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La formazione va estesa anche ai “quasi giornalisti”

Se oggi accettiamo il giornalismo in ambiti dove prima nessuno ne rilevava l’ esistenza, le scuole di formazione devono impegnarsi a scoprire nicchie capaci di dar vita a nuovi programmi e attirare nuovi studenti. Partendo da questo assunto, Dan Gillmor insiste sull’ importanza e sulla credibilità dei  “quasi giornalisti”: attivisti e cittadini che offrono preziosi contributi su questioni di calda attualità, come diritti civili, conflitti locali, libertà e simili.

 

Secondo il docente e veterano del settore Usa, ogni serio programma che vuole avviare i giovani al mestiere dovrebbe rivolgersi specificamente (anche) a costoro. Ciò non solo per dare impeto al business nell’ era digitale e globale, bensì anche per affermare l’ altro pilastro della formazione: «aiutare gli studenti a pensare in modo critico e comunicare in modo superbo, competenze che trovano ampia applicazione in svariati campi».

 

Imparando ad applicare al meglio i principi base del giornalismo, quest’ esercito globale di “quasi giornalisti” potrebbe così fornire un servizio pubblico ancor più adeguato ai tempi, diventando sempre più credibili e competenti. Un quadro ideale, ad esempio, per unire gli sforzi (e gli investimenti) delle migliori scuole di giornalismo e delle tante ONG operanti nel mondo. Un trend che, pur se lontano dall’ applicazione diffusa, trova conferma in un report della influente Columbia University, dove si segnala Human Rights Watch come esempio concreto di un’ organizzazione che spinge con forza nella direzione del citizen journalism.

 

Analogamente, una fresca ricerca  curata da Matthew Powers presso l’ Università di Washington a Seattle, dettaglia le strategie informative messe a punto negli ultimi anni dalle ONG, citandone diverse che hanno «assunto fotografi, reporter, produttori video e specialisti online per produrre contenuti giornalistici, sia per in collaborazione con vere e proprie testate che per i propri siti web».

 

Da segnalare anche un’ apposita indagine realizzata nel 2010 alla business school dell’INSEAD a Parigi, dove Mark Hunter e colleghi si sono concentrati sui progetti di ‘giornalismo watchdog’, pratica che va collegata direttamente ai «grandi gruppi e investitori, capaci di raggiungere una crescente fetta di pubblico e di fornire i fondi necessari per il giornalismo investigativo».

 

In definitiva, conclude Gilmor, questo connubio porterebbe rinnovata attenzione alla formazione in senso lato e risponderebbe alle critiche mosse alle news delle OGN, a volte accusate di essere troppo di parte e di scarsa aderenza ai principi-base del giornalismo. E non esita a spingersi oltre: «dopo cinque anni di esperimenti è il momento di togliere l’avverbio “quasi”  al meme dei “quasi giornalisti”. È vero che non tutti costoro fanno giornalismo in senso stretto, ma non è forse ora di riconoscere il giornalismo dovunque esista, e chiunque sia a farlo?».

 

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