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Pubblicità online: il grosso degli investimenti finisce a Google, Facebook e Yahoo e non al giornalismo

 

Ma secondo uno studio i rendimenti sul ‘search’ sono negativi

 
Dollari per la stampa, decimi per il web e centesimi per il mobile. In sintesi estrema è questo il principale problema che si trova davanti il giornalismo contemporaneo. Almeno secondo Megan McArdle, che su Bloombergview descrive lo stato del settore dal punto di vista della pubblicità.

 

Il giornalismo – spiega – è quello che gli economisti chiamano ‘’mercato a due campi’’. Le aziende editoriali vendono a te informazione e intrattenimento e poi vendono te agli inserzionisti. Al di fuori di alcune pubblicazioni specializzate, gli abbonamenti non hanno mai coperto i costi di produzione di quotidiani e riviste. Nei fatti, coprono a stento le spese di stampa e spedizione. Il lavoro giornalistico è stato sempre pagato dagli inserzionisti pubblicitari.

 

Il Web ha ridotto i costi di distribuzione del prodotto, ma non ha fatto molto per cambiare il costo della raccolta e produzione dell’ informazione. Oh, certo, c’ era del grasso nel settore, accumulato durante i periodi di abbondanza; e ora ovviamente non è come al tempo delle  note spese in liquori che venivano liquidate a Time. Ma cercare, ricostruire e scrivere storie richiede ancora una sorprendente quantità di tempo e denaro. I lettori sono sempre sbalorditi quando spiego quanti sforzi richiede un solo servizio di 2.500 parole.

 
Il problema è che i dollari della pubblicità si stanno riducendo. Non possiamo pagare per la pubblicità Web quanto si usava pagare per quella sulla stampa. Un decennio fa – spiega McArdle, che ha lavorato per diverse testate Usa e ha fondato il blog Asymmetrical Information  -, quando sono entrata nel giornalismo professionale e ho cominciato a discutere seriamente del suo futuro finanziario, c’ era una ragionevole prospettiva che, alla fine, la pubblicità digitale avrebbe avuto un valore maggiore di quella su carta: si poteva renderla fortemente mirata, dopo tutto, e  misurarne gli effetti. Non appena avessimo realizzato dei prodotti pubblicitari digitali migliori ed educato gli inserzionisti, in teoria saremmo stati più in forma che mai.

 
Questa teoria, ahimè, è stata ben distrutta dagli ultimi 10 anni. Gli inserzionisti ancora non hanno nessuna intenzione di pagare per il digitale le tariffe della carta. Peggio ancora – continua la giornalista -, il denaro investito in pubblicità digitale non va alle testate, ma sempre di più finisce nelle casse di Google, Facebook e Yahoo.

 

Ma McArdle segnala una cosa interessante. Un nuovo studio del National Bureau of Economic Research suggerisce che gli inserzionisti che hanno abbandonato il giornalismo forse non stanno ricavando nulla dai loro soldi e che i rendimenti medi della pubblicità sul search sono negativi.

 

 
Uno dei guru del marketing Usa, John Wanamaker, è autore di un detto famoso, secondo cui una metà dei suoi investimenti pubblicitari erano inutili, solo che lui non poteva dire quale fosse. Questo studio suggerisce che anche se si potesse dire qual è quella metà, si rischierebbe di ammazzare anche l’ altra. E quindi tutto.

 
Un giornalista – continua McArdle – può leggere tutto questo in due modi. Uno è quello di festeggiare: la pubblicità sul search è inutile e quindi gli inserzionisti torneranno strisciando a noi. L’ altro è quello di disperarsi: se non funzionano neanche gli annunci così perfettamente mirati su Google allora siamo tutti  condannati. (C’è un terzo modo però: si tratta di un singolo studio che può essere interessante, ma che difficilmente potrà essere probatorio Questo è il modo corretto di leggere, naturalmente, ma può venir visto come l‘ intervento di un guastafeste).
Supponendo che i risultati siano corretti, e largamente applicabili, in che modo quindi dovremmo leggere tutto questo?

 

E’ del tutto plausibile che la pubblicità search costi più di quello che vale, soprattutto per le grandi strutture come eBay. D’ altra parte- osserva la giornalista -, non penso che essa possa salvare i media. Semplicemente, gli annunci digitali hanno un sacco di inconvenienti che la stampa non ha mai avuto. Per cominciare, la gente o li odia o li ignora; più si cerca di ottenere l’ attenzione delle persone più queste ultime si arrabbiano. Presumo che chi ha inventato gli annunci video autoplay sia già in una sorta di programma federale di protezione.

 

Poi c’è il problema dei programmi che bloccano la pubblicità – nessuno ha mai realizzato una copia della rivista Time priva di tutte le inserzioni pubblicitarie, ma l’ equivalente digitale è facile da raggiungere con un plugin del browser. E poi il problema della dimensione dell’ inserzione: un annuncio immobiliare è molto più piccolo della pagina di una rivista. E, ancora, il problema dei clic gonfiati o fraudolenti, che rende gli inserzionisti riluttanti a investire grosse somme.

 
Ma penso che il problema più grande sia quello che sento agitare di meno: le aziende non hanno proprio bisogno di intermediari come avveniva un tempo. Possono costruire le loro pagine Web, mandare i propri video su YouTube. Certo, vorrebbero avere i nostri lettori, ma siccome i nostri lettori ignorano o bloccano i loro annunci, forse gli basterebbe investire i loro soldi nel costruirsi una buona presenza sul web.
Se tutto questo è vero – conclude l’ articolo -, allora Google e Facebook possono avere bisogno di trovare un nuovo modello di business. Ma se lo fanno, probabilmente là fuori si imbatteranno di nuovo in noi, e cominceranno a guardarci con attenzione.

 

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