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La crescita del ‘’social shopping’’ favorirà una cultura del pagamento dei contenuti giornalistici digitali?

Indurre le persone a pagare per i contenuti online è una delle principali sfide che gli editori devono affrontare. Nonostante anni di tentativi, i meccanismi di pagamento, per la maggior parte delle transazioni online – con poche eccezioni –, sono ancora  una gran seccatura per i consumatori rispetto al mettersi le mani in tasca e prendere i soldi per pagare.

 

Ma  forse la soluzione verrà dalla tecnologia.

 

Twitter – osserva Heny Taylor su Themediabriefing.com –  ha recentemente acquistato una startup di e-commerce, CardSpring, un’ azienda di servizi di pagamento che permette alle persone di acquistare prodotti (potenzialmente scontati) via tweet o altri social.
 

Kevin Fitchard su Giga Om suggerisce che questa acquisizione potrebbe permettere a Twitter di arrivare fino al livello del commercio locale.

 

Con questo acquisto Twitter ha quindi la possibilità di gestire i meccanismi di pagamento saldamente sotto la sua ala, ma non è il primo passo che l’ azienda ha fatto in questa direzione.

 

A maggio Twitter aveva raggiunto un accordo con Amazon  che consentiva agli utenti di aggiungere acquisti nel loro carrello rispondendo ai tweet contenenti un link alla pagina del prodotto di Amazon, con l’hashtag # amazoncart (o # amazonbasket nel Regno Unito).
Anche Facebook si è lanciata nella partita, annunciando  recentemente che sta testando un pulsante -“buy” – che permetterebbe agli utenti di acquistare prodotti o servizi senza dover dare al venditore i propri dati bancari, che verrebbero gestiti da Facebook.

 

Il club dei grandi

 

Questo significa che sia Twitter che Facebook potrebbero presto situarsi insieme ad Amazon, Google e Apple, che hanno cercato (e in gran parte ci sono riusciti) di indurre i loro utenti a registrare i dettagli dei pagamenti. Questa – secondo il sito inglese – è la prima metà della battaglia per convincere la gente a pagare per le cose nel mondo digitale, ed è un grande passo verso quello che alcuni chiamano “social shopping”.

 

Che a sua volta potrebbe potenziare la sfera dei micropagamenti e convincere la gente a pagare anche per il giornalismo su Internet. Insomma, un eventuale cambiamento nei comportamenti dei consumatori potrebbe venire dal versante dell’ industria delle tecnologie e non dagli editori. E questo potrebbe coinvolgere anche dei ’’giocatori’’ più piccoli

 

Non mancano certo gli editori che puntano su Twitter e Facebook – soprattutto quest’ ultimo – per fare traffico, e questo ha già un impatto diretto sulle entrate pubblicitarie.

 

Quando Facebook decide di modificare l’ algoritmo con cui sceglie i “contenuti di qualità” e determinati contenuti non rientrano in quel quadro, il traffico ne soffre. Significa meno ‘’impression’’, e per i siti che si basano su un modello di pubblicità in base alle ‘’impression’’, meno ricavi pubblicitari.

 

Per gli editori che hanno già modelli di abbonamento in atto, la loro presenza sui social media scende notevolmente, per il semplice fatto che la maggioranza dei lettori di informazione non va sui siti web con paywall e non condivide contenuti con paywall, e quindi questi siti non raggiungono il traffico dei loro concorrenti.

 

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Ma se un editore decide di seguire la strada degli abbonamenti – come The New Yorker, ad esempio, che all’inizio di questo mese ha annunciato che renderà i propri archivi dal 2007 in poi disponibili gratuitamente prima di mettere su un paywall fra tre mesi – e Twitter e Facebook sono gli unici che cercano di modificare il comportamento dei consumatori inducendoli a pagare per i contenuti online, potrebbe questo editore cedere alle aziende di social media il 30%  delle “entrate da articolo’’ per questa intermediazione?
Può sembrare inverosimile, ma è il modello definito da Apple per la musica, le applicazioni e altri contenuti digitali e queste aziende tecnologiche potrebbero facilmente sostenere che si tratta di una giusta ricompensa per gestire tale attività.
Se l’ industria delle nuove tecnologie crea un sistema che taglia gli intermediari nel pagamento dei contenuti online – come Amazon e Apple hanno già fatto così bene – forse pagare per i contenuti digitali in futuro potrebbe essere considerato normale: un prospettiva entusiasmante per gli editori.
Ma per il momento è solo un altro esempio di come le aziende di tecnologia da un lato provochino dei problemi che gli editori devono affrontare e dall’ altro lato offrano dei possibili correttivi. Che vanno certo a beneficio delle aziende tech innovatrici, ma che in ogni caso potrebbero aiutare gli editori.

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