidente nucleare di Fukushima) e a scandagliare enormi moli di dati (varie inchieste di ProPubica). Si tratta però di esperimenti in corso, mentre la gran parte del newsgathering continerà a essere affidata comunque a professionisti pagati. Come sintetizzava il professor Jay Rosen, pur forte sostenitore di queste pratiche volontarie, in un post di un anno fa: «Blogger e citizen journalist non possono colmare i vuoti d’informazione».

 

Consenso n.6: Comunque si veda l’odierno ecosistema dell’informazione, quel che manca è la copertura sulle storie locale e sull’operato delle autorità. Nelle redazioni di grandi aree metropolitane che una volta seguivano ambiti quali istruzione, polizia, tasse e comunità a livello locale oggi mancano i giornalisti adatti. Un declino che, secondo un rapporto della Federal Communications Commission, ha «dato maggior potere a strutture pubbliche e grandi istituzioni, che ora possono così imporre la propria agenda nell’informazione».
Questi ‘consensi’ sono tutt’altro che easaustivi o definitivi, conclude la Columbia Journalism Review. Può perfino darsi che non esista alcun consenso diffuso. In ogni caso è ora che tecnologi, tradizionalisti e il pubblico stesso collaborino alla creazione di un ‘futuro delle news’ meno lacerante e capace di soddisfare un po’ tutti.

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