Vajont, il grande giornalismo di Tina Merlin

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‘’9 ottobre 1963 – 9 ottobre 2013. Sono passati 50 anni dalla tragedia del Vajont. E una cosa tutti l’ abbiamo imparata: Tina Merlin era una giornalista vera, una professionista che sapeva svolgere il suo lavoro, una donna coraggiosa che ascoltava le persone e raccontava i fatti così com’erano. Un esempio per molti. Un esempio da non dimenticare’’.

 

Su Lsdi, Fabio Dalmasso ricostruisce la figura e l’ attività di giornalista di Tina Merlin, una dei pochi cronisti che col suo lavoro per l’ Unità dette più volte l’ allarme e che, dopo la tragedia, contrariamente a molti giornalisti famosi come Bocca o Montanelli, seppe indicare nelle responsabilità degli uomini e non nella natura arcigna, le cause di quella immane distruzione.

 

di Fabio Dalmasso

 

 

9 ottobre 1963 – 9 ottobre 2013. Sono passati 50 anni dalla tragedia del Vajont. 50 anni da quell’ora maledetta, le 22.39, che ha cancellato per sempre un paese e segnato indelebilmente la memoria dell’Italia. 50 anni che forse non sono serviti se ancora oggi, durante le cerimonie in ricordo di quell’episodio, si parla di prevenzione, disastro naturale e imprevedibilità.

 

Il 15 settembre, ad esempio, a Longarone, in occasione del raduno dei soccorritori di quella tragedia, la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, ha dichiarato che «prevenire è il modo migliore per ricordare la tragedia che si è abbattuta sul Vajont cinquant’anni fa», sottolineando, come recita il comunicato stampa ufficiale, “l’importanza di coinvolgere ed esercitare, prima che i disastri accadano, tutti coloro i quali potrebbero dover gestire un’ emergenza”. Parole simili sono state dette anche dal suo collega Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, il quale ha rimarcato la necessità di prevenire e intervenire contro il dissesto idrogeologico aggiungendo che «in questo paese varrebbe la pena di pensare a costruire un po’ meno strade e di più al dissesto idrogeologico, che è la vera sfida che noi abbiamo».

 

 

Imprevedibilità?

 

Merlin-copColpiscono, nelle dichiarazioni dei due presidenti, le parole “dissesto idrogeologico”, “prevenzione” ed “emergenza”: termini che, per chi conosce davvero la storia, hanno ben poco a che fare con l’evento che 50 anni fa sconvolse questo territorio a cavallo tra le due regioni rappresentate oggi da Serracchiani e Zaia. Una tragedia inaspettata, imprevedibile? Tutta colpa di una mancata prevenzione?

 

Eppure qualcuno ciò che sarebbe successo l’aveva scritto. Qualcuno aveva denunciato con forza i soprusi e i pericoli di quella diga. Qualcuno aveva ascoltato i contadini di Erto e Casso, depredati dalla Sade, e aveva capito che qualcosa in quel grande progetto non andava. Quel qualcuno era una persona che sapeva fare il suo mestiere. Una persona che lo faceva con la passione e la tenacia necessaria per riuscire ad arrivare alla verità. Una persona che aveva il coraggio per raccontare quella verità.

 

Quella persona era Tina Merlin, giornalista.

 

 

Merlin-libroChi era Tina Merlin

 

Raccontare oggi la storia del Vajont significa ripercorrere una vicenda fatta di potere, politica e soldi da una parte e resistenza, orgoglio e povertà dall’ altra. Una storia che ha come protagonisti i grandi nomi dell’economia (e inevitabilmente, della politica) dell’Italia del 1900. Quella stessa Italia nella quale era cresciuta Tina (Clementina) Merlin, nata a Trichiana (Belluno) il 19 agosto 1926, da Cesare, muratore ed emigrante, e Rosa Dal Magro, contadina.

 

Tina è la più giovane di otto fratelli. A 12 anni si trasferisce, assieme alla sorella Ida, a Milano per lavorare come domestica e bambinaia, ma quando iniziano i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale decide di tornare al suo paese natio. Dopo l’8 settembre 1943 il fratello Toni entra a far parte della Resistenza e anche lei decide di prendere parte alla guerra di Liberazione con il nome di Joe, staffetta partigiana pronta a rischiare la vita sulla sua bicicletta per mantenere i collegamenti dei vari dispiegamenti della Resistenza.

 

Nel 1949 sposa Aldo Sirena, anche lui partigiano, e nel 1951 diventa madre di Toni. Ma è in questo periodo che la vita di Tina Merlin prende una strada ben precisa: nel 1950, infatti, partecipa a un concorso della Pagina della donna de l’Unità, che le vale un premio e la proposta di collaborare.

 

Nel 1951 diventa corrispondente da Belluno per il quotidiano, ruolo che mantiene fino al 1967.


Impegno e giornalismo

 

Nel frattempo, alle elezioni per il consiglio provinciale del 1964, viene eletta nelle fila del PCI, ruolo che ricopre, con un anno d’interruzione, fino al 1970. Dopo una parentesi a Budapest come redattrice di Radio Budapest in lingua italiana, torna in Italia e prosegue la sua collaborazione con l’Unità seguendo da vicino alcune lotte sindacali come quelle degli operai tessili di Valdagno (Vicenza) e dei ceramisti di Bassano (Vicenza). La sua carriera all’interno del quotidiano prosegue senza sosta: nel 1972 si trasferisce a Milano per poi andare a Venezia dove dirige le pagine regionali del Veneto fino al 1981.

 

Collabora con numerose riviste (come Patria Indipendente, Vie Nuove e Protagonisti), e il suo impegno per la storia e la memoria la vede tra le fondatrici dell’Istituto storico bellunese della Resistenza e dell’Età contemporanea di cui è anche membro del direttivo. Muore dopo un anno di malattia il 22 dicembre 1991.


Non solo Vajont

 

Nonostante la vasta attività giornalistica e saggistica, Tina Merlin è passata alla storia come “quella del Vajont”, un appellativo che è anche titolo di un libro a lei dedicato dalla professoressa Adriana Lotto.

 

Il titolo completo dell’opera, Quella del Vajont – Tina Merlin, una donna contro, sintetizza alla perfezione la storia di Tina Merlin: l’unica giornalista che ha saputo raccontare il prima della tragedia; donna, in anni durante i quali fare questo mestiere sembrava appannaggio dei soli uomini, e contro, cioè combattente, tenace e fedele ai suoi ideali di giustizia e verità. Giustizia e verità che caratterizzano tutta la sua vita professionale e grazie all’associazione Tina Merlin è possibile leggere alcuni degli articoli di questa coraggiosa giornalista.

 

Sul sito, nella sezione “Emigrazione e territorio” (all’interno della sezione “Pubblicazioni), ad esempio, emergono chiaramente gli elementi che maggiormente interessano alla giornalista bellunese e lo stile adottato per raccontarli. Ecco come inizia un articolo sulla morte di cinque operai sotto una valanga di neve: “Cinque operai bellunesi morti assieme sotto una valanga di neve è una notizia sconvolgente e drammatica anche per la popolazione di una provincia abituata da secoli a stare col cuore sospeso, sempre in attesa di qualche dolorosa notizia dai cantieri all’estero e delle altre province italiane, dove la manodopera bellunese è più che di casa”.

 

In poche righe c’è tutto. Non solo la notizia, ma anche un elemento in più che delinea abilmente il contesto in cui ci troviamo sociale, cioè paesi e valli da sempre fonte di manodopera emigrata per la ricerca di lavoro.

 

 

Donne e lavoro

 

Altrettanto illuminante è l’articolo riportato nella sezione “Donne” e pubblicato il 6 gennaio del 1952 dal programmatico titolo Lavorano dei mesi in prova senza ricevere un soldo di paga: anche in questo caso l’incipit è estremamente interessante perché annuncia al lettore le difficoltà che la giornalista ha affrontato nello scrivere il pezzo. Difficoltà legate alla condizione di lavoro precaria, alle ingiustizie e alla paura di parlare: “Da due giorni attendiamo, mezzogiorno e sera, le operaie dello stabilimento Chinaglia alla loro uscita dalla fabbrica. Ci siamo accompagnati a loro lungo lo stradone, interrogandole una ad una, con cautela, per non dare nell’occhio. È difficile farle parlare, non perché non sappiano cosa dire, ma appunto perché avrebbero tante cose da dire. Infatti abbiamo appreso parecchie cosette seppure con molta fatica, perché se il principale lo viene a sapere, c’è il pericolo di perdere il posto e allora dove si lavora?”

 

 

Reportage

 

Sempre sul sito dell’associazione Tina Merlin è possibile apprezzare anche alcuni suoi articoli più lunghi, come i reportage «Viaggio» in una regione devastata dalle cave del 1980 o Diario di viaggio tra reduci e familiari dei caduti nella ritirata del Don del 1985, entrambi usciti a più puntate. Anche in questi casi la giornalista è sempre molto attenta nel contestualizzare gli articoli, fornendo descrizioni dei luoghi, ma soprattutto dei sentimenti che essi provocano nei protagonisti degli articoli, cioè le persone.

 

Nel reportage sui luoghi russi della ritirata italiana, ad esempio, è molto interessante questo passaggio: “Camminiamo per cinquecento metri, ma stentiamo ad avanzare. Sotto le scarpe ci trasciniamo almeno venti centimetri di terra viscida, grassa, che non vuol staccarsi. Le donne hanno grandi mazzi di fiori da deporre su quella fossa e vogliono recitare una preghiera per quei morti tra i quali c’è, forse, anche il loro”.

 

Anche in questo caso la giornalista ha saputo descrivere in poche righe il contesto fisico accompagnandolo alla speranza delle donne che non sanno se effettivamente, in quella fossa, riposi il proprio marito.

 

 

Sulla pelle viva

 

Come si diceva in precedenza è impossibile, però, non ricordare il suo lavoro giornalistico di denuncia prima e dopo la tragedia del Vajont. Ed è impossibile, per chiunque intenda conoscere la storia di questo tragico evento, non leggere il suo libro Sulla pelle viva, pubblicato, dopo aver cercato invano un editore per anni, solo nel 1983 per le edizioni La Pietra di Milano.

 

Un libro estremamente documentato e che ripercorre tutta la storia della diga, dall’inizio alla fine. I veri protagonisti sono gli abitanti di Erto e Casso,  ingannati e defraudati dalla Sade, quella potenza economica e politica che il presidente del Consiglio Provinciale Da Borso, nel 1961, descrive così: «Ci troviamo di fronte a uno Stato nello Stato. La Sade e come la Sade tutte o quasi tutte le società idroelettriche rappresentano una potenza contro la quale è difficile lottare e vincere». Una lotta impari, dunque, quella che Tina Merlin ripercorre in questo suo libro. Ma una lotta sincera, spontanea, a volte poco organizzata, spesso divisa tra chi vuole accettare un accordo con la Sade per l’ esproprio dei terreni e chi invece, tenace, dice no e resiste fino a quando può.

 

 

Tutto previsto

 

Merlin-2Leggendo il libro sconvolge come fosse tutto prevedibile, previsto e scritto: il 21 febbraio 1961 l’Unità pubblica un articolo di Tina Merlin dal titolo Un’enorme massa di 50 milioni di metri cubi minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto. Scrive la giornalista: “Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà con un terribile schianto. In questo ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze. Può darsi che la diga resista – se si verificasse il contrario e quando il lago fosse pieno sarebbe un immane disastro per lo stesso paese di Longarone adagiato in fondo valle – ma sorgerebbero lo stesso altri problemi di natura difficile e preoccupante”.

 

Era tutto scritto, solo il calcolo si rilevò riduttivo, in quanto la frana che si stacco la notte del 9 ottobre 1963 era costituita da 263 milioni di metri cubi di roccia. Una massa gigantesca che precipitò nel sottostante lago creato dalla diga in 20-25 secondi alla velocità di 70-100 chilometri all’ ora sollevando un’ ondata di 260-270 metri di altezza, valutata in 50 milioni di metri cubi.

 

L’onda si divise in due: una parte si spazzò via Pineda, San Martino, Le Spesse, frazioni di Erto, l’altra danneggiò Casso prima di scavalcare la diga e in 4 minuti raggiungere Longarone travolgendo tutto con un’energia pari a due volte quella della bomba atomica di Hiroshima. I morti furono 1910: 1450 a Longarone, 158 a Erto e Casso, 111 a Codissago, 54 nei cantieri Sade, 137 in altri luoghi. Pochi i feriti: 95 lievi, 49 gravi, 2 gravissimi. A Fortogna verranno sepolte 1454 vittime, solo 704 delle quali identificate. Molti morti non verranno mai trovati.

 

 

I giornali del dopo Vajont

 

Inevitabilmente, dopo la tragedia, il Vajont diviene il centro del mondo per i media italiani. Tutti quei giornali che fino a quel momento avevano ignorato la questione si ritrovano ora in quella landa desolata che era Longarone a raccontare la tragedia. Tutti ricordano l’incipit di Giampaolo Pansa, giovane inviato de La Stampa, che iniziò la sua corrispondenza con “Scrivo da un paese che non esiste più”. Altrettanto famoso è l’articolo di Dino Buzzati, bellunese, che descrisse così l’accaduto: “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.

 

Una presenza che a molti dei sopravvissuti non è gradita. Dove erano questi giornalisti quando gridavano la loro protesta contro la Sade? Perché solo ora, dopo le morti, si interessano di questo luogo prima dimenticato da tutti? E dov’erano i media nel 1959 quando Tina Merlin venne denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” per il suo articolo su l’Unità inerente la nascita del “Consorzio per la difesa della valle ertana” con il titolo La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono?

 

Nel 1960 Tina Merlin verrà assolta dal Tribunale di Milano che riconosce come “nulla vi è di falso, di esagerato o di tendenzioso; la Merlin, legittimamente usando del diritto di cronaca, si è limitata a rendere note le notizie e le impressioni da lei raccolte nel corso della sua inchiesta e a riportare uno stato d’animo di preoccupazione e di ansia largamente diffuso”.

 

Dopo la tragedia

 

Ma se prima del disastro la stampa sembrava imbavagliata e spaventata dalla Sade, anche dopo il 9 ottobre non si comporta meglio: come scrive Adriana Lotto sul sito dell’associazione Tina Merlin, “l’operazione di rimozione dell’evento è cominciata già all’indomani della tragedia. Vi contribuirono, tra gli altri, taluni giornalisti, Buzzati, Bocca, Montanelli, che insistendo sulla fatalità, sulla crudeltà della natura diedero corpo e voce alla convinzione, diffusa ancora oggi, che non di responsabilità degli uomini si trattava, ma di imprevedibile accadimento, necessario tributo di vite umane, per i più cinici, all’altare del progresso”.

 

Interessante ricordare un episodio raccontato dalla stessa Merlin nel suo libro: dopo la tragedia l’Enel (nel frattempo la Sade era stata nazionalizzata e assorbita dall’Enel) aveva diffuso un comunicato in cui diceva: “Le notizie pubblicate da qualche organo di stampa in ordine alla prevedibilità dell’evento verificatosi nel lago del Vajont non hanno fondamento”.

 

Come fa notare la stessa Merlin, quel “qualche” era riferito alla stampa di sinistra, l’unica, in quei giorni, assieme a tutta la stampa straniera, a riprendere i vecchi articoli de l’Unità in cui raccontava come si era arrivati al 9 ottobre.

 

Un atteggiamento, quello della stampa italiana, che non può o non vuole vedere cosa sia realmente successo e si arrocca sulla posizione del disastro naturale, come Giorgio Bocca che dà la colpa alla natura: “Non c’era niente da fare, non ci sono rimorsi, non ci sono colpevoli. Ci siamo solo noi, i moscerini, che vogliamo (…) dichiarare guerra alla natura”. O come Indro Montanelli che, sposata la tesi della catastrofe naturale, non perde l’occasione per attaccare i comunisti: “qui vengono gli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dei mestatori, dei fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all’ abominio, e al disprezzo”.

 

 

Una giornalista

 

9 ottobre 1963 – 9 ottobre 2013. Sono passati 50 anni dalla tragedia del Vajont. E una cosa tutti l’abbiamo imparata: Tina Merlin era una giornalista vera, una professionista che sapeva svolgere il suo lavoro, una donna coraggiosa che ascoltava le persone e raccontava i fatti così com’erano. Un esempio per molti. Un esempio da non dimenticare.