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I dati e il futuro giornalismo

Il futuro del giornalismo è sicuramente nei dati, ma non solo quelli contenuti negli enormi set sparsi sul pianeta.

 

Importanti sono anche quelli sui lettori, anche se vanno cambiate le metriche e, soprattutto, vanno tolti dalle mani di ingegneri che pensano solo agli algoritmi, opportunisti della Rete a caccia di dollari o manager  oberati di lavoro e preoccupati solo di fornire risultati quantificabili, e consegnati alle redazioni.  In modo che ogni giornalista quando lavora abbia un’ idea di quale sia il pubblico a cui la sua pubblicazione si rivolge.

 

In un momento di grande enfasi nel campo del Data journalism, Owen Thomas, su Readwrite, cerca di fare il punto sul dibattito in corso, mettendo in guardia contro un’ interpretazione troppo riduttiva del giornalismo dei dati ma, soprattutto, invitando a stare con i piedi per terra.  

 

In particolare, spiega Thomas, ‘’i dati non sono come una calamita, non sono una bussola’’. Ma se uno sa chi vuole raggiungere e che cosa spera di fare per lui, allora i dati possono ‘’aiutare a segnare la mappa nel viaggio verso la propria destinazione’’.

 

 

The Data-Driven Future Of Journalism

di Owen Thomas

(Readwrite)

 

 

Molti sembrano pensare che Jeff Bezos, il fondatore di Amazon.com, avrebbe speso 250 milioni di dollari per il Washington Post come hobby o per un gesto di beneficenza. Ma qualcuno si chiede invece quale sia il suo progetto di gestione del giornale.

 

Uno di loro è Keith Rabois,  un noto investitore nel campo delle tecnologie digitali (fra l’ altro ex dirigente di Pay Pal, tanto da essere considerato un esponente della cosiddetta PayPal_Mafia, ndr). Quando gli è stato chiesto quale sarebbe stato il valore da creare in futuro, ha risposto: ‘’La scienza dei dati’’.

 

Non solo l’ accumulo di dati disponibili a causa del crescente aumento della potenza di calcolo, della larghezza della banda e delle quantità di immagazzinamento, ma la loro applicazione intelligente per rimodellare i prodotti, le attività economiche e le industrie in un ciclo continuo di evoluzione e miglioramento .

 

Nel mondo della tecnologia, dove Bezos ha fatto le sue fortune – viene dato per scontato che uno dovrebbe usare i dati su come le persone usano un prodotto per migliorare quel prodotto e introdurre nuove funzionalità.

 

Che cosa sarebbe successo se avessimo realmente fatto questo nel mondo dei media, senza atteggiamenti di scherno, senza digrignare i denti  e senza iper-semplificare l’ enormità del compito?

 

Il ‘’Data Journalism” ha bisogno di una ridefinizione

 

Il termine “data journalism” ha finito per assumere una definizione troppo ristretta: quella di “giornalismo fatto con i data set disponibili pubblicamente”. Che sembra tristemente insufficiente, per due motivi .

 

Primo, ogni buon giornalista dovrebbe saper utilizzare tutte le fonti di informazioni accurate e tutti gli strumenti disponibili per analizzare tali informazioni. Inclusi i database e gli strumenti per gestirli ed estrarre da essi le indicazioni possibili. Non c’ è bisogno di chiamarlo “giornalismo dei dati ” . E ‘solo giornalismo.

 

Secondo, il lavoro di ricerca della notizia è necessario ma non sufficiente per praticare un atto di giornalismo . Un giornalista ha bisogno di co-llaboratori: redattori, fotografi, designer. E, ora che siamo online, bisogna aggiungere all’ elenco product manager, ingegneri ed esperti in  scienza dei dati. I dati dovrebbero informare l’ intero processo di produzione, non solo la raccolta di notizie .

 

Tra l’ altro, la nozione di data journalism sembra confinata a un concetto molto ristretto di cronaca iperlocale basata su banche dati comunali : uno sforzo lodevole, ma si risolve in una applicazione troppo ristretta e spesso insignificante di una idea potente.

 

Non fraintendetemi: mi fa piacere che qualcuno faccia l’ analisi delle ispezioni sanitarie nei ristoranti e realizzi una mappa interattiva. Ma il fatto è che noi giornalisti dobbiamo fare molto di più con i nostri dati.

 

Una conversazione con i lettori, in bit e byte

 

Perché dati sono prima di tutto le interazioni che i nostri lettori hanno con noi – leggendo, commentando e condividendo le nostre storie. Ogni servizio che pubblichiamo si lascia dietro una massiccia scia di scarico di dati. Ma noi lasciamo che gran parte di essa si dissipi come la nebbia di San Francisco in un pomeriggio di sole.

(…)

 

Ascoltare quello che i tuoi lettori dicono – e fanno

 

Ascoltare i propri lettori è una pratica antica come la pubblicazione delle lettere al direttore. La novità però è che i sistemi di analisi del web creano una conversazione implicita interessante almeno quanto quella esplicita che da tempo siamo stati in grado di avere.

 

Perché la gente legge un articolo? Come hanno fatto a trovarlo? Che ne hanno pensato? Sono le domande chiave che hanno afflitto tutti i narratori fin dagli albori della lettura.

 

La differenza è che oggi abbiamo degli strumenti migliori per ottenere delle risposte: l’ importante è usarli.

 

Gli strumenti di analytics hanno una cattiva reputazione nel campo editoriale per il loro uso – o abuso, piuttosto – da parte di siti come Demand Media o l’ Huffington Post. Ricordate gli allucinanti titoli dei giornali che chiedevano: ” A che ora inizia il Super Bowl? ” (…)

 

Testate di satira come The Onion denunciano l’ uso di questi sistemi di analisi in modo assai feroce. (…)

 

Il potere dei dati deve stare nelle mani dei redattori

 

Direi che gli attuali sistemi di ottimizzazione dei motori di ricerca  tanto astrusi sono il risultato del fatto di aver lasciato i dati nelle mani sbagliate: ingegneri più interessati agli algoritmi che alle persone, opportunisti internet a caccia di dollari, manager oberati di lavoro preoccupati solo di fornire risultati quantificabili .

 

Quello che ci serve – per lo meno, quello che sto cercando di creare a ReadWrite – non è un’adesione servile ai dati, ma un interesse concreto per le persone che compongono il nostro pubblico.

 

Abbiamo bisogno di migliori metriche, per essere sicuri . Una misura come le pagina viste è l’ approssimazione più crudele possibile delle interazioni tra scrittore e lettori. Quanto tempo trascorrono leggendo? A che ritmo fanno scorrere la pagina? Leggono con continuità o saltano avanti e indietro fra i paragrafi ? Seguono i link correlati e tornano alla pagina da cui venivano – o se ne vanno?

 

Come fanno a individuare gli articoli che leggono? E’ importante, certo, analizzare i termini più cercati sui motori di ricerca, ma essi forniscono delle domande e non delle risposte. Cosa rivelano sugli interessi e le passioni dei nostri lettori? In che contesto si pongono le domande su un argomento? Che cosa già sanno e di cosa hanno bisogno per andare più a fondo in una vicenda in corso ?

 

Suggerimenti, non ordini

 

Quando parlo in pubblico, guardo le persone per avere dei feedback. Sono appoggiate sulla schiena o sono curve in avanti? Che cosa dicono i loro sguardi? Questo mi aiuta a migliorare il mio intervento.

 

Online non è diverso, o almeno non dovrebbe essere. I sistemi di analisi sono strumenti per l’ ascolto. I dati sulla nostra audience sono un feedback, non forniscono una linea di marcia.

 

Per noi sono uno stimolo quando stiamo decidendo quali settori esplorare? Possono suggerire quale potrebbe essere un buon follow-up? Ci suggeriscono di andare più in profondità su un argomento che avevamo inizialmente programmato? Ecco, penso che questi siano i modi validi con cui i dati possono influenzare il giornalismo .

 

Infine, è necessario avere un’ idea di quale sia il pubblico a cui la tua pubblicazione si rivolge e di che tipo di giornalista tu sia. Ancora meno della calamita, i dati non forniscono alcuna guida. Ma, se tu sai chi vuoi raggiungere e che cosa speri di fare per lui, non ho nessun dubbio sul fatto che i dati possano aiutarti a segnare la mappa nel viaggio verso la tua destinazione.

 

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