
Il giornalismo così come lo conosciamo sta attraversando una lunga, salutare fase di crisi economica, ma a tratti anche di identità. Salutare perché se da un lato comporta licenziamenti, chiusura di testate anche storiche, abbassamento della qualità del prodotto giornalistico, dall’altro ingenera (soprattutto grazie alle opportunità tecnologiche a disposizione) un naturale, conservativo istinto di evoluzione, innovazione, rivoluzione, come spesso si sente dire in occasione dell’ingresso di questo o quel social network nell’arena dell’informazione.
Forse si potrebbe parlare di un mutamento genetico del giornalismo, una schizofrenia che ha prodotto un’ampia gamma di giornalismi possibili: alcuni viziosi, perché magari frutto di un gigantesco ‘copia e incolla’ globale per cui miliardi di bit schizzano avanti e indietro per il Web rimbalzando la stessa ridondante notizia; molti altri, invece, virtuosi poiché innovativi, partecipativi, iper-verticali, talvolta perfino sostenibili, e comunque sempre attaccati tanto alle calcagna dei poteri forti quanto all’orecchio del cittadino, ritrovando e ottemperando ai principi fondanti oggi un po’ bistrattati dell’indipendenza, l’obiettività e la trasparenza del giornalismo.
Un’evoluzione, dunque, che riscopre ed eredita la parte migliore che il giornalismo tradizionale ha da offrire, nel tentativo di depurarsi dalle scorie accumulate in decenni di compromessi e