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Dai primi contatti a Bruxelles al ‘bunker ‘ di Londra: storia e retroscena dei ‘diari afghani’ di WikiLeaks

Il sito della Columbia Journalism Review ricostruisce il modo con cui è maturata la pubblicazione dei quasi 92.000 documenti riservati pubblicati lunedì partendo dal ruolo di Nick Davies, un giornalista del Guardian che a giugno è riuscito a raggiungere in Belgio il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, e lo ha convinto a condividere l’ enorme massa di documenti col suo giornale (ma Assange ha poi voluto l’ intervento anche di New York Times e Der Spiegel) – Nel “bunker” a Londra dove il materiale è stato analizzato e redatto ore di lavoro in segreto incollati ai computer, senza poter trasmettere e-mail e parlando con telefoni criptati –  Fra le tre testate era nata “una collaborazione insolita e toccante”, ma il rapporto con Assange era rimasto il rapporto con una fonte, sebbene molto particolare – Anche se  la condivisione delle informazioni consentiva ad ogni testata di farsi un’idea sul lavoro che ciascuno dei tre giornali stava conducendo, a nessuno era consentito di addentrarsi negli specifici articoli.  Né vi è stata una condivisione di bozze o copie dei pezzi – “Assange non pubblica i documenti per il gusto di farlo. Li pubblica perché vuole che il mondo comprenda, qualunque sia la natura delle informazioni rivelate. E la nostra operazione ha notevolmente concretizzato questa possibilità”.

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The Story Behind the Publication of WikiLeaks’s Afghanistan Logs
From Brussels, to a bunker, to blockbusters
di Clint Hendler
(da Cjr)
(traduzione di Andrea Fama)

Non staremmo leggendo i cosiddetti diari afgani – vedi New York Times, Der Spiegel e The Guardian – se il giornalista inglese Nick Davies non avesse rintracciato Julian Assange, fondatore di Wikileaks, un mese fa a Bruxelles.

L’interesse di Davies è scattato a metà giugno, quando il nome di Bradley Manning, un giovane analista dell’ intelligence militare USA nonché presunta fonte di diverse rivelazioni di alto profilo pubblicate da Wikileaks, è comparso in alcune trascrizioni in cui si affermava che era stato lui a divulgare del materiale diplomatico tenuto segreto.

Qualunque fosse la posizione di Assange, e chiunque fosse la sua fonte, Davies sapeva che Wikileaks avrebbe pubblicato dell’ altro materiale,  e sperava di convincerlo a mettere il Guardian a conoscenza di ogni altra pubblicazione prima di sbandierarla sul proprio sito.

Dopo diversi tentativi di raggiungere Assange via e-mail, Davies ha contattato alcune persone a lui vicine, nella speranza di raggiungerlo e sedurlo. Uno di questi contatti gli ha suggerito che Assange avrebbe tenuto fede all’ impegno preso di parlare dinanzi al Parlamento Europeo nella seduta di martedì 21 giugno, nonostante le voci di una caccia all’uomo che lo circondavano. Davies ha così chiesto ad un giornalista del Guardian distaccato a Bruxelles di raggiungere Assange ed informarlo del fatto che lui lo stava cercando. “Mentre in treno attraversavo il Canale, cercavo di immaginare cosa gli avrei detto”, ricorda Davies. “Non avrebbe certo funzionato se gli avessi detto ‘Sono un avido giornalista, vorrei mettere le mani su tutte le tue informazioni e pubblicarle sul mio giornale”.

Al contrario, Davies aveva in programma di dire ad Assange che il Guardian voleva dedicare un team per l’ individuazione di documenti che Wikileaks teneva ancora in archivio e che avrebbero potuto beneficiare di un lavoro di ricerca più scrupoloso, documenti che lo stesso Guardian avrebbe pubblicato o passato ad altre testate.

Davies  riferisce che il 22 giugno, durante un incontro di sei ore in un bar di Bruxelles, Assange abbia suggerito un’altra idea, ovvero che Wikileaks avrebbe concesso al Guardian ed al New York Times di dare uno sguardo ad alcune informazioni relative alla guerra in Afghanistan, da cui poi le due testate avrebbero potuto trarre un articolo da pubblicare. Secondo Davies, inoltre, Assange lo avrebbe ricontattato nel giro di 24 ore dicendogli che anche Der Spiegel sarebbe dovuto essere coinvolto.

Condividere l’ offerta di Assange via telefono non era una mossa saggia, così il giorno seguente Davies è tornato in Inghilterra per riferire tutto a Alan Rusbridger, redattore capo del Guardian, il quale ha a sua volta chiamato Bill Keller e, in seguito, Mathias Müller Von Blumencron, redattori capo presso il New York Times ed il Der Spiegel.

Rusbridger dice di aver informato Keller circa i termini dell’accordo: sebbene non fosse stata fissata una data per la pubblicazione, WikiLeaks avrebbe acconsentito a tenere i documenti secretati per “qualche settimana”. Tutte le altre testate avrebbero pubblicato simultaneamente con WikiLeaks una volta che quest’ultima avesse stabilito la data di pubblicazione. E tale data doveva essere valere sia per il settimanale Der Spiegel che per gli altri due quotidiani. Alla fine si è optato per domenica 25 luglio, alle 22:00 ora di Londra. (Rusbridger racconta che, vista “la mole di lavoro necessaria a dare senso ai documenti raccolti”, le testate hanno chiesto e ottenuto da Assange una proroga rispetto alla scadenza originaria. Secondo Davies, tale proroga è quantificabile in circa una settimana).

Nel frattempo, a Washington, un reporter del Times, Eric Schmitt, aveva appena fatto ritorno da una missione in Iraq. Il suo capo, Dean Baquet, lo avvertì in merito ad una repentina inversione di marcia per intraprendere un “progetto speciale” a Londra. Schmitt racconta di un briefing avuto con Keller, dopo il quale è stato spedito a Londra nella tarda giornata di sabato 26 giugno. Dopo aver pranzato domenica insieme a David Leigh, redattore investigativo del Guardian, Schmitt è stato condotto in una stanza che i giornalisti alle prese con i documenti riservati chiamavano “il bunker”.

La stanza – appartata su un piano lontano dagli sguardi indiscreti della redazione – contava due file da cinque-sei scrivanie, una di fronte all’altra. Una parete-finestra guardava attraverso l’edificio che ospita gli uffici del Guardian.

Davies era impegnato in ulteriori incontri con Assange a Stoccolma e, fino a lunedì, quando raggiunse il bunker, non era pienamente al corrente del tumulto in cui aveva catapultato l’ufficio di Londra.

“Fino a quel momento lavoravamo ancora in uno stato d’ansia, e non ricevevo telefonate dall’Inghilterra. Se i reparti di intelligence americani e inglesi avessero fatto per bene il proprio lavoro, allora si sarebbero dovuti chiedere cos’ altro avrebbe pubblicato WikiLeaks”.

Quando John Goetz, reporter di Der Spiegel, è stato per la prima volta invitato a Londra, l’atmosfera era simile.

“Il mio capo mi disse che c’era  in ballo un progetto tanto eccitante quanto segreto. Tanto che non avremmo dovuto parlarne al telefono”, ricorda Goetz. “Molte cose non erano chiare, e la questione sicurezza era incombente. Non potevamo scrivere e-mail e si parlava con telefoni criptati”:

Goetz arrivò al bunker mercoledì 30 giugno. Quello stesso pomeriggio fece capolino anche Assange.

Assange, alla luce della detenzione di Manning, temeva che egli stesso, o altre persone coinvolte con WikiLeaks, potessero essere arrestate o costrette a fronteggiare situazioni scomode. Se qualcosa del genere fosse accaduta, l’impressione era che Assange fosse determinato a pubblicare immediatamente i documenti su WikiLeaks, a prescindere se le altre tre testate fossero pronte o meno.

“All’inizio sembrava che dovessimo muoverci davvero in fretta”, afferma Davies.

I giornalisti a lavoro nel bunker analizzavano un data base grezzo su computer della Apple forniti dal Guardian. Hanno iniziato a scorrere i documenti, cercando di scovare le storie più interessanti tra le migliaia di contenuti segreti.

“A quel punto si trattava di un immenso foglio Excel”, afferma Schimtt. “Per qualche strana ragione, i dati iniziavano nel gennaio 2004 e terminavano nell’aprile 2009, e non riuscivamo a capire perché finisse proprio lì. Poi Assange ci disse che i dati contavano – bisognava aprire un nuovo schermo o qualcosa del genere … Era chiaro che avremmo avuto bisogno di un’assistenza tecnica”.

Lo staff informatico del Guardian ha cercato di rendere il data base più semplice da usare, ma Schmitt decise che avrebbe dovuto far avere una copia dei documenti anche a New York. WikiLeaks e lo staff tecnico del Times hanno lavorato ad un metodo per trasferire in modo sicuro le informazioni ad un team del New York Times.

Con le copie dei documenti ormai fuori dal bunker, non c’era motivo perché Schmitt e Goetz restassero a Londra. Partirono venerdì. Schmitt non fece vi fece più ritorno, ma Goetz si recò altre due volte a Londra con un collega, anche per intervistare Assange, il quale era rimasto nella capitale inglese, dormendo anche sul divano di Davies nel Sussex.

Da mercoledì fino al giorno della partenza i giornalisti hanno collaborato nel tentativo di definire il contenuto dei diari.

“Ognuno era incollato al proprio schermo in modo autistico”, ricorda Goetz. “Siamo stati tutto il tempo a vagliare documenti, parlando a voce alta tra noi e informandoci su quanto trovavamo di volta in volta”.

Prima di lasciarsi, i giornalisti delle tre testate si sono seduti a un tavolo per dividersi alcuni compiti. Der Spiegel si è offerto di verificare la documentazione relativa agli incidenti riportati in Parlamento dall’esercito tedesco – in parte come lavoro di ricerca, in parte come verifica dell’autenticità – per poi condividerne i risultati. Davies, Goetz, Leigh e Schmitt si sono confrontati su aree di interesse da cui lo staff del New York Times avrebbe potuto ricavare storie significative da condividere. Der Spiegel e Guardian hanno svolto le proprie ricerche, e hanno condiviso risultati, termini di ricerca e metodologie.

“Siamo riusciti a far sì che le tre testate avessero tutte lo stesso materiale sotto la stessa voce, e ognuno di noi ha proceduto separatamente nella stesura dell’articolo”, racconta Davies del Guardian. “È stata una collaborazione insolita e toccante”.

Sebbene da allora Assange abbia parlato in modo da suggerire che WikiLeaks avesse collaborato giornalisticamente al progetto, i giornalisti tradizionali coinvolti non concordano con tale descrizione.

Alla conferenza stampa di lunedì, Assange ha affermato che, insieme al Guardian “a Der Spiegel e New York Times, abbiamo collaborato al lavoro sul materiale a nostra disposizione”. Il sito di WikiLeaks, poi, presentava le tre testate come “media partner”.

“Negli ultimi giorni Julian Assange parlava di questa collaborazione facendo intendere che  avessimo lavorato insieme”, sostiene Schmitt. “In realtà, non abbiamo affatto collaborato con lui in tal senso. Il nostro è stato un rapporto con una fonte, mentre ascoltando lui sembra che fosse nata una sorta di collaborazione giornalistica tra WikiLeaks, New York Times, Guardian e Der Spiegel, ma non è andata così”.

“Entrava e usciva dal bunker”, ricorda Schmitt. “Gli facevamo domande su alcuni dati, e a determinate richieste di informazioni non rispondeva. Se gli chiedevamo dove avesse preso il materiale, non rispondeva. Lo hai avuto da Bradley Manning? Stessa risposta. Ci saranno altri documenti? Niente da fare. Era molto riservato su questi aspetti”.

John Goetz racconta che lui, Eric Schmitt e Nick Davies hanno cenato due volte con Assange fuori dall’edificio durante la loro permanenza a Londra.

“Si trattava di una continuazione del lavoro”,  ricorda Goetz, aggiungendo che durante le cena “si parlava di materiale che avevano visto e che avevano reputato interessante … la cena non era un momento in cui si smetteva di parlare del nostro progetto comune”.

“È nata una collaborazione davvero interessante tra le tre testate. Ma Julian, lui è una fonte”, commenta Davies. “Tutt’e tre le testate lo hanno intervistato per scriverne un profilo, spiegare alcuni aspetti del materiale segreto, metterlo alla prova su determinate questioni. E lui era lì per assolvere a questa funzione”.

Anche Goetz e Davies dichiarano di aver parlato con Assange invitandolo a fare attenzione al danno letale che sarebbe potuto derivare per le persone che si sarebbe potuto identificare sulla base del materiale laddove questo fosse stato pubblicato senza un lavoro di redazione alle spalle.

Sebbene la condivisione delle informazioni – che si è protratta ben oltre la separazione geografica del gruppo – consentisse ad ogni testata di farsi un’idea sul lavoro che ciascuno dei tre giornali stava conducendo, a nessuno era consentito addentrarsi negli specifici articoli.  Né vi è stata una condivisione di bozze o copie dei pezzi.

“Domenica notte, quando tutto è stato messo on-line alle 22:00 ora inglese, ce ne stavamo seduti a chiederci che cosa avessero scritto Eric o Goetz”, racconta Davies.

Dall’ insieme del lavoro delle tre pubblicazioni emergeva  un’ analisi dettagliata e contestualizzata dei data-base ostici e confusionari che erano stati originariamente messi a disposizione dei giornalisti. Secondo Davies, l’ alto profilo redazionale delle forze messe in campo per lavorare sui diari afgani corrispondeva esattamente a quanto auspicato dallo stesso Assange un mese prima in Belgio, quando aveva parlato della volontà di condividere in anteprima il proprio materiale con delle testate giornalistiche tradizionali, invece che pubblicare semplicemente i documenti un tempo segreti sul sito di Wikileaks, come era solita prassi.

“Ricordo che Assange parlò del problema relativo alla pubblicazione on-line di materiale ‘grezzo’. In effetti, nessuna testata investirebbe settimane nel tentativo di dare un senso alla documentazione giacché, per quel che ne sanno, è assolutamente possibile che proprio dietro l’angolo un altro giornale ci stia già lavorando e, due giorni prima di esser pronti per la pubblicazione, li potrebbe bruciare sul tempo vanificando ogni sforzo”, commenta Davies. “Assange non pubblica i documenti per il gusto di farlo. Li pubblica perché vuole che il mondo comprenda, qualunque sia la natura delle informazioni rivelate. E la nostra operazione ha notevolmente concretizzato questa possibilità”.

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