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L’ industria editoriale e l’ approdo al digitale. Una sintesi dei nuovi scenari


Tra coloro che prevedono di acquistare un tablet entro tre anni, circa tre quarti pensano di leggere magazine. Due terzi leggeranno quotidiani. Anche in Italia, paese dove c’è la maggiore propensione a PAGARE per i contenuti. In media, un italiano dice di essere disposto a pagare da 6 a 13 dollari al mese per l’abbonamento a un periodico. Negli Usa si pensa di poter spendere da 3 a 5 dollari, da 3 a 7 dollari in Giappone, da 6 a 9 dollari in Spagna, da 5 a 12 dollari in Germania. Per un quotidiano l’italiano si dice disposto a pagare da 12 a 20 dollari al mese, più di tutti gli altri: Usa, Gran Bretagna, Giappone.

Sono alcuni dei dati al centro di una serie di riflessioni sull’ industria editoriale sviluppate (in cinque post) dal blog  Il futuro dei periodici, curato da un giornalista che per ora preferisce non uscire allo scoperto.

L’ analisi si basa soprattutto sulle indicazioni di uno studio effettuato negli Stati Uniti dal Boston Consulting Group ed è intitolato Transforming Print Media.

Qui pubblichiamo una sintesi delle cinque puntate (che possono essere lette integralmente sul blog: qui la prima, la seconda,  la terza, la quarta e l’ ultima parte)

 

Ci sono editori che si limitano a tagliare i costi, ma si tratta di  un aggiustamento inadeguato (dice Boston Consulting).

 

La strada giusta consiste nel trovare un equilibrio nel presente centrato sulla carta, per evitare la bancarotta, e al tempo stesso iniziare un percorso di cambiamento che porti a una nuova realtà d’ impresa nel medio termine: tra i 3 e i 5 anni.

 

Naturalmente l’approdo è il digitale.

 

Boston Consulting Group ha studiato 1600 imprese editoriali di tutto il mondo. Ma solo 5 società, delle 20 più importanti a livello globale, hanno accresciuto il loro valore in Borsa. Il 60% ha invece perso terreno. E chi è riuscito ad avanzare, lo deve al digitale.

 

Alle imprese si consiglia di prepararsi a un viaggio che deve essere finanziato, centrare l’obiettivo nel medio periodo, portare al cambiamento di organizzazione, team, cultura.

 

Ci sarà chi punta più sulla crescita organica (es. aumentare il traffico e i ricavi pubblicitari dei siti delle testate) e chi invece s’indirizza verso l’M&A (merger and acquisitions: acquisto di attività digitali già affermate o di altre realtà editoriali). Possiamo vedere in questo i percorsi seguiti da 2 editori tedeschi, con network internazionale, Axel Springer e Burda. O la crescita negli Usa di Meredith, che sarebbe in trattative per comprare i periodici di Time Inc.

 

Interessante l’osservazione dei consulenti di BCG sui dipendenti delle società investite dal cambiamento. Un sentimento diffuso è il disorientamento. «Siamo alla terza, quarta trasformazione e nulla è cambiato» è una frase spesso ripetuta.

 

Ma, si commenta, è difficile per un’azienda gestire cambiamenti profondi quando le copie vendute dei giornali sono in calo e la pubblicità è andata a picco (per dire: nel gennaio 2013 il Corriere della Sera avrebbe perso il 30% dei ricavi da pubblicità).

 

Gli editori devono iniziare un viaggio di trasformazione delle loro aziende e dei prodotti editoriali. E la prima mossa, secondo Bcg, è sbloccare risorse, cash, per finanziare la transizione e tener buoni gli azionisti (quando ci siano).

 

Poi si deve intervenire sul costo del management, che va sfoltito nei suoi molti livelli (a chi non viene in mente la richiesta dei giornalisti di Rcs di tagliare la retribuzione del management?).

 

Mentre altre mosse possono essere il trasferimento all’estero in aree low-cost di determinate funzioni aziendali, l’esternalizzazione delle funzioni (dalle buste paga all’agenzia viaggi interna), una rivisitazione delle redazioni che cambi il rapporto tra giornalisti assunti e freelance (o il numero degli assunti in generale. Vedete la vicenda degli esuberi in Mondadori e, con riferimento al complesso di interventi, la scelta di Rcs di dichiarare 640 esuberi tra i dipendenti italiani, di cui 110 giornalisti).

 

L’obiettivo è avere aziende più leggere e snelle, che concentrino investimenti e attenzione sul cuore delle attività: i giornali.

 

Lo studio del BCG – osserva Futurodeiperiodici – si sofferma poi sul versante prezzi e sulle aree di investimento.

 

Per quanto riguarda il primo punto, l’ azienda di consulenza ritiene possibile economicamente modificare radicalmente il punto di vista: si paga non per la distribuzione del giornale (delivery) ma per i contenuti giornalistici. Questo va sottolineato. Non paghi l’editore perché ti dà un giornale, ma perché ti dà dei contenuti. E tu, lettore, potresti anche comprare “pezzi” del giornale, o altre cose che rientrano sotto l’ombrello della testata: singoli articoli, contenuti extra, libri scritti dalla redazione, reportage video, E-single.

 

BCG non esclude anche la possibilità di alzare il prezzo del giornale in edicola. Si è visto che, in qualche caso, il lettore può accettare incrementi dal 30 al 100%. (Anche se la situazione italiana forse lo sconsiglia. Abbiamo assistito negli anni passati all’innalzamento dei prezzi dei giornali, per compensare la caduta dei ricavi delle copie vendute: un effetto “bilancia”. Ma da molti mesi a questa parte, quando andiamo in edicola, vediamo pile intere di giornali scontati. In Italia si rischia la svendita dei prodotti. Anche con gli abbonamenti “regalati”).

 

Nonostante il proliferare degli aggregatori di notizie e dell’informazione piratata su internet, si registra che c’è maggiore disponibilità a pagare per ricevere contenuti giornalistici digitali, come dimostra la rapida adozione da parte dei quotidiani del paywall, l’accesso a pagamento ai siti dei giornali (con mille possibili variazioni sul tema: meter, freemium, etc).

 

In ogni caso, il lettore è disposto sì a pagare per i contenuti digitali, a patto che siano unici e differenziati da quelli che si trovano ovunque: unique and differentiated. Non notizie che si trovano su qualsiasi sito, a partire dalle commoditized national news, le notizie dei tg.

 

Ma in conclusione, secondo BCG, la possibile crescita degli editori arriverà probabilmente da nuove attività e dall’ingresso in  nuove aree di business.

 

Alcuni esempi. Ci sono editori di periodici che hanno sfruttato la forza dei loro brand e la specializzazione in aree come la moda e l’arredamento per sviluppare l’e-commerce relativo al settore. Altri hanno creato ecosistemi mediatici intorno a specializzazioni tematiche: un quotidiano australiano molto forte nella copertura degli avvenimenti sportivi ha avviato un canale televisivo su internet, contenuti editoriali speciali, user generated content. Altri, che hanno un lettorato concentrato in determinate fasce socieo-economiche, hanno sviluppato un’offerta di servizi e dati di interesse per questo pubblico. Altri ancora hanno potenziato il marketing mettendo questa esperienza a disposizione di imprese di piccole e medie dimensioni, creando una nuova area di business.

 

Non solo giornalismo, dunque. Ma scelte che richiedono decisioni a volte difficili.

 

E qui si passa alla valutazione della adeguatezza del management, la testa della casa editrice. Il mondo è cambiato. La trasformazione è rapida. Le scelte spesso devono essere corrette e riviste in breve lasso di tempo. Bisogna sposare strategie adattive. Cadono le protezioni del passato, non ci sono più mercati con alte barriere d’ingresso e anche una piccola società, ma innovativa, può in poco tempo insidiare la supremazia di editori consolidati.

 

 

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