Una amara riflessione di Fabiano Avancini pubblicata su Fotografia&informazione. Una doppia spinta, alla banalizzazione e all’ appiattimento
Avancini non dà una risposta esplicita, ma il suo ‘’racconto’’ (qui)
parla di una dissoluzione in parte già cominciata.
Lenta dissoluzione del fotogiornalismo prende spunto da un’ analisi impietosa e raggelante della povertà delle gallerie fotografiche dei principali giornali italiani realizzate per le edizioni on line, ma – spiega con una serie di incursioni – non è che all’ estero le cose vadano meglio.
Se ad esempio al New York Times, con una sezione relativa alla Bosnia, ‘’sono stati credo tra i primi a sperimentare le potenzialità dell’ipertesto applicate al reportage fotografico di un certo spessore, evitando facili semplificazioni a mezzo immagine e senza chiamare la foto:-“multimediale”, altrove, come ‘’nel Miami Herald possiamo trovare, al contrario, simpatiche foto di Miami; e della vita in quella citta. Come riescono a cavarsela gli abitanti tra cani, famiglie, obesità e bambini; il più classico giornalismo di provincia. Un semplice contenitore di pubblicità e lifestyles”.
”Nel Washington Post invece si ha la conferma che nei paesi anglofoni australi non hanno altro da fare se non giocare a criket, o inseguire pinguini; che alcuni indossano (proudly) il kilt anche nell’affermare i diritti delle balene; che in Africa muoiono di fame (la volta che arriva una notizia diversa come la mettiamo?); che i Maomettani hanno il turbante e prendono il bus per fare gli attentati; che i cinesi sono tanti e in pieno boom economico e che i neri giocano meglio a basket. Tutto sotto controllo, as usual: anche oggi gnocchi”.
Complessivamente – rileva Avancini – ‘’possiamo notare una ripetitività iconografica alienante.
Quasi i giorni non passassero, quasi le notizie fossero sempre le stesse. Il quotidiano del mese scorso è uguale. Quasi cambiassero solo: data, luogo e autore.
Volendo sofisticare, entrando nel particolare, si può notare una recrudescenza dell’iperrealismo: sembra quasi che le macchine digitali obblighino, con maschere di contrasto, profili colore o altro, gli utenti (e che non crediamo di essere fotografi: siamo utenti, capiamolo) a propagandare una realtà senza sfumature: senza l’intera gamma tonale percorribile.
E la “qualità d’immagine” è ormai un concetto obsoleto.
Il tutto a favore della possibilità di essere, con scatti in sequenza, professionisti senza professionalità .
Utenti felici:-“you got it”.
Troviamo anche alcuni siti dove la foto non esiste ancora, tantomeno la galleria fotografica.
E’ presto spiegato: nel mondo occidentale la “banda” ha raggiunto velocità di trasferimento dati che permettono di pubblicare immagini con una risoluzione più che decente. Nei paesi emergenti non possono pubblicare immagini con la stessa facilità e non ne possono fruire con la stessa velocità .
Il prodotto offerto in internet, da multimediale, ritorna ipertestuale. Visto che in internet troviamo una fotografia a due velocità , ci chiediamo nella realtà quale fotografia rimane?
Abbiamo una fotografia del fotografo che ritrae se stesso, e propaganda la sua cultura, la sua civiltà , facedo bene i compiti. O abbiamo qualcuno che si accorge di avere un “soggetto” davanti e che forse (nel tributo ad esso, di dignità e rispetto) non ritiene giusto usare schemi compositivi, di altri, per riportare le informazioni ed esprimere nel migliore dei modi la complessità di una “notizia”.
Essendoci una doppia spinta alla banalizzazione e all’appiattimento, da chi sceglie le foto e da chi le scatta, rimane da chiedersi:-“qual è il punto di dissoluzione del fotogiornalismo?”.