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Giornalismo digitale: innovazioni e paradossi di una ‘’rivoluzione’’ ancora in cerca di un modello economico/1

Con l’ Introduzione e il Primo capitolo, Lsdi inizia la pubblicazione della traduzione integrale di “The Story So Far: What We Know About the Business of Digital Journalism”, il Rapporto pubblicato recentemente dalla CJR e realizzato da alcuni docenti e ricercatori della Columbia Journalism School – Il lavoro fa il punto sullo ‘’stato delle cose’’ dopo 15 anni di ‘’rivoluzione digitale’’ cercando di analizzare organicamente i problemi posti dall’ innovazione digitale, soprattutto sul piano economico-industriale, ma affronta anche gli aspetti che coinvolgono più direttamente la pratica e la professione giornalistica, come quelli della distribuzione e della ‘’confezione’’ dei contenuti e quindi, più in generale, del valore del prodotto

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Che tipo di giornalismo digitale il mercato potrebbe sostenere, e come?

Dedicato in particolare ai mercati Usa – con le sue non secondarie peculiarietà – il Rapporto  pubblicato dalla Columbia Journalism Revue col titolo “The Story So Far: What We Know About the Business of Digital Journalism”, offre delle risposte interessanti e utili anche a livello globale, perché rappresenta il primo tentativo organico di analizzare i problemi posti dall’ innovazione digitale e il suo impatto, soprattutto sul piano economico-industriale.

Il lavoro – curato da Bill Gueskin, Ava Seave e Lucas Graves, docenti e ricercatori della Columbia Journalism School – fa il punto sullo ‘’Stato delle cose’’ e affronta anche altri aspetti chiave della ”rivoluzione” digitale, che coinvolgono più direttamente la pratica e la professione giornalistica, come quelli della distribuzione e della ‘’confezione’’ dei contenuti e quindi, più in generale, del valore del prodotto.

Anche per questo Lsdi (che ne ha già parlato qui e qui) ha deciso di tradurre il Rapporto integralmente e comincia oggi a presentarne Introduzione e Primo capitolo, a cui seguiranno via via gli altri capitoli.

La traduzione è a cura di: Valentina Barbieri, Elena Bau, Stefania Cavalletto, Claudia Dani e Andrea Fama.

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” Siamo partiti da un ‘pregiudizio’ – raccontano gli autori nell’ Introduzione -: siamo convinti che il mondo abbia bisogno del giornalismo e dei giornalisti. Salutiamo con piacere l’ enorme possibilità di accesso ai dati e alle informazioni che hanno ora i cittadini, sottolineando però come molto di ciò di cui l’ America ha bisogno di conoscere rimarrebbe oscuro senza il lavoro di giornalisti capaci e indipendenti. Il lavoro nelle forme tradizionali del giornalismo, ma anche come aggregazione delle informazioni provenienti da altre fonti o come selezione e presentazione di dati in modo tale da renderli accessibili e comprensibili”.

Il giornalismo digitale ”è un settore talmente dinamico che alcune delle nostre rilevazioni e delle conclusioni raggiunte nel maggio 2011 saranno superate nel giro di pochi mesi” – spiegano – ”ed è per questo che il nostro studio non si conclude con delle previsioni, ma con delle raccomandazioni su come le imprese dell’informazione – grandi e piccole, nuove e vecchie – possano affrontare in maniera più efficace le sfide poste dalla trasformazione digitale”.

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Notizie da ovunque: la struttura economica del giornalismo digitale

Un primo apparente paradosso. Mentre i modelli economici dei media tradizionali, a 15 anni dall’ avvento del digitale, risultano irrevocabilmente stravolti, perché la tecnologia digitale – così dirompente nella diffusione dell’informazione – non è ancora riuscita a spingere le imprese verso la conservazione e l’ aumento dei profitti?

I media tradizionali, in realtà, avevano iniziato a perdere pubblico anche prima della diffusione di Internet. I programmi tv di informazione negli Stati Uniti hanno meno della metà degli sdpettatori di 30 anni fa. La tiratura complessiva dei quotidiani è crollata del 30% in 20 anni, passando da 62,3 milioni nel 1990 a 43,4 milioni nel 2010. Le entrate, tuttavia, per gli editori tradizionali sono rimaste stabili o sono addirittura cresciute, nonostante la contrazione dell’ audience. Questi parametri sono rimasti validi anche nei primi giorni del Web, in parte grazie alla bolla pubblicitaria generata dal boom di Internet.

Per cominciare a capire la rivoluzione copernicana digitale, secondo il Rapporto, è necessario conoscere le ragioni per cui il business dell’ informazione – broadcast, cavo, riviste o giornali – è rimasto redditizio così a lungo.

Le spiega in parte l’ analisi dell’ evoluzione del mercato Usa, dove, ad esempio, a cavallo degli anni 50 si è cominciata a consolidare una situazione di monopolio dei singoli mercati urbani da parte di una sola testata, che faceva capo a ”editori che avevano iniziato ad allentare i propri legami con i partiti politici e a pensare a sé stessi come uomini d’ affari indipendenti”. Un processo in cui la pubblicità ha giocato un ruolo determinante – tanto che negli Usa i ricavi pubblicitari costituiscono per i quotidiani tradizionali quasi l’ 80% dei ricavi globali – con gli editori che ”hanno cominciato a capire che avrebbero potuto ricavare gran parte delle entrate dalla pubblicità delle attività commerciali al dettaglio, piuttosto che dai lettori che pagavano qualche penny in strada per acquistare il giornale”.

Così, la condizione di monopolio, o di oligopolio, di cui hanno goduto la maggior parte delle testate urbane a partire dagli ultimi 25 anni del ventesimo secolo si è tradotta nella possibilità da parte dei giornali di imporre tariffe elevate agli inserzionisti, nonostante la diminuzione dei lettori.

Questo scenario è cambiato dopo il 2001. La recessione frutto dell’ 11 settembre – osservano gli autori – ha imposto a molte testate di tagliare le spese, riducendo le spese pubblicitarie. Ma, soprattutto, con l’ accelerazione della trasformazione digitale si è affermata tra gli utenti l’ abitudine a fruire gratuitamente dell’ informazione sui propri computer, spezzando il legame tradizionale fra la fruizione dell’ informazione da parte dell’ utenza e l’ attività editoriale, e producendo un’ ondata di nuovi concorrenti. Craiglist ha contribuito a devastare il sistema dei piccoli annunci (principale fonte di entrate per i giornali) e, nel 2008, la profonda recessione alimentata dalla crisi finanziaria ha minato il mercato pubblicitario degli annunci immobiliari e di quelli di lavoro.

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La migrazione verso il digitale non ha trasformato solo il business dell’informazione, ma anche il modo in cui le notizie vengono riportate, aggregate, diffuse e condivise. Ognuno di questi cambiamenti ha un proprio fondamento economico, e i media si sono rivelati talvolta lenti nel fiutare la metamorfosi, quando non sono rimasti paralizzati dall’impatto.

Il Rapporto elenca alcuni dei cambiamenti più significativi introdotti dall’ era digitale e illustra gli impatti – positivi e negativi – che le innovazioni possono produrre sul piano della resa economica.

Con effetti anche ”paradossali”: come quello per cui, ad esempio, utenze più ampie non sempre si traducono in entrate più consistenti; in altre parole, è possibile che il pubblico di un sito cresca, senza per questo registrare una crescita uguale o superiore delle entrate. Come rivela un recente studio di McClatchy Co., il terzo editore statunitense, nel 2010 i visitatori unici giornalieri dei siti Web del gruppo sono cresciuti del 17,3%, mentre le entrate del comparto digitale hanno registrato un ben più esiguo + 2,4% .

Oppure il fatto che, di fronte alIe possibilità offerte dal digitale di innovare rapidamente, determinare l’ entità della propria utenza agevolmente e chiudere le imprese infruttuose con spese minime, la capacità di imitazione e adattamento dei concorrenti rende le innovazioni difficilmente monetizzabili. Cicli più brevi possono ridurre il periodo di unicità, rilevanza e valore delle innovazioni.

Ancora, la perdita del ”potere legato alla confezione dell’ informazione”, che consentiva di vendere la pubblicità come se il lettore sfogliasse ogni singola pagina di un giornale e lo spettatore non perdesse un solo fotogramma. Di fatto, sulla carta stampata si utilizzava un moltiplicatore – spesso fino a 2,5 – per calcolare i lettori di ogni edizione venduta”. Ora, il digitale ha cancellato quel modello di aggregazione dell’ informazione rendendo la diffusione dei contenuti molto più atomizzata. Oltre a togliere parecchia voce in capitolo agli editori (e alle redazioni) sul modo con cui i loro contenuti vengono accolti, visto che tutti possono commentare gli articoli, anche in maniera pesante.

Il digitale, inoltre, consente di tagliare i costi del giornalismo, soprattutto attraverso il coinvolgimento dei cittadini nella produzione di contenuti e nella partecipazione attiva attraverso i commenti. Ma qualità, accuratezza e autorevolezza sono fortemente variabili e suscettibili di manipolazione.

Per quanto riguarda la pubblicità, infine, poiché il costo per creare una nuova pagina Web è vicino allo zero, le testate possono offrire una gran varietà di prezzi, prevedendo i prezzi più alti per le fasce orarie, il posizionamento e l’utenza più appetibili. Tuttavia, l’imprevedibilità delle visualizzazioni spinge costantemente i prezzi delle inserzioni online verso il basso.

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In conclusione, ”risulta evidente – osserva il Rapporto – che i gruppi editoriali hanno ben presenti gli ostacoli di natura economica posti dal mezzo digitale, mentre molti dei benefici, come l’ esplosione delle inserzioni su mobile, sono più potenziali che reali. Allo stesso tempo, stanno emergendo nuovi modelli che potrebbero sostituire alcune, se non tutte, le entrate su cui hanno fatto finora affidamento i gruppi editoriali. Sullo sfondo, giornalisti ed editori, nuovi e vecchi, stanno reagendo con modalità diverse a questo nuovo ambiente”.

Nei capitoli successivi -, che pubblicheremo nei prossimi giorni – il Rapporto esamina appunto le trasformazioni e gli sforzi compiuti per vincere le sfide dell’ era digitale.

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Qui sotto i link all’ Introduzione e al Primo capitolo del Rapporto:

Introduzione

Capitolo 1

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