Open Data – Data Journalism

Il giornalismo così come lo conosciamo sta attraversando una lunga, salutare fase di crisi economica, ma a tratti anche di identità. Salutare perché se da un lato comporta licenziamenti, chiusura di testate anche storiche, abbassamento della qualità del prodotto giornalistico, dall’altro ingenera (soprattutto grazie alle opportunità tecnologiche a disposizione) un naturale, conservativo istinto di evoluzione, innovazione, rivoluzione, come spesso si sente dire in occasione dell’ingresso di questo o quel social network nell’arena dell’informazione.

Forse si potrebbe parlare di un mutamento genetico del giornalismo, una schizofrenia che ha prodotto un’ampia gamma di giornalismi possibili: alcuni viziosi, perché magari frutto di un gigantesco ‘copia e incolla’ globale per cui miliardi di bit schizzano avanti e indietro per il Web rimbalzando la stessa ridondante notizia; molti altri, invece, virtuosi poiché innovativi, partecipativi, iper-verticali, talvolta perfino sostenibili, e comunque sempre attaccati tanto alle calcagna dei poteri forti quanto all’orecchio del cittadino, ritrovando e ottemperando ai principi fondanti oggi un po’ bistrattati dell’indipendenza, l’obiettività e la trasparenza del giornalismo.

Un’evoluzione, dunque, che riscopre ed eredita la parte migliore che il giornalismo tradizionale ha da offrire, nel tentativo di depurarsi dalle scorie accumulate in decenni di compromessi e giochi di potere tra editori, inserzionisti, istituzioni, lobby, eccetera eccetera eccetera.

È in questo contesto prevalentemente digitale di ritrovata igiene che prende gradualmente for-

ma un modello giornalistico se non completamente nuovo, senz’altro altamente innovativo nel

suo approccio multidisciplinare alla professione: il data journalism.

Come accennato, il giornalismo dei dati non è un alieno improvvisamente atterrato sul pianeta

dell’informazione terracquea, anzi, gli elementi che lo caratterizzano sono in buona parte rintrac-

ciabili in numerosi, consolidati aspetti della professione giornalistica.

Partendo dagli sviluppi più recenti, le prime avvisaglie di questo nuovo volto del giornalismo

si sono delineate con l’idea del data mining, ovvero sondare le profondità più inaccessibili del

Web incrociando i dati raccolti e ricavandone una storia. Il termine data mining ha origine dall’e-

laborazione di un sistema mai applicato per la rintracciabilità di attività terroristiche chiamato

Total Information Awareness (totale consapevolezza dell’informazione), che avrebbe previsto il

trasferimento di tutte le informazioni presenti su Internet in un enorme database, per poi usare

algoritmi informatici – le cosiddette strategie di data mining – e analisti di professione allo scopo

di identificare percorsi e associazioni prima inosservate che, invece, segnalerebbero una pianificazione terroristica.

L’applicazione in campo giornalistico di tale principio è a sua volta figlia del cosiddetto compu-

tational journalism, ovvero quel giornalismo informatico che ha reso possibili iniziative pionieristiche come EveryBlock o WatchDog.net, ma che soprattutto ha determinato un ampliamento

dei confini e degli obiettivi tradizionali del giornalismo, nonché la possibile partecipazione di un

nuovo attore nel discorso pubblico: “una nuova razza”, per dirla con Irfan Essa, professore di giornalismo informatico, “a metà strada tra i tecnici ed i giornalisti”.

E mentre questa nuova razza continua a forgiarsi con successo, vecchi attori fino a poco tempo

fa considerati come l’ennesima, salvifica rivoluzione giornalistica, rivendicano anch’essi un posto

sulla scena. Commentando le recenti vicissitudini di Wikileaks (l’incarnazione più ‘demoniaca’

del data journalism), C.W. Anderson, direttore di uno dei primi siti di citizen journalism affacciatisi sulla scena mediatica, il NYC Independent Media Center, sostiene: “Lo scontro sviluppatosi

attorno a Wikileaks, e le questioni giornalistiche che esso solleva, rappresentano degli sviluppi

effettivamente nuovi – ma si tratta di nuovi sviluppi fondati su poche tendenze a lungo termine

e su una storia che risale a quasi due decenni fa. L’impatto che Wikileaks ha sul giornalismo è

un impatto di scala piuttosto che di genere; ciò che sta accadendo non è del tutto nuovo, ma

ha dimensioni senza precedenti … La differenza tra le fotografie dei cittadini (i cosiddetti citizen

journalist, N.d.R.) e i database è una differenza di scala, e differenze di scala estreme alla fine si

tramutano in differenze di genere”.

In realtà si potrebbero rintracciare molte altre origini del data journalism, visto che la ricerca del

dato è un aspetto comune a numerose pratiche col tempo riconosciute come giornalistiche, dallo

scambio di misteriosi incartamenti consegnati in bar fumosi alle celebri soffiate avvenute presso

il Watergate Hotel, dalla fuga di notizie da parte di un dipendente aziendale all’accesso agli archivi

di istituzioni, enti o associazioni, fino al vicino di casa che scatta e condivide una fotografia o al

cittadino che con uno smartphone contribuisce alla copertura mediatica di un evento.

Di fatto, le radici tentacolari del data journalism sono riconducibili alla sua ‘enormità’, intesa non

come popolarità del fenomeno, ma come ambiti di intervento dello stesso. Ed è proprio in questa

vastità di applicazioni che consiste l’attuale unicità ed innovatività del data journalism rispetto al

passato: la tecnologia lo rende enorme, potenzialmente infinito.